di Fabio Ciabatti

Raul Zibechi, Il “mondo altro” in movimento. Movimenti sociali in America Latina, Nuova Delphi, 2018, pp. 140, € 10, 00.

La marea rosa dei governi progressisti latinoamericani, che tanto entusiasmo e speranza aveva suscitato nel mondo intero, si è esaurita. Quelli che non sono stati rovesciati, sono sulla difensiva. E questo è sotto gli occhi di tutti. Quello che invece è assai meno visibile è che i movimenti sociali che avevano spinto al governo le forze politiche anti-neoliberiste non sono scomparsi. Raul Zibechi, scrittore e giornalista uruguaiano, autore di numerose pubblicazioni (tradotte anche in italiano) sui movimenti sudamericani, nel suo libro Il “mondo altro” in movimento, cerca di fare il punto su una situazione che, per quanto molto ricca di mobilitazioni dal basso, non vede al momento emergere attori di portata nazionale, fatte poche eccezioni come per esempio gli zapatisti.

L’opera si presenta come una autocritica nei confronti di quanto scritto dall’autore sullo stesso tema agli inizi degli anni duemila sebbene, a ben vedere, le analisi susseguitesi nell’arco degli ultimi quindici anni mostrino una significativa continuità (a fini comparativi viene riproposto in appendice un testo di Zibechi del 2003 intitolato I movimenti sociali latinoamericani: tendenze e sfide).
La caratteristica principale dei movimenti sudamericani, tanto rurali, quanto urbani, individuata da Zibechi è la loro territorializzazione, vale a dire il radicamento in spazi fisici conquistati o recuperati attraverso lunghe lotte come risposta strategica dei poveri rispetto alla crisi della vecchia territorialità della fabbrica, frutto, a sua volta, dei nuovi modelli di accumulazione capitalistica di stampo neoliberista. Questa caratteristica influenza e rende possibili una serie di altre qualità distintive: la ricerca dell’autonomia dallo Stato e dai partiti politici, la valorizzazione della cultura e dell’identità dei popoli e dei settori sociali in lotta, il controllo dell’educazione dei propri dirigenti e dei propri membri, il ruolo rilevante delle donne e delle famiglie, la creazione di organizzazioni i cui dirigenti non sono separati dalla base, le forme di lotta auto-affermative in parziale sostituzione di quelle meramente strumentali/rivendicative.
Tutto ciò valeva quindici anni fa come vale oggi. Ciò che adesso emerge in primo piano è il frutto del fallimento dei governi progressisti che si sono affermati all’inizio di questo secolo. Un fallimento che nasce sostanzialmente dallo loro incapacità di modificare il modello estrattivista delle economie nazionali. Un modello caratterizzato da un’economia da enclave che risulta verticalmente collegata ai flussi economici internazionali e che, al contempo, depaupera le risorse e l’ambiente senza avere ricadute positive per le popolazioni interessate.
Questa struttura produttiva determina una sostanziale impermeabilità del potere economico e politico alle rivendicazioni dei movimenti popolari. Di qui la necessità da parte dei movimenti di perseguire un’autonomia che non è soltanto indipendenza da partiti e stato, ma riguarda tutti gli aspetti della vita: “dalle idee, fino alla produzione e alla riproduzione della vita, il che prevede in uno spazio ben definito la possibilità di assicurare l’alimentazione e la salute di coloro che appartengono ai movimenti e, quando possibile, della comunità in generale”.1 In base a questa caratterizzazione così forte del concetto di autonomia, Zibechi sostiene che parlare di movimenti può essere inappropriato. Il concetto di movimento è stato infatti sviluppato in relazione alle società occidentali per indicare una politica dal basso che ha come interlocutore diretto lo Stato nei confronti del quale vengono avanzate rivendicazioni, saltando la mediazione di partiti e sindacati. Potremmo parlare in questo caso di autonomia in senso debole. Avendo a che fare con l’accezione forte dello stesso concetto, più che di movimenti, sostiene Zibechi, bisognerebbe parlare di società e popoli in movimento.
Il tratto principale dei soggetti collettivi nel periodo attuale è dunque che essi “resistono e creano nello stesso tempo” perché “non hanno uno spazio nelle società estrattive … Ecco perché hanno bisogno, qui ed ora, di creare spazi in cui si possano sentire al sicuro … e che, quando possibile, siano sotto il loro controllo e da loro difesi”.2 In breve la riappropriazione degli spazi è anche la riappropriazione dei mezzi di produzione, siano esse le terre o le fabbriche recuperate.
L’esempio più compiuto di questa autonomia è rappresentato dalle comunità zapatiste che non solo organizzano autonomamente la loro attività produttive e riproduttive, l’istruzione popolare e l’assistenza medica, ma si sono date anche delle proprie istituzioni di autogoverno politico e di autodifesa. Queste ultime, aspetto centrale secondo Zibechi, vengono attentamente delimitate al fine di evitare che la loro naturale tendenza ad assumere un carattere centralizzato e gerarchico soffochi la democrazia di base che connota le istituzioni politiche.

Il fatto che gli zapatisti sono radicati in zone rurali è sicuramente rilevante nell’ambito del discorso portato avanti dall’autore. L’autonomia in senso forte sembra infatti potersi applicare soprattutto alle lotte portate avanti dalle comunità contadine in grado di gestire la propria produzione e riproduzione in modo maggiormente compiuto rispetto a quanto accade per i movimenti cittadini.
Nelle zone rurali si è mantenuta maggiormente integra la comunità, con il suo portato di cultura, conoscenze e pratiche. E’ vero che questa comunità non si ripropone semplicemente, ma nel corso della lotta viene in qualche misura reinventata. Ciò non toglie che il punto di partenza sia differente rispetto alle città.
Soprattutto “nel caso dei movimenti urbani, come quello dei piqueteros argentini”,3 nota non a caso Zibechi, la riappropriazione territoriale si è dimostrata fragile di fronte alle politiche sociali dei governi progressisti finalizzate, tra l’altro, a controllare e neutralizzare le organizzazioni popolari. Anche perché i protagonisti di tali politiche provenivano da settori anti-neoliberisti che conoscevano perfettamente quei territori. E’ vero che c’è l’importante fenomeno delle fabbriche recuperate, ma questo è presente in misura significativa solo in Argentina (350 sulle oltre 400 censite da Zibechi) e si tratta di una realtà molto differenziata in cui si trovano anche impianti produttivi gestiti in modo non dissimile dalle imprese capitalistiche vere e proprie.
Siamo insomma “molto lontani dal poter parlare di autonomia integrale nelle città”, sebbene si possano trovare alcune esperienze che vanno in questa direzione. La conclusione dell’autore è che “l’autonomia si costituisce in tempi lunghi”.4

La passione militante e la profondità analitica con cui Zibechi continua a mappare i movimenti di base sudamericani e a riflettere su di essi è molto preziosa. Essa ci consente di uscire dalle secche di un dibattito che, almeno in Italia, sembra concentrarsi principalmente sulle variabili geopolitiche della situazione sudamericana. Ciò significa considerare come attori politici effettivi soltanto gli Stati. Perciò lo scontro cui staremmo assistendo e rispetto al quale dovremmo schierarci risulterebbe solo quello tra gli stati progressisti (talvolta elevati al rango di paesi socialisti o in transizione verso il socialismo) e gli Usa. Soggetti sociali, movimenti, gruppi politici di base sarebbero soltanto variabili dipendenti, nel migliore dei casi, o burattini, nel peggiore, degli Stati. E’ chiaro che l’ingerenza imperialistica degli Usa continua ad essere forte, spesso feroce e che la difesa nei suoi confronti è sacrosanta. Ciò però non può giustificare ogni tipo di politica. Con l’URSS abbiamo già visto dove ci hanno portato le giustificazioni ad oltranza in nome dell’antimperialismo.

Nelle nostre valutazioni politiche dovremmo tornare (o iniziare) a considerare i movimenti sociali come la variabile fondamentale. Se portato all’estremo il concetto di autonomia di Zibechi ci potrebbe indurre ad un atteggiamento di indifferenza per quanto riguarda la sorte dei governi progressisti latinoamericani. Non credo che sarebbe una atteggiamento giustificato. Anzi, penso che la questione del rapporto tra movimenti e Stato non dovrebbe essere abbandonata. In fin dei conti una delle maggiori differenze che si riscontrano tra lo scritto di Zibechi del 2003 e quello attuale sta nel fatto che il primo si concludeva aprendo alle nuove sfide poste dalle possibili articolazioni tra movimenti e istituzioni, mentre nel secondo la questione scompare. E’ possibile pensare a un rapporto che non riduca i movimenti a semplice cinghia di trasmissione o che, all’opposto, non li ponga in una situazione di completa separazione al fine di preservare la loro autonomia? Certamente, data la fase attuale, rispondere a questo tipo di domande sembra essere meno pressante. Nel 2003 si poteva prospettare una qualche forma di transizione verso rapporti sociali post-capitalistici che avrebbe dovuto implicare anche una trasformazione delle strutture statuali. E’ perciò condivisibile che oggi, come fa Zibechi, ci si concentri sui processi di autonomia dei movimenti sociali. Ma se è vero quanto sostenuto a proposito della differenza tra i contesti contadini e quelli urbani e considerando il fatto che la popolazione urbana del Sudamerica è ormai superiore all’80% del totale, è possibile ipotizzare che i mondi altri crescono nelle crepe del capitalismo sostituendo l’attuale modo di produzione per semplice accrescimento quantitativo?


  1. Raul Zibechi, Il “mondo altro” in movimento, Nuova Delphi, 2018, p. 48. 

  2. Ivi p. 74. 

  3. Ivi, p. 41. 

  4. Ivi, p. 49. 

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