di Armando Lancellotti

Kazimierz Sakowicz, Diario di Ponary. Testimonianza diretta dell’eccidio ebraico in Lituania, 1941 – 1943, Mimesis, Milano-Udine, 2018, pp. 134, € 12,00

In un momento in cui in Europa vengono decretati per legge e per esplicita richiesta di un governo il revisionismo della storia del Novecento, il riduzionismo o addirittura il negazionismo delle molteplici forme di collaborazione e sostengo di cui usufruirono i nazisti nei paesi sotto loro occupazione nell’adempimento della soluzione finale – il recente caso polacco è sotto gli occhi di tutti – leggere le pagine di questo prezioso diario, scritto proprio da un polacco – Kazimierz Sakowicz – che tra il 1941 e il 1943 registra e documenta le “eliminazioni caotiche” (L.Poliakov) perpetrate in Lituania dai “reparti mobili di massacro” (R.Hilberg), a Ponary, presso Vilnius, con il fondamentale aiuto dei nazisti lituani e degli antisemiti locali, risulta ancor più significativo ed importante per esorcizzare lo spirito del nostro tempo e per disperdere le cupe nubi dell’ignoranza della storia che si addensano pericolosamente all’orizzonte.

L’editore Mimesis pubblica per i lettori italiani questo interessante libro, il Diario di Ponary. Testimonianza diretta dell’eccidio ebraico in Lituania, 1941 – 1943, uscito nell’edizione originale polacca nel 1999 e in quella inglese, poi tradotta in italiano, solo nel 2005, insomma rispettivamente a più di cinquanta e a più di sessant’anni di distanza dai tragici fatti e dai crimini di massa di cui il diario dà testimonianza.
I motivi di questo ritardo, nonché la storia della composizione, del parziale occultamento e del ritrovamento del diario sono esposti nell’Introduzione da Rachel Margolis, già collaboratrice della prima edizione del 1999 e nella Prefazione da Yitzhack Arad.

Rachel Margolis, nata a Vilnius nel 1921 e recentemente scomparsa (2015), durante l’occupazione nazista fu particolarmente attiva nel movimento clandestino di resistenza interno al ghetto di Vilnius. Al momento dello smantellamento del ghetto riuscì a fuggire nelle foreste vicine alla città e continuò a combattere fino all’arrivo dell’Armata Rossa contro quei tedeschi e quei collaboratori lituani che avevano sterminato la sua famiglia: il padre, la madre e il fratello erano stati eliminati proprio a Ponary il 5 luglio 1944. Dopo la guerra, con grande tenacia e non poche difficoltà nella Lituania stalinista e sovietica, si dedicò alla ricerca storica e al lavoro di conservazione e trasmissione della memoria della “Gerusalemme di Lituania”, come era chiamata, prima della sua distruzione, la foltissima comunità ebraica di Vilnius.
Yitzhack Arad, nato nel 1926 non lontano da Vilnius, appoggiò il movimento clandestino ebraico attivo nel ghetto e di seguito militò in una Brigata partigiana sovietica. Diventato poi militare di carriera in Israele, dove è emigrato subito dopo la guerra, è passato – una volta abbandonato l’esercito – alla ricerca storica, all’attività universitaria e ha presieduto per molti anni lo Yad Vashem.

Significativamente, entrambi una decina di anni fa, nel clima di revisionismo storico che ha interessato tutti i paesi post sovietici e in particolare gli stati baltici, sono stati oggetto di attacchi e accuse, perché ritenuti responsabili, a causa della loro militanza partigiana direttamente con i sovietici o comunque al loro fianco, di vendette nei confronti di cittadini lituani, cioè dei collaborazionisti filo nazisti!

Anche l’autore del Diario, Kazimierz Sakowicz, polacco e cristiano, era nato a Vilnius (Wilno in polacco), nel 1894, quando ancora la città e tutte le regioni più orientali dell’ex Regno di Polonia facevano parte dell’Impero russo, come conseguenza delle spartizioni polacche di fine Settecento. A seguito della Grande Guerra, dopo il trattato di Brest Litovsk, la proclamazione di indipendenza della Repubblica lituana e la fine del primo conflitto mondiale su tutti i fronti, la regione di Vilnius diventò area contesa tra sovietici, lituani e polacchi. Ma soprattutto furono le due nuove repubbliche, polacca e lituana, che si contesero la sovranità sulla città, che infine venne assegnata a Varsavia. Con il patto Molotov-Ribbentrop e l’attacco contemporaneo tedesco-russo alla Polonia del settembre 1939, i sovietici occuparono l’intera regione e trasferirono il distretto di Vilnius, momentaneamente e a seguito di un accordo tra i due paesi, alla Repubblica di Lituania, la quale però, qualche mese più tardi, nel luglio 1940, venne invasa dall’Armata Rossa. Ma un anno dopo, il 22 giugno 1941, con l’Operazione Barbarossa, la situazione cambiò nuovamente e radicalmente, poiché l’intera Lituania fu conquistata dalla Wehrmacht, che entrò a Vilnius il 24 giugno, in tal modo intrappolando i circa 60.000 ebrei della “Gerusalemme di Lituania”.

Racconta Rachel Margolis che Sakowicz, giornalista e tipografo, «lavorò per diversi giornali. Più tardi aprì una tipografia che pubblicava riviste, come la “Przegląd Gospodarczy” (Rivista Economica), in via Mickewicz, dove egli viveva con la moglie, Maria. La coppia non ebbe figli. Nel 1939, quando Vilnius e la regione circostante occupate dalle truppe sovietiche furono consegnate alla Lituania, Sakowicz dovette chiudere la tipografia e trovare un’abitazione più economica. Si trasferì in un cottage a Ponary, un sobborgo di Vilnius. Da lì inforcava la bicicletta alla volta della città accettando lavori occasionali per mantenere la famiglia. Il cottage era situato nel bosco» (pp. 8-9).

Il bosco di Ponary

Per puro caso, quindi, il giornalista Sakowicz, dalla soffitta della propria abitazione, poté osservare quanto accadeva nell’area boschiva di Ponary a partire dall’estate del 1941, quando l’Einsatzgruppe B e le sue sotto unità, gli Einsatzkommandos, diedero il via alle eliminazioni di massa degli ebrei polacco-lituani di Vilnius e dintorni. Si tratta pertanto di una testimonianza diretta, oculare, di chi riuscì a vedere quanto non doveva essere visto, se non dai suoi stessi esecutori.

Il diario di Ponary di Kazimierz Sakowicz» – sostiene Yitzhack Arad – «è un documento unico, senza paralleli negli annali della Shoah. Esso fornisce la visione da parte di un testimone oculare delle attività della macchina da sterminio nazista nell’arena ristretta di Ponary, un’area boschiva nella campagna circa dieci chilometri a sud-ovest di Vilnius sulla strada per Grodno. […] Nel 1941, durante la loro occupazione della regione, i sovietici cominciarono a scavare enormi fosse che dovevano servire da serbatoi di stoccaggio del carburante per aerei ma, prima che il lavoro terminasse, il 22 giugno del 1941 i tedeschi attaccarono l’Unione Sovietica (p.11).

Più precisamente – spiega Rachel Margolis – si trattava di «larghe fosse – del diametro da dodici a trentadue metri e profonde da cinque a otto metri – collegate per mezzo di canali in cui si dovevano gettare le tubature». (p.9)

La successiva occupazione della regione da parte dell’esercito tedesco due giorni più tardi» -continua Arad – «fece rimanere incompiuti gli scavi delle fosse e la costruzione dei serbatoi di stoccaggio. Durante l’occupazione tedesca, queste fosse divennero il luogo di sterminio di circa 50-60.000 uomini, donne e bambini, che venivano fucilati sul bordo della fossa e ivi sepolti. La maggioranza delle vittime descritte da Sakowicz nel suo diario proveniva dal ghetto di Vilnius e dintorni. Alcune migliaia erano membri del movimento clandestino od ostaggi – polacchi, quadri comunisti, prigionieri di guerra sovietici e alcuni lituani anti-tedeschi. Ponary così divenne la tom­ba degli ebrei di Vilnius, che col suo nome ebraico, Vilna, era conosciuta come la “Gerusalemme di Lituania”. Sakowicz […] decise di documentare le atrocità che avvenivano appena fuori della porta di casa sua [ed] era sicuramente consapevole che la scoperta del suo diario sarebbe costata la vita a lui e forse anche alla sua famiglia. Noi possiamo solo immaginare ciò che lo spinge­va a portare avanti il suo pericoloso compito. Era l’urgenza intellettuale di trascrivere un evento le cui finalità e atrocità non avevano precedenti nella storia europea? Pensava di pubblicare il diario dopo la guerra, o di usarlo come base per un libro? Forse il suo scopo era produrre un documento che potesse servire come un’imputazione contro gli assassini. Qualunque fosse la motivazione, Sakowicz non visse per realizzarla. (pp. 11-12)

«Il 5 luglio 1944, Sakowicz fu trovato mortalmente ferito nel bosco, vicino alla sua bicicletta. La sua tomba si trova nel Cimitero Rossa di Vilnius, fra le tombe dei soldati del movimento clandestino polacco (Armia Krajowa)». (p. 9)

Rachel Margolis, dopo la guerra ricercatrice presso il Museo nazionale ebraico di Lituania (prima collaboratrice del Museo Ebraico di Vilnius poi chiuso nel 1949), si imbatté quasi per caso in alcune delle carte del diario di Sakowicz «che era stato scritto su fogli sciolti collocati in bottiglie di limo­nata vuote, chiuse e sepolte nel terreno. Dopo la guerra, i vicini di casa di Sakowicz dissotterrarono alcune di queste bottiglie e le consegnarono al Museo Ebraico». (p. 7)
Ma si trattava solo della prima parte del diario che copriva il periodo dall’11 luglio 1941 all’agosto del 1942. Il recupero dell’intero materiale disponibile – come racconta la Margolis – fu molto difficile, perché si scontrò con l’ostruzionismo tanto delle autorità sovietiche prima dell’indipendenza del paese, quanto delle successive autorità nazionali lituane dopo la separazione dall’Urss: riconoscere ed ammettere le fondamentali corresponsabilità dei collaborazionisti filonazisti lituani negli eccidi di Ponary (Paneriai in lituano e Ponaren in tedesco) era politicamente imbarazzante sia per i comunisti sovietici lituani, prima sia per i nazionalisti anticomunisti, poi. E se durante il periodo sovietico l’accessibilità a qui documenti era impossibile, dopo il 1989, solo a seguito di ripetute richieste, il nuovo Museo di Storia «dove erano state trasferite molte delle collezioni del Museo della Rivoluzione» (p. 8) centellinò i permessi di accesso alle carte del diario di Sakowicz, cosicché fu possibile leggere gli appunti riguardanti il periodo tra il settembre 1942 e il novembre 1943.

Insomma, come è noto, l’addomesticamento di fatti storici compromettenti attraverso l’elaborazione di una verità storica ufficiale, se non addirittura tramite la censura dell’evidenza, è parte essenziale dei processi politico-culturali di costruzione di un’identità nazionale di stato, diffusi e frequenti ovunque: il mito degli “italiani, brava gente” o la lettura “risorgimentale-patriottica” della Resistenza rientrano nella stessa fattispecie.

Come rileva Yitzhack Arad, l’unicità del diario di Sakowicz sta nel suo carattere di registrazione “oggettiva”, quasi completamente priva di commenti, osservazioni o impressioni emotive e nel fatto che esso è il punto di vista non di una vittima, ma di un osservatore esterno; un po’ come se fossero istantanee fotografiche, scattate in fretta e di nascosto o appunti stringati utili per fissare immagini e particolari nella memoria. Di nulla di analogo disponiamo per i numerosissimi altri eccidi perpetrati dalle Einsatzgruppen e dai loro collaborazionisti locali nei territori sovietici occupati dalla Wehrmacht con l’Operazione Barbarossa, come ad esempio a Babi Yar, presso Kiev, dove tra il 29 e il 30 settembre del 1941 furono eliminati, con le stesse modalità utilizzate a Ponary, 33.771 ebrei.

Lo sterminio degli ebrei di Vilnius ebbe inizio il 2 luglio 1941, quindi appena una settimana dopo l’arrivo dei tedeschi in città e agli uomini degli Einsatzkommnados si unirono diverse decine di lituani: si trattava di «un’unità speciale di 150 uomini, l’Ypatingi Buriai. Quest’unità fu affiancata all’Einsatzkommando 9 e lo aiutò ad arrestare gli ebrei e a massacrarli a Ponary». (p. 22)

Memoriale di Ponary – Fossa di esecuzione

Si tratta di quei collaborazionisti lituani che Sakowicz nel suo diario chiama i “Fucilieri di Ponary”, che operavano in un contesto di diffuso antisemitismo, alimentato da movimenti e gruppi nazionalisti lituani, tra i quali – come spiega una delle tante note introduttive alle sezioni del diario di Sakowicz aggiunte nell’edizione curata da Yitzhack Arad – «il Fronte Attivista Lituano (LAF), istituito nel novembre del 1940 da rappresentanti esiliati dei partiti politici lituani che erano fuggiti in Germania quando i sovietici avevano occupato il paese. Il LAF aveva diramazioni clandestine in Lituania, dove diffuse una feroce propaganda antisemita tramite volantini introdotti illegalmente nel paese. I volantini invitavano a una sollevazione popolare se la Germania avesse attaccato l’Unione Sovietica e all’eliminazione, con qualunque mezzo, degli ebrei dal suolo lituano. Uno dei volantini del LAF – intitolato: “Per che cosa stanno combattendo gli attivisti?” – dichiarava: il Fronte Attivista Lituano, ricostituendo la nuova Lituania, è determinato a portare avanti un’ immediata e radicale epurazione della nazione lituana e della sua terra da ebrei, parassiti e mostri… [Questa] sarà una delle precondizioni essenziali per cominciare una nuova vita». (p. 20)

Una sotto-unità portava la gente a Ponary, generalmente con camion dell’Einsatzkommando. Un’altra sorvegliava il luogo della strage, sia fuori – per impedire alla gente, compresi soldati tedeschi, di avvicinarsi alle fosse delle esecuzioni – sia dentro, per impedire alle vittime di fuggire. Al loro arrivo le vittime venivano messe in un’area sorvegliata di attesa; veniva loro detto di spogliarsi e di consegnare ogni oggetto di valore in loro possesso. Si diceva poi loro di bendarsi l’un l’altro o di coprirsi il capo con una camicia e di chiudere gli occhi. Erano infine condotti, nudi, dal luogo di attesa alle fosse di esecuzione in gruppi di dieci o venti camminando in fila indiana, tenendosi per mano. Alla testa della fila stava un lituano che guidava il primo prigioniero alla fossa di esecuzione. Non appena il gruppo lasciava l’area di attesa, i sicari preparavano il gruppo successivo. Membri della terza sub-unità, presso le fosse di esecuzione, allineavano le vittime sul bordo della fossa e le fucilavano. Le vittime cadevano nella fossa, dove chi avesse mostrato segni di vita sarebbe stato colpito di nuovo. La gente che stava nell’area di attesa, solo a poche decine di metri dalle fosse, poteva sentire chiaramente gli spari ma non poteva vedere ciò che avveniva. Alla fine del massacro giornaliero, le fosse venivano coperte con uno strato di sabbia. Qualche volta ciò veniva fatto dall’ultimo gruppo di ebrei, che venivano poi fucilati e coperti di sabbia dai lituani del plotone di esecuzione. (p. 24)

Sakowicz annota con estrema precisione tutto quello che vede dalla soffitta di casa sua: i trasporti delle vittime e il loro numero approssimativo; l’organizzazione all’interno dell’area adibita a luogo di esecuzione; le differenti e successive fasi delle procedure di sterminio. Individua ed indica con sicurezza coloro che sparano – e di frequente sono gli Shaulisti, cioè i membri della Sauliu Sajunga (associazione di fucilieri), ovvero giovani lituani nazionalisti ed anticomunisti che danno pieno sostegno ed aiuto agli occupanti nazisti; registra l’avido interesse dei collaborazionisti per gli indumenti e gli oggetti di valore che vengono sottratti alle vittime, che distingue per sesso, età, condizione sociale, che deduce dagli abiti che indossano al momento del loro arrivo a Ponary; prende nota degli orari di inizio e fine delle esecuzioni e di ogni minimo particolare riesca ad osservare.

Talvolta aggiunge anche qualche commento, che sembra dettato da un moto di indignazione che non riesce a trattenere per l’orrore a cui assiste e per la disumanità e la meschinità dei carnefici e dei numerosi approfittatori:

«Per i tedeschi 300 ebrei sono 300 nemici dell’umanità; per i lituani essi sono 300 paia di scarpe, di pantaloni, e simili» (p. 28); «L’automobile targata NV-370 portava due divertite “signore” (dames) in compagnia di un certo “gentiluomo”: facevano una gita di un giorno per vedere le esecuzioni. Dopo le esecuzioni erano di ritorno; non ho visto tristezza sui loro visi». (p. 29)

Lo stile di scrittura è prevalentemente quello della annotazione succinta, che registra in sequenza impressioni anche molto diverse e che talvolta appaiono incoerentemente giustapposte, ma questo – seppur non fosse di certo l’intento dell’autore che si limitava a raccogliere il maggior numero possibile di dati – contribuisce a comunicare al lettore odierno l’immagine del caos orrorifico, quasi infernale, che regnava nel bosco di Ponary tra l’estate del 1941 e l’autunno del 1943.

«Sparano su gruppi, da dietro, alle spalle, o con granate o mitragliatrici quando piove o è tardi. Uno è scappato in mutande fino a Deginie. È stato inseguito e colpito. Bambini pascolavano le mucche, e lui è corso da loro ma sono scappati. Pochi metri più avanti la segale era già alta. Normalmente ne fucilano dieci alla volta. Bendano soltanto quelli che lo vogliono. Il secondo gruppo vede uccidere il primo, ma non lo sotterra. No! Calpestano (non ancora) cadaveri – i cadaveri». (p. 30)

Talvolta Sakowicz non si limita a registrare quanto lui vede personalmente, ma lo integra con notizie fornitegli dai vicini di casa e dagli abitanti del luogo, mettendo tra parentesi i nomi delle persone con cui ha parlato.

Ottanta Shaulisti hanno fatto fuoco, mentre la recinzione attorno [alla fossa] era sorvegliata da cento Shaulisti. Sparavano ubriachi. Prima di aprire il fuoco, essi hanno orribilmente torturato uomini e donne (Jankowski). Gli uomini sono stati fucilati separatamente. Le donne sono state spogliate fino alla biancheria intima. [Esse avevano] molti oggetti – pellicce, oggetti di valore – perché pensavano di andare al ghetto. Il comandante del plotone lituano, ubriaco, è salito in strada indossando una pelliccia da donna (Kalinowski).
Dal modo in cui sparavano, il gruppo [di fucilieri] stava in piedi sopra i cadaveri. Camminavano sui cadaveri! [I cadaveri venivano] subito coperti il giorno dopo. C’erano molti feriti. Una donna è fuggita a Dolna. Era stata colpita a un braccio. Vicino a sé, nella fossa, ha visto i suoi due figli uccisi, e in un’altra fossa suo marito morto. Quel giorno gli Heneks incontrarono cinque donne sanguinanti, con gli abiti a brandelli.
Sono stati portati qui 2.000 ebrei, uomini, donne e bambini.
Buoni affari con gli abiti da donna, il 3 e 4 settembre! Il giorno dopo è stato trovato nel bosco vicino alla fossa un bambino piccolo: giocava sulla sabbia. È stato buttato nella fossa e fucilato (Jankowski). Addirittura, un neonato è stato fucilato dopo essere stato strappato dal seno che stava succhiando (Krywkowa). (p. 36)

La prima pagina del diario è datata 11 luglio 1941, l’ultima «annotazione nel diario di Sakowicz è datata 6 novembre 1943. Ma i massacri a Ponary si protrassero anche dopo quella data. Secondo la sua famiglia, Sakowicz continuò a tenere questo diario fino al giorno in cui fu colpito e ferito mortalmente, il 5 luglio 1944, a Ponary, mentre andava a casa in bicicletta da Vilnius. Fu sepolto a Vilnius il 16 luglio. Non è chiaro chi lo abbia colpito. L’Armata Rossa si stava avvicinando alla città, che fu attaccata il 7-8 luglio e occupata il 13 luglio. La città e i suoi dintorni erano un campo di battaglia, sicché sembra probabile che Sakowicz sia stato accidentalmente colpito durante lo scontro fra elementi dell’avanguardia sovietica o partigiani e forze tedesche. È meno probabile che sia stato colpito intenzionalmente da collaborazionisti lituani, come sosteneva sua moglie. I lituani stavano fuggendo precipitosamente e non è verosimile che avessero il tempo di pensare di tendere un’imboscata a Sakowicz. Non si conosce il destino delle pagine mancanti del diario. Sakowicz può averle nascoste separatamente dal resto e non sono mai state trovate». (p.113)