di Sandro Moiso

Marco Rovelli, Il tempo delle ciliegie, elèuthera 2018, pp. 125, € 14,00

In questi tempi di vacche magre e magrissime per un’autentica riflessione politica e, al contrario, di gran spolvero per i vuoti dibattiti mediatico-ideologici su un governo mal nato, si rivela assolutamente liberatorio e necessario il testo di Marco Rovelli sull’esperienza rivoluzionaria di Louise Michel, una delle più ferventi animatrici della Comune parigina del 1871, pubblicato de elèuthera. Testo in cui l’autore, particolarmente attratto dalle vicende e dalle vite di donne misuratesi con l’esperienza rivoluzionaria, mette la sua esperienza di scrittore e intellettuale militante al servizio di una causa straordinaria.

Straordinaria sia per l’esemplarità della vita e delle lotte dell’anarchica francese, sia per l’esperimento, oggi sottostimato e ricordato quasi sempre in maniera un po’ troppo superficiale e retorica, che , almeno per l’Europa occidentale, rese chiaro ai lavoratori, ai proletari e ai rivoluzionari in lotta contro l’esistente, l’impossibilità della collaborazione in senso nazionale tra classi sociali, quali la borghesia e il proletariato, i cui interessi politici, economici e storici erano (e rimangono) radicalmente divergenti.

Un tema sul quale, in tempi di generici appelli anti-fascisti, anti-berlusconiani e troppo spesso sostanzialmente perbenistici di una sinistra che si rivela cazzara anche quando non è di stretta osservanza renziana, si tende a glissare poiché destinato a portare alla ribalta problemi concreti quali quello dell’azione realmente antagonista e rivoluzionaria contro l’attuale modo di produzione e dell’uso della violenza e della sua organizzazione da parte dei movimenti di resistenza contro le condizioni di vita e di lavoro condizionate dal capitalismo, non solo finanziario.

Un tema che si riflette in ogni lotta attuale: dal Rojava alla Val di Susa, dalla ZAD di Notre Dame des Landes al Salento. Lotte ed esperienze i cui protagonisti non potranno mai dichiarare altro ancora che: Noi siamo la Comune! Così come l’avrebbero potuto urlare gli studenti del Maggio parigino, gli operai di Mirafiori delle grandi lotte a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, gli operai di Berlino Est nel 1953 e i rivoluzionari ungheresi del 1956 insieme a tutti coloro che sono insorti, insorgono e ancora insorgeranno contro lo stato di cose presente e che, finché esisteranno i confini giuridici della proprietà privata dei mezzi di produzione e dello Stato, non avranno mai governi amici.
Come i protagonisti delle vicende narrate nelle pagine, vivaci e attente alla ricostruzione storica, che riportiamo qui di seguito.

“Io sono la Comune. La moltitudine interminata dei senza nome. Il fuoco che sprigiona un tempo nuovo. La festa di ciò che diviene. La felicità di ciascuno e di tutti, di tutti e di ciascuno, l’una condizione dell’altra. Io sono la Comune, il tempo che rinasce e divampa, il tempo che si riproduce per scissione, a due a due come le ciliegie, in una catena infinita e senza centro. Io sono la Comune, e dunque non sono Io, ma la disseminazione dei corpi e delle anime confuse in un grappolo di suoni senza fine, che si eleva al cielo estendendone il limite, perché nostra è la forza, nostro è il coraggio, nostra è la gioia. Io sono la Comune, che non può morire, e danza.

Fu quando Thomas e Lecomte vennero per riprendersi i nostri cannoni che insorgemmo. Era il 18 marzo. Il giorno prima Thiers aveva dato l’ultimatum. I prussiani sono andati via, dunque ridateci i cannoni e obbedite all’ordine costituito. Ma chi credeva ormai ai generali a cui ci si chiedeva di sottometterci? A Parigi non ci credeva più nessuno. E comunque sì, Thiers aveva ragione quando diceva che c’erano dei malintenzionati che col pretesto dei prussiani volevano prendere il controllo della città. Si trattava di cambiare davvero, stavolta salvare la Francia era tutt’uno con il cambiarla. Bisognava farla finita con quella vecchia Francia borghese, che ci aveva esposto alla rovina e che adesso, esaurito l’Impero, pretendeva di riciclarsi in Repubblica.

[…] Le truppe del generale stavano arrivando; avevano occupato la riva destra della Senna e alcuni distaccamenti salivano la collina. Suonarono le campane, i tamburi chiamarono a raccolta: Louise, con un fucile nascosto sotto il cappotto, corse giù dalla collina, gridando «tradimento!». Al comitato di vigilanza si stava già formando una colonna , sotto il comando di Ferré.[…] La folla sciamava verso l’alto, le donne si imposero, erano loro a precedere gli uomini, c’erano anche tanti bambini. I soldati no si aspettavano di vederle arrivare con quella irruenza, con quella decisione, fu una sorpresa, e non reagirono. «Giù le armi!» gridavano le donne. «Siamo donne e bambini!», Louise era in prima fila a gridare ai soldati di non sparare, e intanto faceva mostra di proteggere le donne che si erano gettate a corpo morto sui cannoni. «Sono nostri!».
Il generale Lecomte, allora, ordinò ai suoi soldati di sparare sulla folla che avanzava. Ma i suoi soldati avevano deciso che non erano più suoi. Nessuno sparò.[…] I soldati non più suoi gli si avvicinarono, lo presero in custodia: «Venga con noi generale, adesso tocca a lei obbedirci!».[…] Erano le undici del mattino del 18 marzo 1871. Eravamo raggianti. Louise abbracciava tutti. Il popolo aveva manifestato, e aveva vinto. Era appena l’inizio.
Nel pomeriggio, dopo la decisione del Comitato centrale della Guardia nazionale, occupammo municipi, caserme, palazzi di governo, e cominciammo a costruire barricate. La bella tradizione di Parigi ribelle riprendeva, finalmente, nonostante i boulevard di Haussmann. Thiers e i suoi ministri scapparono come topi, rifugiandosi a Versailles, il luogo degli autocrati e della capitolazione.
Alla sera Lecomte venne fucilato, insieme all’altro generale, Thomas, di cui tutti ricordavano il massacro che aveva compiuto nel giugno del ‘48”.1


  1. pp. 40-43