di Marc Tibaldi

Gianfranco Manfredi, Ma chi ha detto che non c’è. 1977, l’anno del Big Bang, Agenzia X, Milano, 2017, pp. 422, € 20,00.

Il “trasformare il mondo” di Karl Marx che si integra al “cambiare la vita” di Arthur Rimbaud, a “il sogno, la poesia, la rivoluzione, l’amore” dei surrealisti, al “distribuire la ricchezza già ora” della Banda Bonnot. Ecco, il meglio 77 incorporava queste istanze, e integrava il meglio delle ideologie dell’800 e delle avanguardie e delle controculture del ‘900. Shakerando il tutto e producendo nuove modalità e nuove idee, Ma chi ha detto che non c’è di Gianfranco Manfredi ci regala la complessità di quel movimento come non era ancora stato fatto, nonostante tutti i titoli sull’argomento apparsi negli ultimi dieci anni. È un fantastico zibaldone di considerazioni, riflessioni, analisi sociologiche e ricordi personali. Manfredi è figura ecclettica: scrittore, filosofo, cantautore, sceneggiatore di numerosi film e di decine di storie a fumetti esportati in tutto il mondo. Negli anni settanta ha inciso gli album Ma non è una malattia e Zombie di tutto il mondo unitevi.

Tra i suoi romanzi ricordiamo Magia Rossa (Feltrinelli, 1983) e Piccolo diavolo  nero (Tropea, 2001), e questo nuovo lavoro può essere letto come una necessaria integrazione a L’Orda d’Oro, 1968-1977. La grande ondata rivoluzionaria e creativa, politica ed esistenziale. Se l’imperdibile antologia curata da Primo Moroni e Nanni Balestrini è una selezione dei più significativi contributi teorici e delle più interessanti esperienze politiche rivoluzionarie, il lavoro di Manfredi ci restituisce la molteplicità del movimento e di quegli anni in generale, contestualizzando le lotte politiche nello scenario culturale – nazionale e internazionale – di quell’anno.

Il libro non racconta solo il 77, ma più in generale degli anni di quella congiuntura tra il dopo 68 e l’inizio del riflusso. E lo fa con lo spirito di “quel” tempo e senza essere un libro per nostalgici. Questo è uno dei suoi punti di forza. Ma chi ha detto che non c’è respira l’aria del 77 e ci restituisce le sue visioni, per questo è anche un libro sul futuro. Nasce ispirato dalla famosa canzone che porta lo stesso titolo, che Gianfranco Manfredi incise nel 1976 e pubblicò nell’album Ma non è una malattia. È una canzone d’amore e di rivoluzione, emblematica del 77, un desiderio per qualcosa che ci sarà forse un giorno ma anche per le possibili utopie del quotidiano. È un pezzo bellissimo, essenziale, un equilibrio di contrasti e suggestioni, non a caso viene riproposto ancor oggi da molti gruppi e cantautori, dai Gang ai Ministri, dal gruppo torinese Aldo dice (con, tra gli altri, Nadàr Solo, Banda Fratelli, Daniele Celona, Levante, Esma, 2 Fat Men, Duemanosinistra, Il terzo istante) a quello informale composto da Guido Baldoni, Davide Giromini, Alessio Lega, Rocco Rosignoli e Marco Rovelli.

Seguendo il testo della canzone, il libro dedica capitoli indimenticabili a tutti gli aspetti che quell’anno magico seppe mettere in discussione e in cui il movimento antagonista espresse scintille creative e immaginative: dai fumetti alla letteratura, dal teatro al cinema, dalla fantascienza alla pedagogia libertaria e poi ancora e soprattutto: il femminismo, l’ecologia sociale e l’agricoltura naturale, l’antipsichiatria, l’Autonomia operaia, l’autonomia diffusa, gli indiani metropolitani, il punk, le musiche “alt(r)e”, l’antimilitarismo…

Molto utile è allora la lista dei buoni propositi che l’autore decide di seguire scrivendo il libro e che viene riportata nell’introduzione: “non eccedere in autobiografismo, non cedere al flusso dei ricordi (i ricordi ingannano), non cadere nel genere “anni di piombo” (essendo stato il 77 assai di più di una scatola del tempo con dentro una P38 e una confezione di proiettili), tantomeno scadere nel revival celebrativo e sentimentale, all’inseguimento della giovinezza perduta. Sbagliatissimo sarebbe stato anche ridurre il vissuto collettivo a vissuto generazionale. C’erano più generazioni, all’opera, dai bimbi che nascevano, ai vecchi che se ne andavano. E tutti sono stati protagonisti, a pieno titolo, di quell’anno esemplare e unico. Dovevo aprirmi al punto di vista degli altri, percorrere con loro sentieri che io non avevo esplorato, rifuggendo però come la peste le rievocazioni zeppe di aneddoti ricostruiti ad arte, di sfoghi postumi di rancori contro tizio o contro caio, di glorificazioni di fulgide imprese a gestione familiare e/o di gruppo… insomma il peggio”.

Due riflessioni per l’oggi, partendo dal caos creativo del libro e del ’77. Prima: il processo tra le differenze culturali e le lotte che partono da una rivendicazione particolare e il processo di ricomposizione sociale appaiono oggi in una luce molto differente da quella che sembrava guidare la scena planetaria di quegli anni. Allora le differenze erano motore di una dinamica di ricomposizione, oggi appaiono per lo più elemento di identificazione aggressiva e particolarista. Si spiega così il fatto che negli ultimi decenni assistiamo a uno spostamento degli accenti. L’accento differenzialista, che negli anni del ciclo internazionalista funzionava come elemento dinamico, oggi è fattore di stabilizzazione identitaria e di chiusura aggressiva (si pensi al movimento afroamericano passato dalle posizioni rivoluzionarie delle BlackPanter alla contraddittoria Million Men March di Farrakhan, alle istanze di liberazione nazionali che si territorializzano e diventano reazionarie, al cambiamento di prospettiva di parti del movimento femminista e del movimento gay verso lidi neoliberal).

Seconda: il ’77 – in molti suoi fermenti, dal movimento desiderante di A/traverso al punk – fu un superamento delle avanguardie e delle controculture al tempo stesso. Forse già le controculture sono state un superamento delle avanguardie. Infatti in campo artistico l’avanguardia presuppone la capacità di evidenziare una capacità individuabile, in qualche modo misurabile (chi misura e quale misura è un problema di potere). Le avanguardie artistiche sono utili al capitale come le avanguardie politiche sono utili alla formazione di gerarchie. Le controculture possono essere sussunte, ma hanno creato una condivisione sociale che permane nella coscienza collettiva. Oggi la creazione di ricchezza materiale, artistica, relazionale e sociale non può essere più creata individualmente, anche la ricerca tecnologica è sempre il frutto di una ricerca di gruppo, di una cooperazione.

Qualche nota a margine disordinata e su aspetti secondari. Nel libro – che ovviamente deve mettersi dei limiti – non viene rimarcata l’importanza che ebbe l’arte visiva (concettuale e performativa soprattutto), e nemmeno l’importanza dell’innovazione calcistica portata dal metodo “epistemologicamente anarchico” (per dirla alla Feyerabend) dell’Olanda e dell’Ajax, che fu una concezione veramente non-gerarchica del gioco. Nei capitoli dedicati alla musica, manca un accenno all’importanza di riviste come Gong e Muzak, ma – perché no – anche di Ciao 2001. Invece, nella parte giustamente importante dedicata all’obiezione di coscienza al servizio militare, manca un accenno al movimento dei “proletari in divisa”, organizzazione informale che ebbe forte seguito in molte caserme. Incompleto da punto di vista analitico ci sembra anche il capitolo dedicato al Partito Radicale. Se da una parte è corretto aver dato spazio a Pannella e soci per il contributo e la determinazione portati nei movimenti degli anni ’70, dall’altro forse andavano individuate – come in altre pagine viene fatto a proposito delle posizioni lottarmatiste – le criticità per cui i radicali sarebbero diventati un perfetto ingranaggio del neoliberismo.

A questo proposito, una breve divagazione sul tema. Ho riletto di recente L’anarchico triestino, l’autobiografia di Umberto Tommasini. La foto che lo vede ritratto accanto a Pannella, durante un comizio di una marcia antimilitarista nel 1973, mi ha ricordato un fatto raccontatomi da un compagno. Durante un polemico contraddittorio Umberto – il fabbro rivoluzionario che partecipò alla Guerra di Spagna aveva allora 77 anni – disse al leader radicale pressappoco queste parole: “diventerai un servo dei padroni e dello Stato”. Non si trattava di una profezia, ma di una motivata analisi politica che dimostrava che dalle posizioni “liberali” di Pannella, mancanti di una visione politica più complessa del potere, non si poteva che arrivare – prima o dopo – a diventare ciò che Pannella diventerà in seguito. È stato così, lo possiamo constatare.

Infine. Per la sua ricchezza e anche per le riflessioni che solleva Ma chi ha detto che non c’è ci lancia una sfida per il futuro: partire dalle differenze senza mettere l’accento sull’identità, partire dalle cospirazioni senza cadere nelle formazioni gerarchiche. Nell’immanenza delle possibilità rivoluzionarie, come canta la canzone “Sta nel fondo dei tuoi occhi / sulla punta delle labbra / sta nel corpo risvegliato […] Sta nel sogno realizzato sta nel mitra lucidato / nella gioia nella rabbia / nel distruggere la gabbia / nella morte della scuola / nel rifiuto del lavoro […] Sta nell’immaginazione / nella musica sull’erba / sta nella provocazione / nel lavoro della talpa / nella storia del futuro / nel presente senza storia / […] negli istanti di memoria […] Sta nel fondo dei tuoi occhi / ma chi ha detto che non c’è / …sulla punta delle labbra / ma chi ha detto che non c’è […] nella fine dello Stato / c’è, c’è, sì c’è, ma chi ha detto che non c’è, c’è”.