di Gioacchino Toni

L’atto di vedere la violenza, nelle sue forme più o meno estetizzate, è una pratica quotidiana che negli ultimi tempi si è diffusa a dismisura. Lo spazio dedicato alla cronaca nera dall’infotainment televisivo ha raggiunto livelli prima sconosciuti ed è un fenomeno che accomuna, almeno, l’intero Occidente. Che lo sguardo sia alla ricerca di violenza lo testimoniano anche alcune ricerche che mettono in luce, ad esempio, come negli ultimi decenni il numero di film in cui compare la figura del serial killer sia davvero esorbitante, senza contare le tante serie televisive proliferate proprio attorno al tema del crimine e la nascita, anche in Italia, di canali dedicati. Sarebbe però limitativo individuare nella sola televisione l’enfasi morbosa con cui si insiste sul crimine visto che si tratta di un fenomeno che riguarda ormai l’intera sfera del tempo libero e del divertimento: dal mondo dell’arte ad alcune tendenze del turismo (dark tourism), dalla letteratura allo shopping di paccottiglia più o meno realmente legata a qualche episodio criminale.

Di tali questioni si occupa il volume di Oriana Binik, Quando il crimine è sublime. La fascinazione per la violenza nella società contemporanea (Mimesis, 2018), testo che indaga i motivi per cui la società contemporanea appare così affascinata dal crimine e lo fa adottando una particolare prospettiva secondo cui la fascinazione per il crimine «fa perno sull’esperienza del sublime, ovvero sul dire l’indicibile, su quello stato d’animo che eccede la parola e travalica ogni limite […] Com’è possibile che sia accaduto? Perché? Quali sono i limiti sino a cui può spingersi l’essere umano? Queste sono le domande che accompagnano il senso del sublime e la fascinazione per la violenza» (pp. 11-12).

Nella sua prima parte il volume propone alcuni strumenti teorici utili per poter poi affrontare l’analisi empirica condotta dall’autrice che si concentra su alcuni casi di studio: la trasmissione Quarto Grado, il turismo nei luoghi del crimine, il collezionismo di oggetti appartenuti a serial killer, il fanatismo di/per Anders Breivik, autore della strage di Utoya. La studiosa si sofferma soprattutto sulle modalità con cui gli intervistati descrivono i loro stati emotivi e i significati assunti ai loro occhi dal crimine. «Si è trattato, per quanto possibile, di presentare il loro sguardo con il loro linguaggio, considerando il detto, il non detto ma anche le difficoltà nel maneggiare l’indicibile. Si è deciso, pertanto, di fare in modo che la colonizzazione del tema di ricerca avvenisse anche attraverso lo sguardo dei diretti interessati, chiamati a dare senso al proprio vissuto attraverso dei suoni per loro significativi» (p. 13).

Diverse letture critiche trattano i soggetti affascinati dalla violenza come «semplici vittime passive del mercato, il cui (cattivo) gusto esprimerebbe l’appiattimento culturale dei tempi odierni» ma, sostiene l’autrice, nelle narrazioni degli intervistati si scopre una «inaspettata profondità di alcuni vissuti attribuiti all’esperienza del crimine, in grado di penetrare negli animi degli spettatori e di scuotere la loro riflessività. Il crimine, da questa prospettiva, pone il soggetto al cospetto del male e dialoga con i limiti dell’umano. La reazione al crimine può essere pertanto considerata come un’ancora racchiusa nelle profondità dell’individuo, in grado di interrogarlo in maniera radicale. Un’ancora perché se da un lato il crimine affascina e seduce conducendo in mondi “sommersi”, dall’altro costituisce un elemento a cui far ritorno, per collocare se stessi e gli altri all’interno della società» (p. 321)

Al fine di comprendere meglio l’ambiguità propria della fascinazione per il crimine Binik riprende una definizione del sublime inteso come «un’emozione che pone di fronte al senso del limite, alla dimensione della distruttività umana e che genera in noi uno stato di spaesamento, ossia un tentativo, spesso destinato al fallimento, di comprendere un gesto ‘altro’ che esula dalla nostra quotidianità» (p. 322). Secondo la studiosa sarebbe soprattutto il processo di mercificazione oggi imperante a dare «origine a una forma di “capitalismo emotivo che porta gli individui a ricercare il crimine come mezzo per soddisfare la propria sete di emozioni, trasformate in beni pronti al consumo. In certi frangenti, inseguendo alcune vertigini, siamo diventati (anche) dei consumatori del sublime, emozione appiattita e banalizzata nella sua versione “commerciale”, proposta dalle trasmissioni televisive dedicate al crimine, dagli organizzatori di tour, dai venditori di murderabilia, persino dagli stessi autori delle stragi. Vaghiamo alla ricerca di attimi di intensificazione dell’esistenza; talvolta, giochiamo ad avvicinarci troppo al male, per poi vergognarci e ritrarci imbarazzati, come hanno raccontato i turisti che si sono recati ad Avetrana. Il crimine, in questi frangenti, costituisce un oggetto irretito da un immaginario che senza ricorrere alle zone estreme sembra non aver più nulla da dire sul mondo. Così, di fronte a una televisione sempre più piatta e alienante e ai suoi tentativi di offrire un “sublime addomesticato”, alcuni soggetti si muovono verso la ricerca autentica dell’estremo, immediata, pura, reale» (p. 324).

Certo, le strutture di potere che mercificano e spettacolarizzano tendono a plasmare gli immaginari, tuttavia, è possibile sottrarsi o combattere tali visioni oggi egemoniche per affermare altre. «Ogni essere umano trova il proprio punto di equilibrio, chi più attivo, chi più passivo, nel negoziare la propria posizione all’interno della rete di significati ed emozioni costruiti, proposti e talvolta “mercificati” dagli altri attori sociali. Così, la mercificazione convive fianco a fianco con […] la capacità di alcuni spettatori di non “subire” passivamente il crimine confezionato ma di saperlo trasformare in un’esperienza significativa. […] la fascinazione per il crimine costituisce, nella sua versione contemporanea, un fenomeno fatto di contraddizioni, di processi apparentemente opposti che convivono pacificamente gli uni giustapposti agli altri. In altre parole, il crimine può essere proposto nella sua versione più beceramente spettacolarizzata e, al contempo, in alcune specifiche circostanze, favorire riflessioni significative sul senso della morte o sul nostro attraversamento dell’esistenza» (p. 325).

Binik definisce il processo di mercificazione come “prima faccia del carnevale del crimine”: «se dal punto di vista dello spettatore il crimine può essere paragonato a un carnevale che tutto ribalta, questo stesso ribaltamento non può essere ricondotto unicamente a un’esperienza di consumo. Nel momento in cui lo spettatore si allontana dalle routines sterilizzate del suo mondo profano, attraverso il crimine egli può accedere nientemeno che a una qualche forma di sacralità. Da questa prospettiva, il crimine affascina perché rievoca il contatto con il sacro sinistro, si aggancia così a quelle “strutture” culturali binarie che si pongono da sempre alla base del funzionamento della società. Ecco dunque “la seconda faccia del carnevale del crimine”. L’abiezione rappresentata da una collezione di capelli di un serial killer si ricollega al male, un male sacro poiché estraneo alla quotidianità profana, precipitato di un mondo “altro”. Un male soprattutto necessario e connaturato all’esperienza umana poiché – nonostante i molteplici meccanismi di difesa – nessuno è avulso dalla catastrofe, anzi ognuno ne conserva quantomeno una sorta di intuizione.” “L’Irreparabile rode col suo dente maledetto!” scriveva Baudelaire, per significare proprio l’irriducibilità del male: sfugge, si sposta, muta nel suo aspetto ma non scompare, continua a “rodere”. La perenne caccia all’omicida raccontata dai media sembra rappresentare una trasfigurazione perfetta di questo concetto: cerchiamo di catturare ed espellere il cattivo (e le nostre parti cattive) utilizzando tutti gli strumenti di cui dispone la razionalità; tuttavia, chiuso un caso se ne apre un altro, le storie si susseguono, sempre più intricate, dando forma a un processo appassionante e, soprattutto, senza fine» (p. 325).