di Gianpa L.*

Pacaraima – Ciudad Guayana

Questo articolo è il resoconto di un viaggio che risale ormai a più di un anno fa. All’epoca vivevo in Argentina. Mi ero trasferito perché, stufo del pessimismo europeo, ero affascinato dai racconti che descrivevano l’America Latina come un continente in fermento, politicamente proiettato verso sinistra. L’ironia del destino ha voluto che dopo appena sei mesi passati nella capitale argentina mi sia toccato assistere, dal balcone dell’ostello in cui lavoravo, all’investitura del neo-eletto presidente della nazione Mauricio Macrì. Pochi giorni dopo partii zaino in spalla verso nord. Era stata una sconfitta storica per il ‘peronismo’ e una vittoria inaspettata per la nuova destra argentina, una destra feroce e rampante guidata da un imprenditore miliardario. Mentre attraversavo la Bolivia si respirava aria di referendum, di lì a poco Evo Morales avrebbe incassato la sua prima sconfitta elettorale. Poi è venuto il turno del Brasile. Mentre risalivo il Rio Negro per arrivare a Manhaus, alla radio e alla televisione si parlava solo di due cose, l’allarme Zika e gli scandali giudiziari che stavano mettendo in ginocchio il governo Rousseff. Quando sono arrivato a Pacaraima, città brasiliana di frontiera, erano passate già diverse settimane dalla prima sconfitta elettorale del chavismo, grazie alla quale l’opposizione aveva ottenuto 99 seggi su 167 all’assemblea nazionale venezuelana. Chiunque abbia parlato con quelli che si autodefiniscono ‘esuli’ venezuelani sa bene che i loro racconti sono farciti di dettagli cruenti sul clima repressivo del loro paese, sull’emergenza alimentare, sulla guerra civile alle porte e sulla criminalità dilagante.

Ricordo che digitando la parola ‘Caracas’ su google il primo risultato che compariva era la notizia che la capitale venezuelana era stata definita la città più violenta del mondo. Testate generalmente progressiste, come Vice e Internazionale, parlano del Venezuela in termini di dittatura, di caos generalizzato, citando decine di vittime, barricate e carri armati. Alcuni organi diplomatici dei paesi Europei sconsigliano di recarsi in Venezuela. Dall’altra parte ci sono i racconti romantici della rivoluzione bolivariana, la letteratura militante che descrive gli aspetti più avanguardistici del processo rivoluzionario e poi gli organi di informazione più schierati come TeleSur che osannano ogni parola di Chavez o Maduro come fossero i nuovi Che Guevara dei caraibi. Con tutto questo carico emotivo, fatto di aspettative e timori, mi accingevo ad attraversare la frontiera tra Brasile e Venezuela con 250 dollari nascosti sotto le suole delle scarpe.

Il primo contatto con la realtà venezuelana l’ho avuto ancora prima di varcare i controlli della dogana. Un brasiliano che aveva viaggiato con me da Porto Velho fino a Boa Vista mi dice che ogni tot settimane passa la frontiera per rifornirsi di carburante per la propria auto, dati i costi irrisori della benzina venezuelana. L’autobus che ho preso a Pacaraima si ferma per farci continuare a piedi e un signore a bordo strada si offre di cambiare reales in bolivares e viceversa. Cambio l’equivalente di 80 euro e ricevo in cambio una mazzetta di banconote spessa 4-5 centimetri. La guardo stranito e cerco di contare i soldi. Qualcosa non torna. Sapevo che il tasso di cambio in nero all’epoca era di circa 1 (dollaro) a 960 (bolivares) – mentre il cambio ufficiale era fissato a 1:12 circa. Come per ogni distorsione spropositata della realtà i venezuelani elaborano sempre due teorie contrarie per spiegarla. La prima è che il governo di Maduro stia attuando una politica finanziaria disastrosa e cerchi di coprirla fissando diversi tassi di cambio arbitrari che creano soltanto caos nell’economia nazionale. La seconda è che ci sia dietro una strategia di speculazione e di destabilizzazione, e che nello specifico i tassi del cambio in nero vengano decisi da servizi segreti – narcos – paramilitari – in una località della tanto odiata Colombia. Mentre cerco di fare i conti esatti mi accorgo che il tipo non ha finito di darmi le banconote, e anzi capisco che la mazzetta era solo l’equivalente degli spiccioli. Ora fra le mani ho 7-8 mazzette di banconote, di taglio grande, spesse il doppio della prima che avevo ricevuto. Le metto nello zaino dopo aver fatto finta di contarli, per non apparire come un turista sprovveduto, e continuo a camminare con la sensazione di essere diventato un gangster. Aspetto tre ore sotto il sole per il timbro di uscita dal Brasile e 30 secondi per il timbro di entrata in Venezuela. Mi accoglie una soldatessa cordiale che non mi perquisisce e tanto meno mi chiede se ho dei dollari nelle scarpe.

Prendo un bus che mi porta alla prima tappa: Ciudad Guayana, la capitale economica del paese. Nei primi 40 minuti di viaggio i militari ci fermano almeno 5 volte per controllare i documenti. Dovevamo arrivare al mattino, ma alle 4 di notte il pullman mi lascia in un parcheggio. Per fortuna ci sono dei taxi che mi portano in un hotel dove posso pagare la metà per stare fino a mezzogiorno. Noto subito dei cartelli alle pareti che vietano di portare armi e vietano qualsiasi atteggiamento discriminatorio basato sulla razza o l’etnia di appartenenza. Ho appuntamento dentro un centro commerciale con un certo Edwin che ho contattato su couchsurfing per chiedergli ospitalità. Nel giro di poche centinaia di metri ci sono due mega centri commerciali sfarzosi pieni di fast-food, negozi di abbigliamento, ristoranti e multisala. Mentre faccio colazione si avvicina un ragazzo che mi chiede da dove vengo e inizia a raccontarmi che anche lui ha viaggiato zaino in spalla in lungo e in largo per il mondo. Si offre di pagarmi il conto e di aiutarmi a visitare la città. Mi dice che con gli stessi soldi con cui ha pagato la colazione avrebbe potuto riempire il serbatoio della sua auto per almeno 6 mesi. Mi saluta dicendo di aggiungerlo su facebook ‘mi puoi trovare come Leon.. Leon Trotsky’.

La sera finalmente si presenta Edwin. E’ un signore peruviano di mezza età. Usciamo dal centro commerciale per cercare un taxi. Dopo 5 minuti dice di non sentirsi sicuro a stare in mezzo alla strada a quest’ora (sono le 7.30 di sera ed è appena tramontato il sole). Dice ‘andiamo a piedi, ci vorranno 40 minuti’. Non posso che accettare anche se non capisco come possa essere più sicuro camminare per 40 minuti con 2 zaini in spalla con dentro tutta la mia vita e diversi chili di contanti. Mi offro di cucinare una pasta alla carbonara e quindi ci fermiamo in un supermercato. Solo che non c’è né pasta né pancetta né uova – né carne rossa né farina né carta igienica – in compenso però ci sono interi corridoi con gli scaffali pieni di besciamella o salviettine umidificanti. Ripieghiamo su degli affettati. All’entrata del super ci sono delle guardie armate e al momento del pagamento alla cassa bisogna comunicare le ultime cifre del proprio documento di riconoscimento. Andiamo dal panettiere. E’ un locale di pochi metri quadrati ma pieno di gente che forma una lunga coda a chiocciola. A ognuno viene venduta la stessa quantità di pane che varia di giorno in giorno, a seconda delle disponibilità. Finalmente arriviamo a casa. Vive all’ultimo piano di un grande palazzone popolare. Il suo appartamento è un disastro: il soggiorno è pieno di alimenti e cianfrusaglie, la cucina straripa di gabbie di uccelli e il pavimento del bagno è ricoperto di bacinelle piene d’acqua raccolta direttamente dai tubi idraulici del condominio (più avanti, parlando con un suo vicino, scoprirò che è l’unico del palazzo a non avere – o non volere usare – l’acqua corrente).

Edwin insegna nuoto in una scuola privata per figli di uomini d’affari stranieri. E’ andato via dal Perù nel periodo della guerriglia. Dice che ora, in Venezuela, con questo governo, si è ritrovato punto e a capo. Incomincia a parlare del chavismo come fosse una disgrazia e mi racconta le notti passate in coda per le razioni di cibo a prezzi calmierati che distribuisce il governo. Passerò quasi dieci giorni sul divano del suo soggiorno. La sera riceve spesso delle visite, persone che gli bussano alla porta chiedendogli una coca-cola o dei dolciumi che lui gli passa attraverso le sbarre. All’inizio mi sembra semplice cortesia tra vicini. Col passare dei giorni mi rendo conto che non sto dormendo nel suo soggiorno ma nel suo negozio illegale di alimenti. In Venezuela le persone come lui vengono chiamati acaparadores, cioè coloro che rivendono i prodotti difficili da trovare a prezzi decuplicati.

Parliamo allora della scarsità alimentare, e delle due teorie contrapposte che cercano di spiegarne le cause. Ci sono code lunghe anche interi isolati. Le persone passano anche 10-15 ore in fila per ricevere i beni di prima necessità a costi irrisori (irrisori anche per chi percepisce un salario minimo – ai tempi 30.000 bolivares). I supermercati, come detto, sono semi-vuoti, e quando circola la notizia che per esempio in tale negozio è arrivata della harina pan (farina per fare le arepas, il piatto tipico venezuelano) si creano code interminabili nel giro di pochi minuti. D’altra parte, però, basta entrare in un qualsiasi ristorante per trovare a qualsiasi ora del giorno lasagne, cotolette, arepas, riso, eccetera. Insomma qualsiasi cosa tu voglia. I prezzi però diventano abbordabili solo dopo aver cambiato la tua valuta straniera a un tasso illegale, 70 volte superiore a quello decretato dal governo. La teoria degli oppositori è che la penuria di cibo sia una causa del malgoverno di Maduro, delle sue strategie finanziarie scellerate, della corruzione e dell’inefficienza delle imprese nazionalizzate e cogestite dai lavoratori. Gli oficialistas fedeli al chavismo danno la colpa alle imprese private. Gli imprenditori ricevono dal governo dollari a tasso agevolato per rifornirsi di merci sul mercato internazionale. Secondo i chavisti il gioco degli imprenditori sarebbe quello di intascarsi i dollari da una parte e di limitare la produzione per far salire i prezzi e destabilizzare il governo. Poi appunto c’è il problema degli acaparadores, che di certo contribuiscono a manipolare il mercato interno ma che non bastano a giustificare il problema a livello nazionale.

Vorrei citare un personaggio che secondo me racchiude diverse contraddizioni emblematiche della situazione venezuelana: Lorenzo Mendoza, il terzo uomo più ricco del paese. La sua impresa, la Polar, produce pasta, riso, olio, aceto, yogurt, bibite, alcolici e, soprattutto, la tanto richiesta harina pan. Oltre che in Venezuela possiede degli stabilimenti in Colombia e negli Stati Uniti. Politicamente ha sempre dichiarato di non essere interessato ad assumere incarichi istituzionali ma la sua vicinanza all’opposizione è innegabile e difatti ha preso parte ad alcune manifestazioni organizzate dalla Mesa de Unidad Democratica. Le considerazioni che vengono in mente, a questo punto, sono due. La prima è che non serve chiamare in causa i complotti geopolitici, bastano gli interessi economici di Mendoza a far sorgere qualche dubbio sulla sua condotta. Data la sua importanza per il mercato interno venezuelano, sembra avere decisamente il coltello dalla parte del manico e sembra inverosimile che non decida di puntarlo alla gola del governo di Maduro. La seconda è che ormai sono passati più di 15 anni dall’inizio della ‘rivoluzione bolivariana’ e viene da chiedersi come sia possibile che un personaggio come Mendoza abbia mantenuto intatto tutto il suo potere e i suoi privilegi. Quale processo di ridistribuzione può lasciare in mano a un solo uomo il 4% del prodotto interno lordo della nazione?

Ciudad Guayana – Caracas

Dopo un paio di giorni passati a girovagare per Ciudad Guayana riesco a contattare Paolo e Francesca, due cooperanti italiani che vivono nella capitale dello stato Bolivar da circa 3 anni. Ciudad Guayana è divisa in due da un affluente del fiume Orinoco. A ovest c’è Puerto Ordaz, la parte ricca e industrializzata, dove abita il peruviano che mi sta ospitando e ci sono superstrade e centri commerciali. A est c’è invece San Felix, dove vivono Paolo e Francesca. Qui le strade sono sterrate e le case sono fatte metà di cemento e metà di lamiera. Mi regalano un pacco di carta igienica che mi salverà la vita nelle prossime settimane e mi caricano sul retro del loro fuoristrada per andare a un incontro del progetto che stanno seguendo. Carichiamo un altro paio di persone lungo il tragitto e arriviamo alla porta di una casetta dove ci stanno aspettando altri.

Paolo e Francesca mi raccontano che la situazione sta diventando complicata nel paese. Se le politiche sociali di Chavez avevano tolto dalla povertà estrema milioni di persone, ora, con la crisi economica, si stanno ripresentando problemi di malnutrizione soprattutto nei bambini. Per questo credono che i progetti legati all’autoproduzione siano fondamentali per il popolo venezuelano. La casetta nella quale siamo entrati è una botique di piante aromatiche e medicinali costruita e gestita da un gruppo di abitanti del barrio. Aiutiamo a zappare e a piantare nell’orto. Prima di andarcene ci si siede tutti in circolo, c’è una specie di lotteria, dove chi viene estratto riceve un regalo e deve a sua volta donare qualcosa a un’altra persona. Questa settimana una signora riceve una confezione di detersivo per la lavatrice, un prodotto divenuto ormai quasi introvabile. Gli scappa un urlo di gioia e tutti applaudono commossi.

Il giorno seguente mi vedo con Leòn (Trotsky) e il suo amico Julio. Lavorano entrambi per l’impresa idroelettrica statale. Quando scoprono che faccio parte di un’organizzazione politica anti-capitalista si sbottonano e incominciano a narrare le gesta di Chavez e del suo governo con un’enfasi e un’emozione contagiosa. Raccontano del colpo di stato che aveva destituito Chavez nel 2002 e delle persone scese dai cerros di Caracas (l’equivalente delle favelas che si arrampicano sui pendii ai margini della città) per chiedere la liberazione del loro presidente. Mi raccontano delle 24 ore passate in fila per vedere la salma del comandante prima della sua sepoltura. Mi citano i discorsi che Chavez teneva alla televisione, parlava per più di 6 ore di fila, recitava brani a memoria, parlava di marxismo e riesumava episodi gloriosi della storia di Bolivar. Mi dicono che prima del 1999 nessuno, in Venezuela, sapeva niente dell’esistenza di Simón Bolivar. Un leader che ha liberato metà continente e ha riscosso più vittorie militari di Napoleone era praticamente uno sconosciuto in patria. La conversazione prende una piega quasi mistica quando incominciano a citare dei punti di convergenza tra la vita di Chavez e quella di Bolivar. Julio è quasi commosso quando dice che è stato merito del presidente se ora lui è un rivoluzionario. Mi portano alla Libreria Sur, una catena di librerie statali. Appena entrati León mi chiede quanti soldi ho in tasca, gli dico che ho l’equivalente di circa 10 euro. Mi dice che con questi soldi potrei comprarmi tutta la parete sinistra della libreria. Lo scaffale che mi ha indicato è composto da opere della letteratura classica distribuite a prezzi accessibili a chiunque. Il resto del negozio è composto principalmente da libri di poeti sconosciuti, saggi politici e cd musicali di artisti venezuelani. Il responsabile mi spiega che il governo finanzia giovani scrittori, poeti e cantanti che non vengono prodotti dalle case editrici private. Compro un saggio sul cinema post-coloniale per 0,25 centesimi di euro. La sera andiamo a un evento organizzato dalla Movida del Centro, un’associazione che sta cercando di riscattare una piazza abbandonata organizzando attività culturali con i ragazzi del barrio. C’è un cinema teatro senza soffitto con una vista fantastica sul cielo stellato. Si esibisce per prima una cover band di adolescenti che interpreta dei brani statunitensi. Poi dei ballerini di danza classica e infine un attore che racconta il dramma dei venezuelani sieropositivi stigmatizzati dalla propria famiglia e costretti a espatriare negli Stati Uniti per ricevere delle cure costosissime.

Il giorno di carnevale vado insieme a León in un minuscolo paesino minero (di minatori) chiamato El Callao. Il carnevale del Callao è stato dichiarato dall’Unesco patrimonio immateriale dell’umanità. Si tratta di una festa che riprende la cultura delle popolazioni antillane migrate in questa parte del paese. Ci sono diavoli, personaggi mascherati che fanno schioccare la frusta e migliaia di persone compresse che si muovono al ritmo indemoniato della danza calypso.

León (che in realtà si chiama Octavio) mi dice che uno dei problemi del Venezuela è la tipica mentalità minera, o più in generale rentista (da renta cioè rendita) per cui le persone si sono abituate a fare soldi facili con l’estrazione del petrolio e di altri minerali e hanno abbandonato completamente le attività agricole e di allevamento. Per questo oggi il paese si ritrova a importare quasi tutti i prodotti necessari alla propria sussistenza. Proprio in quei giorni il governo di Maduro vota un decreto che liberalizza l’estrazione di oro, ferro, diamanti, bauxite e altri minerali nella zona chiamata Arco Minero del Orinoco. Il Venezuela è una delle principali riserve di minerali a livello mondiale, e con questo decreto si è deciso di permettere alle multinazionali straniere di usufruire di queste ricchezze con una tassazione agevolata. Insomma stiamo parlando di una classica manovra neoliberista. Al carnevale ci sono più di 38 gradi e ci siamo scolati una bottiglia intera di rum, e dopo due ore passate sculettando dietro ai carri decidiamo di prenderci una pausa. Mi risveglio sul bordo del marciapiede mentre dei ragazzini mi ricoprono di schiuma urlando divertiti che ‘il gringo non ce la fa più’. Incasso il colpo e la mattina dopo cerco di smaltire la sbornia sul divano di Edwin.

Il 13 febbraio arrivo a Caracas verso le 5 del mattino completamente congelato dall’aria condizionata. Vado a casa di Ricardo, un’altra persona che si è offerta di ospitarmi per qualche giorno. Ricardo vive nel Hatillo – un sobborgo ricco della capitale – in un condominio privato pieno di telecamere. Lui è un hipster che vive vendendo marmellate e altre pietanze venezuelane che prepara in casa. Si sveglia sempre all’alba per andare a recuperare tutti gli ingredienti. In camera trovo una bandiera venezuelana, conto le stelle e mi accorgo che ne manca una. Questo significa che è un oppositore. Vado in centro città ad incontrare Mario, un attivista politico italiano approdato in Venezuela negli anni ‘70. Mi racconta che è arrivato tramite il servizio civile e si è ritrovato ad attaccare manifesti con un prete socialista nel bel mezzo dell’Amazzonia. Camminiamo per Plaza Bolivar, la piazza principale dove si affacciano palazzi coloniali e al centro passeggiano diverse iguane all’ombra delle palme. Mi indica un angolo della piazza dove ci sono dei signori seduti a guardare uno schermo televisivo, mi dice che quella è la famosa esquina caliente, uno spazio storico dove i seguaci del comandante si riuniscono a discutere di politica. Mi porta nel museo di Simon Bolivar, mi racconta anche lui la grande battaglia di Chavez per la sua riabilitazione. Entriamo in una saletta dove vengono esposti i sofisticatissimi studi scientifici finanziati dal governo per dimostrare che Bolivar era mestizo, e non bianco come raffigurato dall’iconografia tradizionale. Mi invita a casa sua. E’ un quartiere della classe media, né particolarmente ricco né povero. Quando entriamo nel cortile interno del suo palazzo mi indica un tetto sul quale, alcuni mesi prima, erano appostati i guarimberos (i giovani che alzano le barricate per protestare contro il governo di Maduro). Li definisce delinquenti, nemici, violenti che hanno preso in ostaggio il vicinato per giorni. Hanno bloccato la strada adiacente e quando sono arrivati i motorizados per smantellare le barricate hanno ucciso uno di quest’ultimi. Sul momento non ho ben capito chi siano questi motorizados. Mario ne parlava come se fossero ‘i buoni’, ‘la cavalleria’ in soccorso dei compagni e così via.

Cercando su internet si parla dei colectivos di motorizados come supporter del governo chavista che si muovono a bordo delle loro moto. Per l’opposizione sono sia paramilitari che criminali comuni che seminano il terrore per le strade del paese. Per il governo sono militanti di base che si mobilitano in supporto del governo. Gli chiedo a proposito dell’estrazione sociale dei guarimberos, chi sono? da dove vengono? Mi risponde in maniera un po’ confusa, prima dice che non sono di certo parte della classe popolare, poi che sono quattro straccioni. Incalzato conclude dicendo che sono giovani teppistelli della classe media. Quando torno a casa la sera Riccardo sta bevendo del vino con un’artista scandinava. Mi dice che c’è un problema: sta arrivando sua cugina e domani mattina all’alba dovrò togliere il disturbo. Riesco a contattare un’altra utente di couchsurfing. Mi dice che posso andare da lei ma mi avverte che vive in un barrio popolare, le dico che non c’è problema. Ci vediamo alle 7 di sera (è già praticamente buio) alla fermata de Las Mayas, una delle ultime prima del capolinea. Mentre saliamo sulla scala mobile mi dice di aspettarla giù perché ha visto delle facce che non le piacciono. Torna indietro e dice di fare una fermata in più e poi prendere il pullman. La seguo. Siamo in piena periferia. Incominciamo a salire degli scalini mentre le vie si fanno sempre più strette e le case sono sempre più ammassate una sopra l’altra. Dopo dieci minuti di salita siamo al centro di uno dei famigerati cerros di Caracas. Agli angoli dei vicoli incrociamo dei ragazzi che ci squadrano e salutano Marfri, la proprietaria di casa. Lei mi dice che molto probabilmente sono ben armati, ma sono innocui se sanno che sono con lei.

Caracas – Chuao – Merida – Los Llanos – Cucuta

Casa di Marfri, piccola e priva di arredamento. Ci sono 3 cagnolini di cui uno cieco che passano tutto il giorno lì dentro. Mi prepara un materassino sul pavimento dove posso dormire e blocca il passaggio dei cani con un asse di legno. Quando parliamo di politica lei si dichiara sostenitrice del governo chavista. Mi racconta dei tempi d’oro quando il prezzo del petrolio era alle stelle e nei cerros la gente invece di riparare gli elettrodomestici ne comprava di nuovi. I venezuelani giravano il mondo con i dollari a tasso agevolato che il governo rilasciava ai cittadini per andare in vacanza.

Ora che c’è la crisi molti gli hanno voltato le spalle ma lei rimane una convinta sostenitrice. Non la spaventano le code interminabili, dice che ormai si è organizzata, si porta una sedia e fa due chiacchiere con le altre persone. La mattina prepara arepas con formaggio e mi scorta fino a giù in città mentre si dirige a lavoro. Resto da lei più di una settimana. Un giorno mi dice di non uscire di casa perché ha visto un personaggio che non le piace. Un altro giorno invece si meraviglia che sono sceso da solo a fare la spesa senza perdermi o essere sequestrato. In realtà mi sento abbastanza al sicuro lì, o almeno molto più che per le strade di Buenos Aires.

L’ultimo giorno andiamo a mangiare a casa di suo padre. Vive in un complesso residenziale popolare costruito dal governo chiamato El sector renacer del Socialismo. Anche lui è un chavista convinto. E’ orgoglioso del suo appartamento, dice con tono fiero che glielo ha dato Chavez. Le politiche di edilizia pubblica (la cosiddetta mision vivienda) sono veramente efficaci e di alta qualità. Allo stesso tempo però, vengono sviluppate all’interno di una mentalità fortemente paternalista.

Su ogni edificio capeggia lo sguardo coraggioso del comandante Chavez. Non è la prima volta che sento dire che alcune conquiste sociali siano merito dell’ex presidente più che il risultato della partecipazione popolare, ma proprio mentre elaboro questo pensiero suona il campanello. E’ un signore che chiede al padre di Marfri quali sono i prodotti di cui ha bisogno. L’uomo viene per conto della comuna. Le comunas sono degli enti territoriali che vengono eletti dagli abitanti del quartiere e si occupano dell’organizzazione dei servizi e della gestione di alcuni fondi governativi. Le comunas sono organizzate a loro volta in consejos comunales che svolgono la stessa funzione ma su un territorio più ampio. Il governo bolivariano ha promosso questo tipo di organizzazione per distribuire il potere sul territorio e favorire la partecipazione. La comuna dove risiede il padre di Marfri si è organizzata per portare i beni di prima necessità direttamente alle persone. Questo vuol dire non solo evitare le code infinite ma addirittura ricevere gli alimenti a prezzi stracciati direttamente a casa.

Il 25 febbraio lascio Caracas per dirigermi a Chuao, una località sulla costa nord del paese. Per arrivarci occorre prendere pullman variopinti lanciati a tutta velocità in mezzo alla vegetazione e poi una barchetta di pescatori che mi lascia al molo di fronte a una cooperativa ittica.

Appendo l’amaca tra due alberi e passo la giornata in spiaggia. Faccio conoscenza con dei ragazzi argentini e cileni che sono lì da una settimana. Si nutrono del latte di cocco e di zuppe di platano.

Una persona del paesino ci porta a fare un tour tra le rovine dell’epoca coloniale. Ci mostra i resti di una fossa comune dove venivano bruciati gli schiavi afro-discendenti. Uno dei ragazzi chiude gli occhi e dice di poter percepire l’energia negativa. Purtroppo non serve l’immaginazione, anche tenendo gli occhi ben aperti ci si accorge facilmente che la violenza coloniale da queste parti non è soltanto un lontano ricordo. Lasciandosi alle spalle il mare ci addentriamo nelle coltivazioni di cacao. Incrociamo un gruppo di donne afro-discendenti che portano in una sacca legata al corpo i frutti raccolti. Il cacao di Chuao è la materia prima di un cioccolato raffinato, simbolo del made in Italy, che ha ricevuto diversi premi in giro per il mondo.

Dopo la terza notte in spiaggia rimetto lo zaino in spalla e ritorno a Caracas. Prendo una stanza doppia in un hotel alla modica cifra di 4 euro. La capitale è una città accogliente, ricca di murales colorati ed edifici appena costruiti. Ma è facile accorgersi che qualcosa non sta funzionando perché i teatri, i cinema e i musei rimangono chiusi tutto il giorno o aprono solo per poche ore. La gente mi dice mortificata che è dovuto alla crisi di quest’ultimo anno. Riesco a visitare il museo d’arte contemporanea dove è esposta la Biennale dei popoli in resistenza. Un’esposizione di opere d’arte politiche da tutto il mondo. Verso le 7.30 di sera, quando il sole cala, come in tutto il paese, anche a Caracas le strade si fanno deserte per poi riempirsi di nuovo alle 5.30 del mattino.

Gli ultimi giorni di febbraio li passo a Merida, città andina e universitaria situata nella parte occidentale del paese. Stavolta sono ospite di una coppia. Lui giovane imprenditore, lei studentessa colombiana di medicina. Lui è scappato da Caracas perché troppo insicura, ora gestisce un mega ristorante di famiglia dove proiettano le corse dei cavalli. Lei è venuta in Venezuela perché l’istruzione è gratuita. Vivono in un complesso residenziale privato. C’è un guardiano all’entrata e affianco a lui una grossa immagine di Gesù Cristo. Mi invitano a uscire con loro. Andiamo in un pub dove beviamo dei cocktail costosissimi con altri studenti di medicina. Sono entrambi oppositori convinti. Disprezzano Maduro e le sue politiche.

Lo prendono in giro perché spesso si cimenta nell’uso politicamente corretto del genere (compañeros y compañeras, ciudadanos y ciudadanas, trabajadores y trabajadoras, ecc..) e a volte gli scappa qualche gaffe. Il giorno successivo al mio arrivo inizio il giro delle farmacie in cerca di un farmaco contro la diarrea, ma dopo la quinta delusione ci rinuncio, resisterò qualche giorno e fra una settimana lo comprerò in Colombia. Sempre che riesca a passare la frontiera. In quel periodo le tensioni tra Venezuela e Colombia erano ai massimi storici: i Venezuelani accusano i Colombiani di rubare gli alimenti a prezzi calmierati per rivenderli nel loro paese, di portare criminalità e violenza, di cercare di destabilizzare il governo introducendo squadroni di paramilitari. Queste tensioni hanno avuto delle ripercussioni da un lato a livello sociale, per cui i colombiani (già discriminati in tutta l’America Latina) sono diventati il capro espiatorio perfetto con cui prendersela per tutti i mali del Paese. Questo ovviamente non toglie che come in Brasile così anche in Colombia ci siano fitti traffici illegali di alimenti, carburante e altri prodotti distribuiti dal governo venezuelano.

A livello geopolitico, invece, tutto ciò ha causato la chiusura della frontiera tra i due paesi. O almeno questo era quello che titolavano le grandi testate internazionali. La voce che circolava in Venezuela era che ci fossero dei punti in cui era possibile passare, e che in generale più che di chiusura totale si trattava di un aumento dei controlli. La cosa mi metteva abbastanza ansia perché l’alternativa sarebbe stata comprare un biglietto aereo e pagarlo con il cambio ufficiale, e quindi rimanere senza soldi.

Durante gli ultimi giorni nella repubblica bolivariana decido di concedermi un tour da vero turista ne Los Llanos, la savana venezuelana. Dopo 9 ore di macchina arrivo in un accampamento ai bordi di uno stagno pieno di caimani e coccodrilli. Tra loro e il posto dove dormo ci sono solo una decina di metri e un muretto di cemento alto 30 centimetri.

Il clima è arido, la mia diarrea non accenna a diminuire, di notte l’aria diventa incandescente e sento i capibara lottare e rotolarsi intorno al bungalow dove dormo. Il proprietario dell’accampamento si chiama Ramón. La sua specialità è cacciare le anaconde nei campi di fango. Porta sempre con lui un coltello grosso come il mio avambraccio. Dice che una volta è morto per alcune ore a causa di una coltellata presa durante una lite. Lo vedo con i miei occhi catturare con le mani un piccolo piranha dal fiume.

Farlo a pezzi e legarlo a un filo per usarlo come esca per catturare un piranha più grande, poi prendere in mano il piranha grande, fischiare per richiamare l’attenzione di un’aquila e lanciare il pesce nell’aria affinché il volatile potesse afferrarlo al volo con il becco. Arriva un vecchio sdentato che comincia a vantarsi delle dieci vittorie consecutive ottenute dal suo gallo da combattimento. Ramón dice di non crederci. Poi racconta la storia di un gallo che aveva perso entrambi gli occhi in combattimento ma aveva continuato a mietere vittime anche senza vederci. Vorrei chiedere a Ramón cosa ne pensa della situazione politica. Ma lui mi anticipa chiedendomi se l’Italia è un posto vicino o lontano. Quando provo ad accennare una domanda lui si mette a discutere della lentezza degli operai che stanno montando i piloni dell’elettricità e si chiede quando finalmente potrà avere la corrente elettrica a casa sua.

Il 6 marzo 2016 torno a Merida per darmi una rinfrescata, togliermi una zecca che si era attaccata alla gamba e prendere un bus direzione Cucuta, un piccolo villaggio di frontiera colombiano. Una volta ricevuto il timbro di uscita all’ufficio della dogana mi incammino per passare il confine. Il primo posto di blocco è composto da due soldati che nel mezzo della strada controllano i documenti a una fila di persone. Il passaporto europeo è sinonimo di privilegio e infatti passo senza problemi. Dietro di me sento che ai colombiani e ai venezuelani chiedono dove si stanno dirigendo, cosa hanno intenzione di fare in Colombia, tra le altre cose. Una famiglia viene fatta uscire dalla fila per ulteriori controlli. Continuo la mia camminata incrociando altri quattro o cinque militari venezuelani e colombiani che mi controllano il documento. Sono in Colombia. Percepisco subito un clima più festoso e disteso. Nonostante i bei momenti passati in Venezuela, non posso dimenticare quell’atmosfera cupa, quel clima tragico che faceva stare tutti sempre molto allerta.

Chiusura

Dopo cinque settimane a zonzo per il paese rimango con molti più dubbi che risposte. Nel frattempo in Brasile, prima potenza economica della regione, Temer ha preso il potere grazie a un colpo di stato istituzionale. In Argentina Macri ha dato il via a un’ondata di licenziamenti di massa, le bollette della luce e del gas sono aumentate del 300%, il costo del trasporto pubblico è raddoppiato e la repressione statale sta colpendo movimenti sociali (un esempio sono le Empresas Recuperadas por sus Trabajadores che vengono apertamente osteggiate dall’attuale governo) e le comunità indigene (emblematica la sparizione di Santiago Maldonado durante lo sgombero di un accampamento Mapuche nel sud del Paese). Per quanto riguarda il Venezuela il clima di tensione continua ad essere alimentato dalla crisi finanziaria che sta mettendo in ginocchio il paese e dall’opposizione che sta alzando il livello del conflitto. Il governo di Maduro sta stringendo i ranghi e consolidando il suo potere senza una vera strategia di uscita dalla crisi. Sembra che tutti si siano convinti che la disfatta politica e sociale prima o poi arriverà, c’è chi soffia sul fuoco e chi sta cercando di limitare i danni e resistere. Mi è capitato di leggere in questi giorni alcuni articoli che paragonano il Venezuela alla Siria. Per quanto ci possano essere forti interessi strategici su entrambi i paesi trovo che sia una similitudine pericolosa, perché strumentale a giustificare futuri interventi militari. In realtà ci sono grosse differenze, innanzitutto Maduro non è Assad: per quanto stia cercando di accentrare il potere in maniera autoritaria lo sta facendo usando i dispositivi democratici messigli a disposizione da una Costituzione votata da un’ampia maggioranza popolare. Secondo, perché l’opposizione venezuelana non è formata da cellule islamiste e ribelli auto-organizzati. Sono l’aristocrazia industriale del paese che ha studiato negli Stati Uniti ed è abituata a sedersi al tavolo con i maggiori leader europei. Più che alla Siria del 2012 sarebbe più opportuno paragonare la situazione che si sta vivendo al Cile del 1973. Il Cile pre-golpe dove la borghesia guidava gli scioperi, i camion versavano litri di latte nell’oceano e le forze reazionarie si preparavano a ristabilire l’ordine sociale con i carri armati.