di Filippo Casaccia

Gregorio Magini, Cometa. Neo Edizioni, 2018, 243 pp., € 15,00

Cometa di Gregorio Magini è banalmente un romanzo di formazione ma per linguaggio e racconto ambisce a qualcosa di più. Cosa lo rende unico? La scrittura sfrontata e l’angolazione spiazzante con cui si guarda alle cose, che siano passate (il G8, per esempio, come non l’avete mai sentito raccontare) che attuali, rendendolo un romanzo travolgente che si apre a momenti di calore, di ricordo, di emozione, e che racconta il senso di rassegnazione odierna della generazione a cavallo del millennio, non necessariamente una rassegnazione negativa come l’inaspettato finale dimostrerà. Forse.
Romanzo di formazione, si diceva, di due personaggi. Il primo, Raffaele, è un antieroe affamato di vita, che obbedisce a tre comandamenti fondamentali: non lavorare, non aspettare, non invecchiare. Persegue i suoi obiettivi dedicandosi alle droghe e alle donne: in giro per il mondo (anche con un Grand Tour della Fica: “Su un divano mi pulsò davanti alla faccia una fica bruna con l’imene tagliato male. O ero in un vagone della U-Bahn?”) o in una casa ridotta a un macello da degli studenti fuori sede oppure ancora provando un’improbabile carriera artistica. Tutto pur di sfuggire alla noia, senza remore morali: “Saranno sane le cazzate con cui ti trastulli tu per nasconderti il vuoto siderale della tua vita”.
In qualche maniera ci riuscirà, con diverse amarezze e un disincanto adulto.
La scrittura in prima persona del personaggio risulta com’è lui: sicura, veloce, nichilista, arrogante, sfrontata ed efficace.
Più meditata, leggera e intrisa di dolce malinconia è quella di Fabio, il secondo protagonista, un programmatore che attraversa la sua esistenza quasi con fatalismo, tra dubbi ed ingenuità e con la generosità che manca a Raffaele: a suo agio nella virtualità quanto impacciato nella vita vera, programma e si guadagna da vivere dignitosamente lavorando coi numeri, che non hanno carattere, non deludono, non tradiscono.
Inaspettatamente le due esistenze si incrociano e si saldano in un’amicizia profonda che condivide la refrattarietà a un mondo in cui né Fabio né Raffaele si ritrovano: il loro incontro sortirà effetti imprevedibili fino a un epilogo spiazzante e poetico.
Cometa è proprio come un corpo celeste in caduta libera e pronto a deflagrare: la lingua è ritmata, coraggiosa, per nulla compiacente e compiaciuta ma allo stesso tempo intimamente elegante, dell’eleganza che sa di verità, scomoda ma autentica. Non racconta l’attualità in modo realistico né metaforico, non ha queste pretese, e non è un romanzo sulla fine del lavoro e del No Future presagito già dagli anni Settanta. Piuttosto trasmette un disagio esistenziale, calato nel presente ma universale, e lo fa con onesta schiettezza e – va detto – anche grande piacere per il lettore, cosa non scontata in anni di romanzi che si vogliono seriosi per guadagnare in credibilità. Gregorio Magini non ne ha alcun bisogno, per fortuna. E se le cronache quotidiane ci portano a tifare asteroide, vi assicuro che da oggi ha ancora più senso tifare Cometa.

Per gentile concessione dell’autore e dell’editore vi proponiamo un estratto della parte dedicata a Raffaele, quando il lettore intravede una parvenza di impegno politico. E…

La politica dal basso, a cavallo del millennio, era divertente. La vita quotidiana, dopo la noia irriferibile del liceo, diventò improvvisamente festosa e significativa. L’università era facile, le famiglie in genere ci tenevano che non si lavorasse, avevamo più tempo libero di quanto ne sapevamo riempire. Ci venne naturale, dato il contesto, occuparne molto tra centri sociali e collettivi. Credevamo di far parte della marea montante di un movimento intergenerazionale e non avremmo mai immaginato che ne stavamo vivendo gli ultimi riflussi prima del lungo inverno. Nemmeno l’arrivo della repressione, sulle prime, ci aprì gli occhi. Ci dicemmo, tanto meglio: senza scosse, non ci sarebbe il movimento. Per noi del FAP – Frenocomio Autogestione Perenne, (un frizzante mischio di allievi del postoperaismo, marxisti sentimentali e altri nostalgici dell’estetica del Sessantotto, anarcosituazionisti, hacker e raver alle prime armi), la prima, morbida scossa di repressione arrivò nel marzo del 2001 a Napoli.
Io e Antonia, scesi dal treno, invece di ammassarci con gli altri in Corso Umberto, svicolammo su per Forcella e andammo a perderci nei vicoli, affascinati dagli energumeni obesi in ciabatte, dai ruderi e dai pantaloni appesi ad altezze inconcepibili. Era una giornata già primaverile e ci stavamo simpatici: ci autoassolvemmo facilmente per aver disertato la manifestazione, ed eravamo del resto sempre in tempo a raggiungere il corteo quando questo si sarebbe accampato in Piazza del Plebiscito.
Antonia era una ragazza dal sorriso difficile e dal brutto rapporto con qualcosa la cui origine non riuscivo ad afferrare, ma il cui risultato era chiarissimo ed era che non me la dava.
Come molte femmine nel movimento, era intimamente impegnata nella lotta per l’affermazione della parità di genere, che trovava la sua espressione più appariscente nel rifiuto della cosmesi (per tacere di innovazioni linguistiche quali l’abolizione della flessione a favore di marcatori neutri, p.es.: car* compagn*). Antonia, come altre compagne, non si depilava, non si truccava, non si pettinava i lunghi capelli neri, non usava il deodorante, indossava magliette troppo grandi (forse di un fratello maggiore? Non mi parlò mai della sua famiglia), maglioni stazzonati e bucati, pantaloni di lana grezza, sandali di sughero. Unica decorazione uno spago annodato al polso che le avevo regalato io. Tale trascuratezza aveva l’effetto collaterale di desessualizzare i rapporti tra i membri del movimento, non certo fino al punto da impedire gli accoppiamenti, ma sicuramente abbastanza da degradare l’erotismo a una posizione secondaria. L’emancipazione non passava più attraverso la liberazione del corpo, come era stato per le nostre mamme (almeno idealmente, o almeno secondo la nostra idea di figl*), ma attraverso il suo abbandono. Il rifiuto dell’uomo-consumatore comportava per molte donne un difficile passaggio attraverso le secche del desiderio che non ha più un suo oggetto. Antonia viveva tutto questo con particolare sofferenza, perché era chiusa per natura, spigolosa non solo nei modi ma anche nel fisico (gli zigomi piatti, i gomiti e il bacino puntuti), probabilmente assillata da cattivi pensieri fin dall’infanzia, sulla propria bellezza, sulla propria intelligenza, sulla propria natura. Il suo senso di inadeguatezza si era trasformato repentinamente in rabbia quando sulla soglia dei vent’anni si era resa conto che persone ben più brutte, stupide e cattive di lei si facevano meno problemi e studiavano o lavoravano o si divertivano o s’innamoravano alla faccia di tutti i loro limiti, mentre lei stava lì a macerare.
La consolazione della sua vita erano gli amici. In quei ragazzoni tutti chitarra e maglioni della nonna coi forasacchi, trovava un mesto equilibrio tra confidenza e distacco, il massimo che potesse sopportare in un rapporto. Anche con me stava provando a stabilire un’amicizia, ma non funzionava perché a fronte della sua limpidezza d’intenti io non nascondevo di voler più che altro scopare. Era accaduto in una notte di primavera, eravamo seduti sull’argine di un fiume e cercavamo i salti dei pesci siluro come si cercano le stelle cadenti. Le massaggiai una spalla, dissi: ti va se ti do un bacio?
Sei innamorato di me? No.
 Allora no.
Eravamo appena usciti da una cappella piena di ossi glassati d’oro, quando vedemmo degli sbuffi bianchi sollevarsi da giù di dov’era il mare. Ci vergognammo che diversi amici nostri venissero picchiati dalla polizia mentre noi ci godevamo la giovinezza e ci sentimmo in dovere di scendere. Non era chiaro quale situazione ci saremmo trovati davanti. Non avevamo mai confrontato seriamente la polizia. In città, quando eravamo ancora al liceo, ci lasciavano fare quello che volevamo: bloccare il traffico, imbrattare un bancomat, distruggere una vetrina, erano azioni che non portavano mai all’arresto, di solito neppure a una multa.
Alla protesta di Praga, sei mesi prima, il nonno non mi ci aveva mandato. Mi ero mangiato le mani ai racconti dei reduci. I plotoni neri dei poliziotti allineati lungo il treno nell’alba nebbiosa del confine ceco-austriaco; lo stadio dove i manifestanti si erano accampati e avevano costruito le loro armature di gommapiuma; il blocco sul ponte Nuselský; le fughe nella notte… Erano poi tornati tutti a casa sani e salvi, nessun italiano si era fatto troppo male, perché “la Repubblica Ceca non poteva fare una figura di merda”, questa era la voce che girava (infatti qualche giorno dopo, iniziò a girare voce che stavano “massacrando e stuprando i/le compagn* cechi nelle celle”).
Pensavamo di tenerli per le palle perché le videocamere riprendevano tutto – tutte quelle armi che avevano non potevano usarle! Perché l’opinione pubblica… Credevamo nella democrazia, nella smaterializzazione, nel regno del simbolico: avevamo dimenticato che così come noi eravamo in grado di mettere in gioco i nostri corpi, allo stesso modo lo erano i nostri avversari – era inevitabile che qualcuno di loro a una certa ora si sarebbe rotto i coglioni e si sarebbe preso la briga di rammentare ai popoli confusi i risvolti niente affatto immateriali del potere statale.
Antonia e io, dopo molte incertezze di direzione e domande a massaie allegre che parevano approvare il caos incipiente come la milionesima dimostrazione della secolare, indomabile, simpaticissima vitalità della Capitale del Mediterraneo, sbucammo trafelati all’ingresso di un piccolo parco pubblico. In seguito, diverse volte lo cercai, sia sul terreno che sulle mappe, ma senza successo. C’era una vasca circolare nel centro; intorno aiuole a prato, il tutto era circondato da alberi carichi e frondosi.
Dal lato opposto del parco accorsero una decina di poliziotti con gli scudi levati, i manganelli in pugno e le visiere abbassate.
Ci fermammo agghiacciati. Antonia mi cercò la mano. Aveva le dita nodose dalle punte stranamente piatte e le unghie mangiate come me.
Baciami, le dissi.
Che?
Baciami. Non si accorgeranno di noi se ci baciamo. Penseranno che siamo una stupida coppietta.
Raffa cazzo dici? Non siamo in un telefilm, quelli ci aprono il culo.
Se ci buttiamo sul pratino ci scambiano per studenti che hanno fatto forca. Dai, vieni. Tu sei completamente cretino. Dobbiamo levarci dal cazzo e di fretta. E comunque preferisco farmi arrestare che pomiciare con te.
Ci piombarono sulle spalle degli uomini e ci teletrasportarono in un angolo riparato.
Qualcuno! Ehi, qualcuno! gridai.
Mi risposero degli schiaffi sulla faccia. Ci fecero stendere sul pratino. Si misero due su di me, uno su Antonia e uno in piedi. Avevano tutti la camicia di jeans sopra i jeans, più una confusa miscela di baffi a scopettone, occhiali a goccia, marsupi a tracolla, nasi rotti e guance cadenti.
Chi chiamavi? chiese quello in piedi.
Non capisco che cosa abbiamo fatto. Che modi sono? Chiamavi i tuoi amici? Lo sai dove stanno i tuoi amici adesso? Ma di cosa sta parlando?
Stanno tale e quale a te.
Eh?
Non fare finta di non capire, zecca di merda.
Tutta una pantomima su questo tenore, poi a quello che mi stava sopra dovette saltare un nervo, mi strinse la bocca e disse: hai fumato l’hashish, puzzi fino a qua. Fetente, fammi sentire quanto hai fumato, alitami in faccia.
Che?
Alitami in faccia pezzo di merda, gridò sputando. Chiusi gli occhi, convinto che mi avrebbe fatto molto male, ed espirai. Quando li riaprii, i passerotti avevano ripreso a cinguettare, Antonia era in piedi sopra di me e mi guardava come una che pensa: è andata così. Mi sentivo meglio adesso nell’erba. L’umiliazione che avevo subito era stata così grande che impiegai diverse settimane, poi, per capire che ero stato umiliato.
Tornammo direttamente alla stazione, dove presto iniziarono ad affluire i nostri compagni con gli occhi gonfi. Qua e là una mano o una testa fasciata. Il giorno seguente, primo pomeriggio, forte di una dormita di quattordici ore, andai al Frenocomio sperando d’incontrare Antonia. Ve la trovai col suo collettivo teatrale (gente con cui non ero in confidenza). Facevano il gioco della fiducia, che consisteva nel lasciarsi cadere all’indietro nella speranza che un compagno ti acchiappasse prima di colpire il suolo. Gli riusciva discretamente bene. Alla fine della sessione, Antonia mi si avvicinò tutta allegra.
Almeno, dissi, a te non hanno fatto niente.
Dici niente? Quello che mi teneva, mi ha infilato un dito nelle mutande e lo muoveva così – e mi mostrò il pollice sproporzionato e piatto, piegandolo a più riprese come quando si usa l’accendino. Lo chiami niente?

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