di Paolo Bruschi

Monsignor Romero, in quel disastro sociale e politico, aveva deciso di stare dalla parte del suo popolo. E di portare avanti la causa degli ultimi, come Cristo gli aveva insegnato. Non professava nessuna fede marxista, era anzi un sacerdote ortodosso, considerato mite e conservatore, tanto che prima di diventare primate di El Salvador, nel febbraio 1977, faceva fatica ad accettare i grandi cambiamenti e aperture del Concilio Vaticano II e vedeva con sospetto i primi virgulti della Teologia della liberazione in America Latina: tutte ottime credenziali per essere accolto con molto favore dalla cricca che controllava il Paese. Ma poi, davanti alle atrocità quotidiane compiute ai danni dei più indifesi, iniziò a puntare il dito contro il governo e le milizie, muovendo accuse precise e circostanziate. Senza mai fomentare la violenza e anzi chiedendo esplicitamente ai suoi concittadini che la risposta non fosse l’odio o il desiderio di vendetta.

Naturalmente l’oligarchia cambiò in fretta opinione sul conto dell’arcivescovo. E le minacce di morte cominciarono a fioccare anche sulla sua testa. Ma pur con le spalle al muro, Romero non rinunciò a lottare, e anzi si mise a scomodare i massimi sistemi:
il 17 febbraio 1980 prese carta e penna e scrisse una lettera all’allora presidente degli Stati Uniti, Jimmy Carter, nella quale fra le altre cose chiedeva al Potus:1

Garantisca che il suo governo non interverrà direttamente o indirettamente con pressioni militari, economiche e diplomatiche nella determinazione del destino del popolo salvadoregno.

Ma già il 24 marzo, Carter non avrebbe avuto alcun interlocutore a cui rispondere.

Per due volte si recò anche da Giovanni Paolo II, ma in entrambe le circostanze non riuscì a convincere il papa polacco della sua condotta, e soprattutto a farsi difendere.
Durante le due udienze Wojtyla gli raccomandò genericamente di prodigarsi per migliorare le relazioni col proprio governo: il neo papa si rivelò deciso a glissare su come agivano quei politici, senza farsi carico in prima persona di quanto stava accadendo a una parte del (suo) clero, e in generale alla martoriata popolazione di El Salvador.

Così scrisse lo stesso Romero nel suo diario dopo la prima visita, nel maggio del 1979, alla quale si recò portando in dote voluminosi faldoni pieni di documenti e fotografie, alcuni dei quali facevano riferimento agli omicidi di sacerdoti:

Mi raccomandò molto equilibrio e prudenza, soprattutto nel fare denunce concrete, e che era meglio mantenersi ai principi generali.

Ma di fronte all’uccisione di prelati e di gente inerme, Romero trovò più cristiano elencare, durante le sue omelie, i nomi di vittime e carnefici, piuttosto che attenersi a “principi generali”.

Dopo la seconda udienza, avvenuta il 16 gennaio 1980, a poco meno di due mesi dal suo omicidio, Romero scrisse, sempre sul diario:

Mi disse che lo preoccupava il ruolo della Chiesa, che avremmo dovuto prendere in considerazione non solo la difesa della giustizia sociale e l’amore per i poveri, ma anche l’eventuale risultato di uno sforzo rivendicativo popolare di sinistra, che poteva arrecare danno alla Chiesa.

D’accordo difendere i poveri e la giustizia sociale, insomma, ma se questo poteva creare problemi alla Chiesa perché considerato di sinistra, allora era forse meglio lasciar stare.

La morte annunciata di Romero, purtroppo, non servì a nulla. I fatti anzi precipitarono, tanto che molti storici identificano l’inizio della guerra civile in Salvador proprio con quell’omicidio.
Con l’ingresso ufficiale della guerriglia nel panorama politico, le operazioni degli squadroni della morte si intensificarono insieme a quelle, nemmeno troppo nascoste, delle forze regolari salvadoregne: l’esercito e gli organismi di polizia presenti all’epoca (la Guardia Nacional, la Policia Nacional e la Policia de Hacienda).

Istituzioni appartenenti al governo, dunque, si macchiarono di delitti di stampo terroristico, alcuni dei quali talmente efferati da guadagnarsi il titolo di massacri. Il più ripugnante dei quali avvenne tra il 10 e il 12 dicembre 1981 nel villaggio di El Mozote (municipio di Arambala, dipartimento di Morazán) e nei suoi dintorni: i soldati del Battaglione Atlacatl, un’unità specializzata dell’esercito salvadoregno, entrarono nei villaggi contadini, considerati arbitrariamente fiancheggiatori della guerriglia. Divisero donne, uomini e bambini. Agli interrogatori e torture seguirono le esecuzioni sommarie. E infine lo scempio dei cadaveri, orrendamente mutilati o bruciati. Prima di andarsene, le bestie dell’Atlacatl lasciarono un cartello appeso a un muro del villaggio:

Qui è passato l’Atlacatl, il papà dei sovversivi, Seconda Compagnia. Ve la siete presa in culo, figli di puttana. Se vi mancano le palle, chiedetele per corrispondenza al battaglione Atlacatl. Noi angioletti dell’inferno torneremo perché vogliamo terminare il lavoro.

Ma in realtà c’era poco da terminare.
Nel volgere di due soli giorni, l’intera popolazione di tre villaggi era stata cancellata. Soltanto una donna miracolosamente si salvò: le uccisero il marito e quattro figli.
In totale la strage di El Mozote, il più grande massacro di civili perpetrato nel continente americano durante il ventesimo secolo, lasciò sulla nuda terra i corpi di circa 1.000 salvadoregni (molti corpi non furono mai identificati): cittadini inermi, tutti assassinati dall’esercito della propria nazione. Tra essi, furono ammazzati come cani almeno 400 bambini, alcuni ancora in fasce e strappati ai seni delle loro madri.
L’intero battaglione Atlacatl, circa 1.200 uomini, fu creato, addestrato ed equipaggiato dal governo degli Stati Uniti alla School of the Americas.

Quando i responsabili di tali stragi vennero alla luce, ormai era troppo tardi: D’Aubuisson nel 1981, in piena guerra civile, aveva fondato il partito di destra Arena, e per pochi voti perse le elezioni presidenziali del 1984 (morirà nel 1994 per un cancro alla gola). Ma Arena riuscirà, a partire dal 1989, a governare il Paese per i successivi 20 anni.
Una delle più controverse leggi fatta approvare quando salì al potere, appena il conflitto intestino ebbe termine, fu l’amnistia nazionale per i crimini di guerra, nel marzo del 1993.

Nessuno ha mai pagato per tutto questo.

Appendice.

Papa Woytila, in occasione del Giubileo del 2000, ebbe la faccia tosta di citare ancora Romero nel testo della “celebrazione dei Nuovi Martiri”, riprendendo quanto aveva scritto il giorno della sua morte alla Conferenza Episcopale salvadoregna: “Il servizio sacerdotale della Chiesa di Oscar Romero ha avuto il sigillo immolando la sua vita, mentre offriva la vittima eucaristica.

La causa di beatificazione dell’arcivescovo, rimasta ferma per anni, fu sbloccata dall’intervento di Benedetto XVI il 20 dicembre 2012, e in seguito proseguita da Papa Francesco che, con proprio decreto del 3 febbraio 2015, ha infine riconosciuto il martirio in odium fidei di monsignor Romero, che è stato elevato strumentalmente alla gloria degli altari, come beato, il 23 maggio 2015. Strappandolo, letteralmente, dal novero delle altre migliaia di vittime della repressione fascista e dell’oppressione imperialista cui avrebbe dovuto essere più autenticamente e significativamente accomunato.[S.M.]

(Fine)


  1. Acronimo che in inglese sta per President Of The United States