di Sandro Moiso

AA.VV. (a cura di Dilar Dirik, David Levi Strauss, Michael Taussig, Peter Lamborn Wilson), Rojava una democrazia senza stato, Elèuthera 2017, pp. 222, € 16,00

L’interessante e ricco di testimonianze testo di Elèuthera è pubblicato in un frangente molto delicato e drammatico delle vicende del Vicino Oriente. Infatti l’edizione ha preceduto di pochi mesi la dichiarazione di Donald Trump sul riconoscimento di Gerusalemme come capitale dello Stato di Israele e le di poco precedenti dichiarazioni tese a costruire una sempre più stretta alleanza con l’Arabia Saudita e gli altri stati del Golfo che, nascosta sotto un’operazione mediatica di maquillage attraverso l’entrata in scena del nuovo erede al trono saudita Mohamed bin Salman, tende alla preparazione di un più vasto conflitto, forse non ancora diretto per gli USA, con l’Iran e gli stati in cui il regime di Teheran rivela un certo peso politico e militare.

Contemporaneamente le dichiarazioni pubbliche del Ministro della Difesa russo sull’addestramento in chiave anti-Assad cui gli americani starebbero sottoponendo i combattenti dell’ISIS e di Al Nusra, fuorusciti da Raqqa poche settimane or sono, hanno ulteriormente contribuito ad aumentare le tensioni in un’area che potrebbe rivelarsi decisiva per lo scoppio definitivo di un terzo conflitto mondiale.

E’ infatti al centro di tale area conflittuale1 che si sta sviluppando l’esperimento di quella che David Graeber, in uno dei due testi che lo vedono coinvolto all’interno del libro, definisce come un’autentica rivoluzione.
Nel Rojava è infatti in corso una trasformazione dei rapporti sociali, economici e tra i sessi destinata sicuramente a lasciare il segno sui movimenti sociali a venire e a ridefinire i compiti di quella che sarà la Rivoluzione del futuro. Esattamente come l’esperienza della Comune di Parigi contribuì a ridefinire, attraverso l’azione dei suoi protagonisti, i compiti del movimento operaio ottocentesco e novecentesco. Così tanto da influenzare e costringere, all’epoca, ad affinare il proprio pensiero i teorici del socialismo rivoluzionario da Marx a Lenin.

Afferma Graeber a proposito del Rojava e della situazione attuale:

Nel corso degli ultimi trenta o quarant’anni, i capitalisti hanno compiuto uno sforzo enorme per diffondere la convinzione che gli attuali assetti economici – non il capitalismo, ma la specifica forma di capitalismo finanziario e semifeudale che conosciamo oggi – costituiscano l’unico sistema economico possibile […] Come risultato, il sistema ci sta crollando addosso proprio nel momento in cui sembra essersi persa la capacità di immaginare qualcosa di diverso.
Ebbene, sono convinto che nel gito di cinquant’anni il capitalismo non esiterà più in nessuna delle forme a noi familiari e, forse, in qualsiasi altra forma conosciuta.Qualcos’altro avrà preso il suo posto […] Per questo ritengo che, in quanto intellettuali, o semplicemente uomini pensanti, sia nostro dovere tentare quanto meno di immaginare quale aspetto potrebbe assumere qualcosa di migliore. E se esiste qualcuno che sta realmente cercando di costruirlo, è nostro dovere fornirgli il nostro aiuto.2

Tutte le testimonianze presenti nel testo di Elèuthera non solo configurano la radicalità dell’esperimento condotto dalle forze curde nei territori del Kurdistan occidentale compresi all’interno dei confini siriani, ma anche il fatto che tale esperimento si basa sulla precisa coscienza che una nuova e differente società egualitaria non possa prendere a modello nessuno dei sistemi organizzativi e produttivi che sono già appartenuti al modo di produzione capitalistico e alla società borghese o che ad essa si sono ispirati.

Da cui derivano non solo la necessità dell’abolizione dello Stato centralizzato e nazionale ma, già nel corso della “rivoluzione” stessa, anche della sua sostituzione con organismi eletti e controllati dal basso a tutti i livelli (giustizia, sicurezza, difesa). Accanto a questa sostituzione federalistica e “comunale” delle strutture statuali deve però essere costruita in corso d’opera una società che non rinvii a “dopo” la questione della parità dei sessi e dell’eguaglianza dei diritti ed economica, ma che già realizzi tali principi nella vita quotidiana e materiale della società in transizione.

I differenti saggi contenuti nel testo curato da Dirik, Levi Strauss, Taussig e Lamborn Wilson toccano tutti i differenti aspetti di questa trasformazione in maniera sintetica, esauriente e convincente, dimostrando appunto che tale esperienza merita una straordinaria attenzione e mobilitazione da parte di tutti coloro che intendono opporsi all’imperialismo e al capitalismo su scala internazionale e a casa propria.

Proprio per questo motivo occorre però porsi alcune altre domande, che stanno alla base di un’altra affermazione contenuta nel discorso dell’antropologo inglese:

Non ho alcuna certezza che questa esperienza non venga schiacciata prima di arrivare a compimento, ma di certo lo sarà se si stabilisce in anticipo che nessuna rivoluzione è possibile, se ci si astiene dal darle un sostegno attivo, se addirittura la si attacca, contribuendo a isolarla ulteriormente, come fanno in molti.3

Occorre cioè non soltanto accettare acriticamente tutte le formulazioni e le scelta fatte sul campo dai combattenti e rappresentanti delle comunità del Rojava, ma anche contribuire a definire aspetti che nel contesto generale potrebbero risultare ambigui o, più semplicemente, contraddittori e confusi a causa della situazione d’urgenza.

Secondo la Encyclopaedia of Islam, il Kurdistan conta 190.000 km² in Turchia, 125.000 km² in Iran, 65.000 km² in Iraq, e 12.000 km² in Siria, per cui l’area totale sarebbe di 392.000 km².
Per il Rojava quindi 12.000 km² con circa 4,6 milioni di abitanti (di cui circa la metà rifugiati) in un Medio Oriente che comprende una superficie di 7 milioni e 300mila km² e circa 402 milioni di abitanti.4

All’interno di tale area il Rojava rischia quindi, a priori, di essere schiacciato non solo dagli interessi dei colossi dell’imperialismo geo-politico (Stati Uniti e Russia), ma anche da quelli dei giganti nazionali e militari rappresentati dai maggiori competitor in loco (Turchia, Israele, Iran e Arabia Saudita, tralasciando per il momento l’Egitto che, con i suoi 90 milioni di abitanti, è il paese più popolato dell’intera area).

Un’area in cui alcune e non secondarie questioni solo apparentemente nazionali (valgano per tutte quelle palestinese e curda in generale) potrebbero trovare nell’esempio kurdo un valido esempio per l’azione e l’organizzazione sociale, con forme di federalismo in grado di metter in relazione e contribuire all’alleanza di settori di popolazione estremamente differenti tra di loro per lingua, etnia, religione e situazione socio-economica.
Un esperimento, quindi, che non può davvero ricevere l’approvazione o la simpatia autentica di alcuni stati (vedi ad esempio Israele) che pur fingono di appoggiare i combattenti curdi o garantire il loro totale appoggio futuro (si pensi alla politica statunitense del divide et impera ). Né tanto meno l’aiuto di quelle forze di stampo sciita, che pur si contrappongono all’Isis e ai giochi saudito-israeliani nell’area, ma in chiave filo-iraniana.

Un errore di fiducia in tal senso potrebbe infatti costare molto caro ai curdi del PKK di Abdullah Öcalan e del Partito democratico del Kurdistano (PYD) e alle sue unità, femminili e maschili, di autodifesa. Un errore che è possibile intravedere in un’intervista, sicuramente interessantissima e chiarissima nei suoi scopi, rilasciata recentemente da Riza Altun (membro del Consiglio esecutivo dell’Unione delle Comunità del Kurdistan (KCK) ), in cui l’intervistato si sofferma ripetutamente sul paragonare l’alleanza tattica attuale con gli Stati Uniti con quella stabilita durante il secondo conflitto mondiale tra l’Unione Sovietica di Stalin e le potenze occidentali.5

In tal modo si rischia infatti non soltanto di far rientrare dalla finestra l’esperienza stalinista appena cacciata dalla porta con le scelte coraggiose operate dal PKK e dal suo leader, ma anche di paragonare l’attuale guerra di liberazione rivoluzionaria del Rojava alla condotta, sostanzialmente ispirata dalle logiche nazionaliste ed imperialiste, dell’URSS stalinizzata nel corso del secondo conflitto mondiale. Sopravvalutando allo stesso tempo la potenza militare delle forze curde, assolutamente inferiori per armamenti, numero di combattenti e potenziale produttivo alla macchina bellica messa in atto in Russia tra il 1942 e il 1945.

Oltretutto in un contesto in cui l’aiuto americano alle forze curde potrebbe trasformarsi rapidamente nel suo contrario qualora i giochi diplomatici internazionali richiedessero agli Usa di tornare sui propri passi, nel tentativo di recuperare l’appoggio dell’attuale Saladino islamico Erdogan. L’equilibrio attuale che vede infatti la Turchia pericolosamente schierata “a fianco” della Russia di Putin e contro Gerusalemme capitale dello Stato israeliano potrebbe infatti essere rimesso in discussione da una significativa offerta di espansione territoriale illimitata in Siria e a spese dell’indipendenza del Rojava.

L’esperienza, per quanto sconfitta dolorosamente, della Comune di Parigi del 1870/71 sembra quindi più appropriato dal punto di vista storico e più interessante come paradigma politico.
Dal punto di vista storico perché l’esperienza della Comune si sviluppò in un contesto molto simile: all’interno di una nazione militarmente sconfitta da un avversario più forte, la Prussia bismarckiana, una frazione significativa della sua popolazione, gli abitanti della capitale francese, insorse per determinare la propria indipendenza e il proprio futura. Ridisegnando le condizioni del conflitto di classe a venire, in cui le forze socialiste e proletarie, a differenza del 1848, non avrebbero mai più dovuto affiancare in Europa le aspirazioni borghesi.

Dal punto di vista politico perché il modello Rojava potrebbe essere fonte di ispirazione non solo per le altre esperienze in cui si confondono la lotta in difesa del territorio e dell’ambiente e lotta di classe, dalla Val di Susa all’esperienza francese della ZAD o al Chiapas, ma anche per tutte le questioni politico-territoriali ancora irrisolte in Medio Oriente, dalla Palestina al Libano e allo stesso Kurdistan extra-siriaco.6 Facilitando l’estendersi di una maggiore solidarietà internazionalista “dal basso” più che le sempre incerte ed oscure, nelle loro finalità ultime, alleanze “dall’alto”.

Naturalmente questi rapidi appunti non intendono assolutamente avere la pretesa di opporsi alla politica portata avanti dal PYD e dalle sue forze di autodifesa, né tanto meno criticare l’aiuto e il sacrificio con cui molti rivoluzionari provenienti dal resto del mondo stanno contribuendo alla causa del Rojava. Anzi, al contrario di ciò che schematici e settari rappresentanti delle vecchie ideologie politiche novecentesche continuano a fare criticando e insultando di fatto la lotta e le scelte del PKK e del PYD, intende piuttosto essere un contributo, anche se limitato, ad una causa che oggi come poche altre può indicare davvero una nuova via per la rivoluzione sociale.7

In tal senso i quattordici capitoli di questo prezioso e sintetico libretto, ognuno dedicato ad uno degli aspetti della rivoluzione in Rojava, possono così rivelarsi illuminanti, stimolando i lettori verso quel coraggio di immaginare che Dilar Dirik invoca nell’ultimo. Last but not least il titolo che rinvia al problema centrale di quanto detto fino ad ora: l’impossibilità di realizzare una vera democrazia all’interno dello Stato così come è venuto a formarsi all’interno delle necessità storiche, economiche e nazionali definite dallo sviluppo del capitalismo stesso.
Infatti un’autentica democrazia dal basso impone di spezzare la macchina statale non al termine del percorso rivoluzionario, ma mentre è ancora in corso d’opera. Così come realizzò, anche se per un tempo brevissimo, la Comune di Parigi fornendo, come si è già ricordato, un fondamentale insegnamento per le pagina più ispirate di Marx8 e Lenin9 sull’argomento.


  1. Si confrontino, solo per citare alcuni precedenti interventi sul tema: https://www.carmillaonline.com/2017/04/07/yankee-doodle-goes-to-war/ ; https://www.carmillaonline.com/2016/07/25/ucuncu-dunya-savasi/ ; https://www.carmillaonline.com/2014/08/22/world-war-zombie/ ; https://www.carmillaonline.com/2013/09/10/war/ ;
    https://www.carmillaonline.com/2015/04/06/la-bomba-iraniana/ ; https://www.carmillaonline.com/2016/11/16/laboratorio-rojava/  

  2. David Graeber intervistato da Pinar Ögünç, No, questa è un’autentica rivoluzione, in Rojava una democrazia senza stato, pag. 95  

  3. Graeber, op.cit. pag. 94  

  4. Dati del 2014, mentre erano erano 240 nel 1990  

  5. http://www.uikionlus.com/altun-per-la-prima-volta-abbiamo-creato-zone-di-liberta-in-medio-oriente/ e http://www.uikionlus.com/altun-il-socialismo-non-puo-essere-costruito-con-gli-strumenti-del-capitalismo/  

  6. Si confronti: http://www.uikionlus.com/meglio-di-una-soluzione-con-uno-o-due-stati-sarebbe-una-soluzione-senza-stato/  

  7. Si confronti: http://www.uikionlus.com/il-partito-della-terzarivoluzione-del-kurdistan/  

  8. Karl Marx, La guerra civile in Francia  

  9. Lenin, Stato e rivoluzione