di Sandro Moiso

[Qui la prima parte di questo articolo.]

«Le decisioni che prenderemo sull’energia proveranno il carattere del popolo americano e la capacità di governare la nazione da parte dei presidente e del congresso. Questo nostro sforzo sarà l’equivalente morale di una guerra.» (Presidente Jimmy Carter, 18 aprile 1977)

Nessun governo o partito può essere realmente ‘amico’ dei movimenti che lottano contro l’estrattivismo, in difesa dei territori e del futuro della specie, così come hanno dimostrato gli ultimi voltafaccia pentastellati a proposito delle grandi opere inutili, ma non bisogna mai dimenticare che il grimaldello per scardinare i diritti e i provvedimenti in difesa dei territori e dei lavoratori è stato troppo spesso fornito dalle forze che si vorrebbero e che si sono sempre sfacciatamente dichiarate democratiche e ‘progressiste’, come l’affermazione dell’ex-coltivatore di arachidi della Georgia, nonché ex-membro della Commissione Trilaterale e premio Nobel, posta in esergo rivela abbastanza chiaramente.

Le differenti forme di pacificazione, infatti, non dipendono dalla qualità dei governi in carica, ma dalle differenti strategie da questi messe in atto per cercare di colpire, frantumare e distruggere i movimenti che ad essi si oppongono.
Da questo punto di vista, ad esempio, le sanzioni amministrative e le pene pecuniarie messe in atto, sempre più spesso, nei confronti degli oppositori dalla Val di Susa al Salento agli Stati Uniti non hanno tanto la funzione di ‘ammorbidire’ gli strumenti repressivi, quanto piuttosto quello di rendere più flessibile e invasiva la pacificazione stessa.

Ad esempio, le pesanti sanzioni pecuniarie adottate dallo Stato contro una parte dei militanti del Movimento No Tav sembra rispondere a una logica di differenziazione della repressine per fasce d’età, cercando di colpire maggiormente i più giovani con la minaccia di lunghi periodi di reclusione e i più anziani con una piuttosto pesante nei confronti dei beni risultanti da una vita di lavoro (casa, risparmi, etc.). Anche se poi, come dimostra la più recente sentenza a carico di 16 militanti di varia età, la condanna alla pena detentiva sembra essere spesso quella più apprezzata dai pubblici ministeri (anche a costo di vedersela dimezzare com’è avvenuto proprio nel corso dell’ultimo processo per i fatti del 28 giugno 2015).

Altri strumenti selettivi di carattere pecuniario, come diversi relatori hanno confermato nel corso del workshop internazionale di Melendugno, possono essere collegati ad una differente ripartizione dei risarcimenti offerti agli abitanti dei territori interessati dal fracking, dalla costruzione di grandi opere o da tutti gli altri aspetti di ‘estrattivismo’ di cui si è precedentemente parlato.
Ripartizioni che in alcuni casi possono essere del 100% della cifra promessa oppure del 30% o anche del tutto assenti, a seconda della partecipazione o meno delle comunità o dei singoli individui alle lotte di opposizione ai progetti proposti in loco.

Uno strumento utile quindi, là dove riesce a far breccia, a dividere le comunità e i comitati di lotta sulla base di interessi economici e a sviluppare all’interno di esse rivalità ed egoismi legati all’interesse privato o alla salvaguardia delle proprietà famigliari.
Che, come ad esempio negli Stati Uniti nei territori ormai sempre più ampi interessati dal fracking, può essere costituito da bollette energetiche differentemente ripartite tra comunità e comunità, anche qui a seconda delle resistenze che in esse si manifestano contro la devastazione ambientale.

Bollette che colpiscono la comunità anche se i resistenti in essa presenti sono una minoranza, cercando così di scatenare un’autentica “caccia alle streghe” nei confronti di chi resiste oppure fa propaganda per la resistenza e delegando quindi alla comunità nel suo insieme il compito di autogestire la pacificazione. Forma sottile e subdola per giungere ad una frammentazione ed esclusione interna di quella che potrebbe diventare o già essere invece una comunità resistente.

Anche in ciò può consistere quel «Restringimento degli spazi per i movimenti italiani in difesa dell’ambiente» di cui ha parlato in apertura del convegno Italo Di Sabato dell’Osservatorio sulla repressione. Ma questa modalità operativa può essere classificata anche secondo quelle modalità di costruzione del diritto penale del nemico sul quale si sono espressi i membri del collettivo Prison Break Project parlando, appunto, di «Il ‘nemico interno’: repressione dei movimenti e criminalizzazione penale del nemico».

Quest’ultimo punto, però, ha anche a che fare con quella costruzione dell’immaginario che troppe volte il movimento antagonista ha sottovalutato, rischiando così di affrontare il proprio nemico, sostanzialmente il capitalismo estrattivista e non, rimanendo nell’ambito ‘territoriale’ politico, economico e giuridico definito a priori dallo stesso. Come ha rimarcato il già precedentemente citato professor Michele Carducci.

Immaginario che, come s è appena detto, investe anche la nozione di ‘progresso’ sociale e economico e tutte le teorie che ne derivano. Soprattutto nella sinistra partitica tradizionale e che soltanto i movimenti reali dal basso e sui territori iniziano, per intrinseca necessità, a scalzare. Opera di scalzamento che, in futuro, costringerà i movimenti, e coloro che li studiano ed appoggiano, a fare i conti con le differenti narrazioni storiche, economiche e socio-antropologiche che fondano l’esistente e che entrano, ancora oggi, a far parte dell’opera di pacificazione culturale messa in atto da sempre dalle classi dirigenti e (al momento) vincitrici. Una cancellazione della memoria che va ben al di là della banalizzazione della ‘memoria’ costantemente rivendicata dalla vulgata antifascista e democratica, sempre comunque fedele alla ‘memoria’ di un ordine liberale e democratico mai realmente esistito. Nemmeno nel ricco Occidente.

La violenza dello sradicamento della comunità umana e delle sue sopravvivenze, che l’attualità riporta alla ribalta e all’attenzione, è stata tale da far dimenticare che quell’Occidente colonialista con cui oggi dobbiamo ancora fare i conti, qui a casa come nel resto del globo, prima di poter essere tale dovette rimuovere al suo interno tradizioni e comunitarismi che impiegarono secoli ad essere piegati alla logica del mercato, della proprietà privata dei beni comuni e degli stati nazionali unificati da religioni uniche e autoritarie, oltre che accentratrici del potere.

Ben prima della Rivoluzione industriale e dell’Illuminismo che, al contrario di quanto troppo spesso si è creduto, più che rappresentare la liberazione delle forze produttive ed intellettuali del continente europeo, segnarono la fase finale di un processo di assoggettamento delle comunità ai principi dell’appropriazione privata e soggettiva della ricchezze e dei beni prodotti e utilizzati collettivamente. E che, sostanzialmente, costituirono la pietra tombale su ogni forma di comunitarismo derivante dalle organizzazioni sociali che erano esistite per millenni senza stato e senza appropriazione privata dei suoli e dei beni e dei saperi prodotti collettivamente.

Oggi i movimenti hanno bisogno di confrontarsi al di là delle barriere nazionali, come l’assemblea del venerdì sera ha potuto dimostrare, e di dar vita a nuove forme di coordinamento, organizzazione e interazione su scala locale e internazionale, proprio a partire dal fatto che la socializzazione delle lotte, della resistenza alla pacificazione e dei loro risultati non è più legata a principi di carattere ideologico ma ad una reale necessità dovuta al fatto di riconoscersi gli uni negli altri. Al di là della lingua, del colore della pelle o della collocazione a Nord o a Sud del mondo. Nonché realizzando già nei fatti, qui e adesso, una vita migliore per gli attivisti, i militanti e i membri delle comunità che resistono insieme alla pervasività del capitalismo estrattivista. Proprio come ha sostenuto, nel suo applauditissimo intervento serale, Guido Fissore del Movimento No Tav valsusino.

Lotte in cui la massiccia presenza delle donne e l’importanza del loro ruolo al loro interno, dal Rojava alle comunità indigene fino a Taranto, Melendugno, Val di Susa e in qualsiasi luogo di difesa della Terra e dei suoi abitanti presenti e futuri, rivelano come la riduzione a servaggio della condizione femminile e la riduzione dell’autonomia delle stesse all’interno delle società sia servita proprio ad attaccare e frantumare quelle comunità che oggi vanno gradualmente ricomponendosi, grazie proprio alla ripresa e riaffermazione di un modello femminile collettivo di lotta e partecipazione molto distante da quello riproposto da quello della “donna in carriera” pubblicizzato dai media, da Hollywood e dall’immaginario borghese.

Dal giorno di Piazza San Giovanni, nel 2011, ad oggi gli attivisti indagati in Italia sono arrivati ad essere 15.782, 852 quelli arrestati, 345 quelli colpiti da fogli di via e 241 quelli condannati alla detenzione. Proviamo a sommarli a quelli colpiti nel resto del mondo, più o meno per gli stessi motivi, e ai morti ammazzati (che a certe latitudini aumentano vertiginosamente) ed è difficile non comprendere che ci si trova davanti ad una autentica guerra civile mondiale condotta dal capitale e dai suoi funzionari, in divisa e non, contro i movimenti, le comunità e i territori.

Un capitale che cerca in ogni modo di liberare al massimo, più ancora che liberalizzare, la propria azione di estrazione di valore da qualsiasi vincolo politico, sociale, legale e ambientale. Un capitale che per fare ciò ha abbattuto anche i confini e i poteri dei parlamenti nazionali, non importa che questi siano caratterizzati da governi di ‘destra’ o di ‘sinistra’. Un capitalismo frenetico che, come ha sostenuto e dimostrato Tia Dafnos, a partire dal Canada, con la sua relazione su «Logiche della pacificazione della resilienza critica alle opere infrastrutturali», più che dalla realizzazione delle infrastrutture e delle grandi opere riesce a trarre profitto anche dalla vendita della loro progettazione agli stati. Considerazione che la dice lunga anche sull’attuale balletto intorno alla ricostruzione del ponte Morandi di Genova e sulla velocità con cui il solito Renzo Piano e la Società Autostrade sono riusciti a presentare in tempi brevissimi progetti per la sua ricostruzione. Non occorre essere responsabili della sua ricostruzione, ma è importante vendere il progetto. Non solo allo Stato ma anche ai media e all’immaginario collettivo.

Un capitalismo che si presenta armato di tutto punto, sotto ogni punto di vista, alla guerra con i movimenti. I quali, forse, devono ancora pienamente comprendere il tipo di scontro epocale che è in corso e in cui sono coinvolti. Una guerra che prepara a guerre ancora più estese e devastanti, in cui però la diffusione a macchia di leopardo dei movimenti e delle aree in lotta più che rappresentare una debolezza degli stessi, come qualcuno durante il workshop ha ipotizzato, rappresenta invece la loro forza ovvero quella di un movimento comune senza confini nazionali, unito dalla necessità di raggiungere scopi simili e di combattere le medesime tecniche di pacificazione. E lo stesso nemico: il capitalismo in ogni sua forma, nazionale e internazionale. Finendo così con il costituire le macchie di ruggine diffuse che finiranno col corrodere e distruggere dall’interno la macchina del dominio mondiale del profitto privato e del suo dannato e, solo apparentemente, infinito processo di accumulazione.

Le reti e il filo spinato, i blocchi di cemento e gli agenti del disordine pubblici e privati schierati a difesa dei cantieri e di confini che già sono stati condannati dalla storia, unificano la Val di Susa con la Palestina, il Salento con il confine norteño del Messico e le esalazioni mortali di Taranto con ogni altra area del pianeta in lotta per la vita e un reale futuro per la specie. Un movimento che, se sarà in grado di trovarsi e di coordinarsi ancora e sempre più frequentemente, così come si espresso il workshop nel suo insieme, saprà fare anche delle sue attuali e apparenti debolezze un momento straordinario di riflessione e di forza unificante.

Soprattutto, però, in questi giorni di delusione per le promesse mancate, ma che allo stesso tempo sono serviti a demolire anche le ultime illusioni partitiche e parlamentari, occorre ricordare, sempre, ciò che ha scritto Arundhati Roy:

«Il sistema collasserà se ci rifiutiamo di comprare quello che ci vogliono vendere, le loro idee, la loro versione della storia, le loro guerre, le loro armi, la loro nozione di inevitabilità. Ricordatevi di questo: noi siamo molti e loro sono pochi. Hanno bisogno di noi più di quanto ne abbiamo noi di loro. Un altro mondo, non solo è possibile, ma sta arrivando. Nelle giornate calme lo sento respirare.»

Qui di seguito però, poiché le lotte non vanno solo raccontate ma anche sostenute fattivamente, si rende necessaria la pubblicazione del comunicato redatto dall’avv. Michele Carducci, ordinario di Diritto Costituzionale Comparato presso l’UniSalento, sulle ultime giravolte pentastellate a proposito del TAP.

LE OMISSIONI DEL GOVERNO CONTE SUI COSTI TAP

La storia dell’analisi costi-benefici su TAP non ha fine e ora sembra tramutarsi in una farsa.
Durante l’estate, tutti i Ministeri interpellati con il sistema del c.d. “FOIA” (accesso civico generalizzato) sono stati costretti ad ammettere l’assenza di documenti e conteggi sugli effettivi benefici di TAP (in termini economici, climatici, ambientali, di risparmio ecc…) e sui costi di abbandono dell’opera (in termini di titoli legali di legittimazione verso lo Stato italiano). Persino il Ministero dello Sviluppo Economico, recalcitrante sino all’informativa all’autorità interna anticorruzione, ha dovuto riconoscere che non si dispone di atti, ma solo di probabili dichiarazioni verbali rese da esponenti azeri a rappresentanti politici italiani oppure di mere deduzioni. Il Vicepresidente Salvini è stato addirittura smentito dal suo Ministero sui presunti risparmi della bolletta del gas.
Poi, il 15 ottobre, il Sindaco del Comune di Melendugno, nella provincia di Lecce dove dovrebbe approdare il gasdotto TAP, è stato urgentemente convocato a Palazzo Chigi insieme ai parlamentari e rappresentanti territoriali del Movimento Cinque Stelle.
Alla presenza della Ministra per il Sud Barbara Lezzi, ha parlato il Sottosegretario al Ministero dello Sviluppo Economico, il Sen. pentastellato Andrea Cioffi, componente dell’ “Associazione interparlamentare Italia-Azerbaijan”.
Egli ha riferito di suoi personali conteggi su TAP, riguardanti impegni contrattuali sull’estero (perché il gas di TAP servirà principalmente l’estero) e probabili mancati profitti, concludendo per un ammontare di 20 miliardi. Ha dunque parlato di presumibili costi contrattuali di terzi, ma non di analisi costi-benefici tra attivazione dell’opera e contesto socio-economico-ambientale-climatico dello Stato italiano e del suo ecosistema.
Le due prospettive non descrivono in nulla la stessa cosa: l’analisi costi-benefici è richiesta sia dall’Unione europea, che pretende l’inclusione dei costi climatici riferiti agli obiettivi di Parigi sul contenimento di emissioni di CO2, sia dall’OSCE che impone che l’analisi costi-benefici della sicurezza energetica sia declinata con l’analisi costi-benefici della sicurezza ambientale di lungo periodo, oltre che dalla Banca Centrale Europea che vorrebbe finanziare l’opera TAP.
È richiesto da tutte le istituzioni sovranazionali e internazionali di strategia energetica e di investimento finanziario; com’è giusto che sia, giacché l’analisi costi-benefici sulle opere di impatto intertemporale risponde a una garanzia di trasparenza dei decisori pubblici nei confronti non solo dei cittadini di oggi, ma soprattutto delle generazioni future e del loro contesto di vita: contesto che inesorabilmente deve misurarsi sulla dimensione climatico-ambientale.
Di tutto questo il Sottosegretario non ha parlato. Egli non ha neppure voluto consegnare alcuna documentazione al Sindaco. Nulla ha saputo replicare alle domande sui titoli giuridici a fondamento delle eventuali pretese creditorie italiane e non estere. Ha taciuto sul computo dei costi ambientali dell’opera TAP rispetto alla tenuta dell’ecosistema della costa di San Basilio, rispetto ai fenomeni dell’erosione costiera. Nulla è stato detto sui costi climatici rispetto ai criteri ribaditi proprio questo mese dal “Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico” dell’ONU.
Del resto, non è superfluo ricordare che il Governo italiano è pericolosamente privo del “Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici”.
Forse anche per questo, il Presidente Conte e la Ministra Lezzi si sottraggono all’onere di un tavolo pubblico e trasparente tra agenzie indipendenti di studio ambientale (come ISPRA e ARPA), rappresentati del governo e del territorio e TAP.
In definitiva, e una volta in più, di analisi costi-benefici non si sa che dire; come, ancora una volta, la Convenzione di Aarhus sulla democrazia ambientale, che prevede il coinvolgimento del pubblico nell’analisi costi-benefici, è stata violata.
Questo è un fatto molto grave, indipendentemente dalle proprie posizioni politiche, perché priva tutti i cittadini del diritto all’informazione completa ed esaustiva sulle scelte politiche dei governanti nei confronti di un’opera che riguarda i diritti delle generazioni future.
La circostanza di un Sottosegretario di Stato inadempiente negli oneri documentali e informativi verso un Sindaco rappresentante di un territorio della Repubblica, non definisce solo un gesto istituzionalmente scorretto; identifica una lacuna istituzionale pericolosa.
In questo scenario, paradossale appare infine il silenzio della coalizione giallo-verde e di Luigi Di Maio che, nel suo “Contratto per il governo del cambiamento”, esplicitamente ha voluto contemplare, per opere come TAP, tre obblighi metodologici totalmente disattesi: la istituzione di un “Comitato di conciliazione” per definire le modalità di azione; l’analisi costi-benefici (non solo quindi l’analisi costi contrattuali esteri); trasparenza e partecipazione di comunità locali e cittadini.
Di Maio tradisce il suo “Contratto”, votato dai suoi elettori.
La leale collaborazione tra istituzioni nazionali e locali e tra istituzioni e cittadini è il cemento della democrazia. Prendersi gioco della leale collaborazione è un illecito costituzionale che va denunciato.
È già partito l’accesso FOIA verso il Sottosegretario Cioffi. Ma sono già state attivate anche tutte le azioni propedeutiche alla denuncia del Governo italiano presso l’Unione europea, l’OSCE e le altre istituzioni che tutelano i diritti di informazione e di trasparenza delle decisioni nelle democrazie.
L’analisi costi-benefici è un dovere verso i diritti delle generazioni future e un presupposto di serietà di una democrazia.
Non pretendere chiarezza su tutto questo significa diventare complici di una erosione dei diritti di cittadinanza, che danneggia tutti e irresponsabilmente condiziona il futuro.

Prof. Avv. Michele Carducci
Difensore Movimenti e cittadini NoTAP