di Armando Lancellotti

Marina Lalatta Costerbosa, Il silenzio della tortura. Contro un crimine estremo, DeriveApprodi, Roma, 2016, pp. 136, € 15,00

Tra pochi giorni, a fine giugno, la legge sull’introduzione del reato di tortura nell’ordinamento penale italiano arriverà a Montecitorio, per concludere, forse, l’iter di approvazione parlamentare. Si potrebbe pensare che stia per essere scritta una pagina positiva della storia legislativa e politica del nostro paese, ma la realtà delle cose è ben diversa e per almeno due grandi ordini di ragioni: innanzi tutto perché il ritardo con cui il codice penale italiano riconosce la fattispecie del reato di tortura è a dir poco epocale, visto che la stessa Italia ratificò la Convenzione internazionale contro la tortura (Onu, 1984) nel gennaio 1988, insomma una trentina di anni fa; in secondo luogo perché il testo approvato al Senato il 17 maggio scorso è talmente rabberciato e contraddittorio da tradire lo spirito stesso di una legge che dovrebbe in modo netto e senza equivoci riconoscere la tortura come fattispecie di reato e delle peggiori. Un “tradimento” che lo stesso Luigi Manconi, che nel maggio del 2013 aveva presentato il progetto di legge in qualità di presidente della commissione parlamentare sui diritti umani, non ha esitato a definire inaccettabile, avanzando le stesse critiche e perplessità espresse da associazioni quali Amnesty International ed Antigone o dalle vittime della tortura di Stato italiana e dai parenti delle stesse. Vittime, che nel paese dei fatti di Genova 2001, di Cucchi e di Aldrovandi tra gli altri, sono numerose e ancora in attesa (vana) che venga fatto un minimo di giustizia e venga loro restituita quella dignità di uomini e cittadini che è stata a loro negata dai violenti abusi di potere di uomini dello Stato, dell’arbitrio dei quali sono caduti in balia.

Il testo della legge, se verrà approvato in via definitiva, sembra fatto apposta per restringere il campo dell’applicabilità della medesima e per mantenere ampio invece quello dell’impunità delle forze dell’ordine, per introdurre attenuanti, nonché elementi di discrezionalità ed ostacoli di vario genere all’applicazione della fattispecie penale. Ne conseguirà che in Italia, come ha fatto notare Manconi in alcune dichiarazioni riportate da numerosi organi di stampa, la tortura non verrà rubricata come un reato specifico di pubblici ufficiali, che abusano violentemente del loro potere di tenere sotto custodia un individuo, ma sarà equiparata a forme di violenza tra semplici cittadini; ne discenderà inoltre che, a fronte di processi che potrebbero svolgersi a distanza di molti anni dai fatti, il trauma psichico subito dalla vittima di presunta tortura dovrà essere “verificabile” di molto a posteriori ed infine vi dovrà essere la reiterazione del crimine (il testo parla di “più condotte” della stesso genere) affinché possa essere riconosciuto il reato di tortura.

Insomma una legge “truffa”, una legge pasticciata che poco o nulla cambierà nella sostanza in un paese che sembra non avere problemi a convivere con il ricorso delle proprie forze dell’ordine a pratiche di tortura, forse perché lo ritiene il male minore o un male necessario, un’arma estrema che deve essere lasciata alla disponibilità delle forze dell’«ordine» nella lotta contro un male considerato peggiore, come gli odierni teorici e sostenitori della legittimità della tortura argomentano con la cosiddetta teoria, di sicuro impatto in tempi di “ossessione e paura terroristiche”, della “bomba ad orologeria”, secondo cui anche una pratica brutale e ripugnante come la tortura può risultare giustificata se serve a disinnescare una minaccia giudicata maggiore.

Il libro di Marina Lalatta Costerbosa, che – uscito per DeriveApprodi nell’aprile del 2016 – intendeva dare un contributo proprio al dibattito intellettuale a supporto dell’introduzione del reato di tortura nel nostro codice, a più di un anno di distanza risulta quanto mai attuale e di certo interesse, proprio alla luce di ciò che si è detto sopra e delle difficoltà che si incontrano nel nostro paese nell’affrontare la questione, sia dal punto di vista giuridico-legislativo sia da quello della discussione pubblica sull’argomento, che, fatta eccezione per i momenti in cui il problema si presenta con tutta la sua cruda violenza all’attenzione collettiva e a quella di media e stampa, presto si tacita e lascia il posto ad un disinteressato silenzio. Il “silenzio della tortura”, per l’appunto, quello di cui parla anche il titolo del bel saggio della docente di filosofia del diritto dell’Università di Bologna.

Spiega l’autrice nelle prime pagine del libro che la scelta del sintagma “il silenzio della tortura” è motivata soprattutto dai tanti significati che esso può assumere, che mettono efficacemente in luce aspetti diversi della pratica della tortura: i suoi effetti sulle vittime, sul loro corpo e sulla loro psiche; le conseguenze sociali di essa, sia per chi la tortura la subisce sia per chi la pratica, ma anche per chi di fatto con essa convive, poiché cittadino di uno Stato che, esplicitamente o surrettiziamente ne fa uso, e così via. Infatti c’è il silenzio di governi, apparati di polizia e Stati che nascondono o minimizzano i supplizi che infliggono, ma c’è anche il silenzio indifferente dell’opinione pubblica che non crede (o non vuole credere, per falsa coscienza) che in pieno XXI secolo e in paesi sedicenti democratici una cosa “barbara” e “medievale” quale è la tortura venga praticata come strumento di potere o che con disarmante velocità presto dimentica e archivia anche i casi peggiori e più evidenti di ricorso alla tortura, che per qualche tempo hanno risvegliato l’attenzione collettiva. Da questo punto di vista le vicende italiane successive ai fatti di Genova 2001 sono davvero paradigmatiche. Ed anche più recentemente, in occasione della approvazione della legge in Senato, ad una “impennata” di attenzione per l’argomento su media e giornali, hanno poi fatto seguito, di nuovo, indifferenza e non curanza, quasi che la questione sia per il nostro paese così irrilevante e così lontana da non meritare se non la fugace considerazione di qualche titolo di prima pagina per non più di un paio di giorni.

L’Italia con il suo reiterato diniego a legiferare in materia e a definire la tortura come fattispecie penale appare di tale silenzio un paradigma. […] Ebbene, che nel nostro paese si torturi e che per di più la colpevole lacuna del nostro ordinamento giuridico, che non prevede nel Codice penale la fattispecie del reato di tortura, persista, rappresentano un punto di depressione morale e di deficit democratico non scusabile (pp. 7-8)

La tortura – osserva Lalatta Costerbosa – è un sistema eccezionale di produzione di violenza pubblica (p. 5) e la sua intenzionalità è l’annientamento psichico, attraverso l’inflizione di atti di estrema violenza fisica e psichica, di colui su cui si accanisce. Le finalità sono la disumanizzazione, l’animalizzazione della vittima, la distruzione della sua personalità e della sua dignità di uomo e spesso la brutalità incommensurabilmente eccessiva della tortura va anche al di là della sola violenza fisica. È l’Altro – in quanto uomo su cui viene esercitato un potere assoluto, totale e a cui non si può sottrarre – che viene annientato, cioè privato della sua umanità; ma – spiega l’autrice – la brutalizzazione dell’Altro necessita come conditio sine qua non della disumanizzazione del Medesimo, cioè dell’imbarbarimento innanzi tutto del carnefice stesso.

Nel primo capitolo il concetto del “silenzio della tortura” viene declinato/articolato secondo alcuni significati fondamentali: il silenzio come occultamento, come menzogna, come deserto interiore, il silenzio dell’aguzzino e nella società. Nonostante la convinzione dei sostenitori della tortura – soprattutto nel clima securitario ormai inarginabile e parossistico post 11 settembre – che essa serva a “far parlare”, in realtà, sostiene con fermezza l’autrice, essa produce solo silenzio o, in alternativa, “menzogna”.

Dal punto di vista politico è dall’età moderna in poi che la menzogna comincia ad assumere un significato diverso ed ulteriore rispetto a quello tradizionale di arcana imperii, di segreto di Stato, cioè di una verità occultata, celata per tornaconto del potere; la menzogna si fa “azione”, diviene performativa, in quanto incide sulla realtà, di fatto creandone una nuova, costruendo una verità. La menzogna in questo modo pone in essere una “verità falsa”, che però vale come vera; si tratta di una “verità predisposta di fatto”, cioè di una falsificazione pubblicamente esibita, che inoltre capovolge il paradigma tradizionale della menzogna, che non è più sinonimo di segretezza ed occultamento, ma di esibizione. Si tratta di menzogne che per poter essere efficaci devono essere conosciute da tutti o dalla maggioranza. La menzogna come arcana imperii era una strategia politica che, secondo Machiavelli, il principe doveva padroneggiare, ma

ben diversa è la menzogna chiamata in causa dalla prassi della tortura, il mentire come invenzione programmatica di concetti, ideologie, fatti, documenti allo scopo di affermare o consolidare un regime politico: di creare una nuova realtà, funzionale al proprio interesse o potere. […] Come viene dimostrato tragicamente dal sistema del lager novecentesco, ove le menzogne alimentate ed escogitate tramite la tortura si resero determinanti per il suo funzionamento e per la sua sopravvivenza (pp. 13-14).

La menzogna politica intesa come creazione/imposizione di una realtà falsa diventa consustanziale al processo di legittimazione dell’ordine politico e va a colmare «il deficit di legittimazione del potere che inaugura la modernità» (p. 16); carenza dovuta al venir meno di altri elementi fondanti la legittimità del potere di ordine teologico, teocratico, feudale e che impone all’ordine politico la necessità di autogiustificarsi, di autofondarsi, producendo rappresentazioni della realtà. Pertanto, la menzogna – anche la tortura in quanto «sorgente di menzogne» (p. 15) –

corrisponde a tale esigenza a due livelli. Da un lato, si presenta una potenza immaginativa che prospetta nuove realtà dotate di senso ed espressione di un nuovo ordine. Dall’altro lato, si profila una potenza immaginativa asservita all’invenzione di nemici esterni e interni, funzionale a inculcare nella massa delle persone l’idea della cogenza di un potere forte che sappia restituire la perduta sicurezza, garantire la tranquillità, superare l’endogena incertezza, fonte di paura diffusa e pervasiva nella società intera (p. 17).

La caccia alle streghe dal Trecento al Seicento perfettamente risponde a queste esigenze e corrisponde a queste dinamiche.

Se l’attenzione poi si sposta dalla vittima al persecutore (“Il silenzio nell’aguzzino”), allora occorre innanzi tutto comprendere come la tortura interrompa «ogni canale comunicativo sensoriale, intellettuale ed emotivo, creando il deserto attorno alla vittima e pietrificando anche il torturatore che per divenire tale ha attraversato […] un processo di estraneazione e riconversione della propria morale e della propria personalità» (p. 23). Insomma, affinché il persecutore possa portare a termine il proprio lavoro di annientamento fisico e psichico della vittima occorre che lui stesso annienti in sé la propria umanità per poi umiliare ed annichilire quella altrui, con l’essenziale differenza – osserva più che opportunamente l’autrice – che nel caso dell’aguzzino si tratta di un processo di disumanizzazione consapevole, o quanto meno dell’assunzione cosciente di un ruolo che per essere svolto comporta la riduzione a zero della propria umanità, l’annullamento di ogni forma di empatia e compassione per l’altro, cioè una assoluta “ottusità emotiva” – argomenta Lalatta Costerbosa sulla scorta delle riflessioni di Hanna Arendt sulla “banalità del male” dei tanti Eichmann della storia – che consiste nella «carenza di discernimento e di disponibilità al giudizio e alla ponderazione [che rendono il torturatore ] – appaesatosi nel meccanismo burocratico e gerarchico che gli conferisce un ruolo e un movente – capace di infliggere supplizi disumani» (p. 25).

Di fronte alla tortura» – riflette l’autrice, in conclusione della sua analisi dei principali significati del “silenzio della tortura” e considerando in particolare l’ultimo, il “silenzio nella società”, ovvero l’interruzione delle condizioni di possibilità della relazione sociale che isola il torturato, privato della sua integrità e dignità umane – «in definitiva perdono tutti, individualmente e collettivamente. Perde il torturatore; perde il torturato, comunque riesca, scelga o non scelga di comportarsi; perde la società che ha accolto e non ha offerto adeguata resistenza a un germe maligno che costituisce il principio certo della propria disintegrazione (p. 27).

Di grande interesse è l’excursus storico che Lalatta Costerbosa compie nel secondo capitolo, il più lungo dei sei che compongono il libro, riguardo alla riflessione intellettuale sulla pratica della tortura, sulla sua giustificazione o sulla sua condanna. Per quel che riguarda il primo caso, sono Machiavelli, Bodin e i domenicani Kramer e Sprenger, autori del quattrocentesco manuale inquisitoriale contro le streghe, il Malleus maleficarum, i riferimenti proposti al fine di mostrare come la tortura, nel corso della sua lunga storia, abbia visto via via prevalere la sua funzione di “strumento politico” per il rafforzamento dell’autorità del potere su quella di “strumento giudiziario” per ottenere ed estorcere in fase processuale confessioni da testimoni o sospetti. Ma a partire dallo stesso Cinquecento prende il via una letteratura che della tortura denuncia la disumanità, l’irrazionalità nonché l’inaccettabilità morale e l’inefficacia giudiziaria; tutti temi questi che la riflessione illuministica settecentesca svilupperà per approdare finalmente ad una condanna senza appello della pratica del supplizio.

In questo caso l’autrice considera il filosofo spagnolo di inizio XVI secolo Juan Luis Vives, che denuncia l’irrazionalità della tortura in quanto disumana ed inutile, e altri grandi pensatori del secolo come Michel de Montaigne, Erasmo da Rotterdam e Tommaso Moro, che propongono considerazioni analoghe, per poi affrontare più dettagliatamente il testo del 1631 contro i processi alle streghe e contro la tortura del gesuita tedesco Friedrich von Spee – Cautio criminalis – che può essere considerato «uno dei testi più generosi sotto il profilo argomentativo, sebbene uno dei meno noti e frequentati sul tema» (p. 34). Sulla base di un impianto teorico giusnaturalistico e del principio morale della compassione, il religioso tedesco enuclea numerosi argomenti contrari alla tortura quali l’ingiustificabilità della discrezionalità nella sanzione della pena; la violazione del diritto ad una difesa adeguata; l’infondatezza della teoria del doppio effetto per cui «il movente dell’azione ne qualifica la moralità o meno», dal momento che «non si possono commettere cattive azioni per conseguire il bene» (p. 36); la perdita della dignità e l’infamia causate dal supplizio; l’inutilità della tortura al punto da risultare controproducente al fine dell’accertamento della verità, poiché facilmente induce a confessioni false mosse solamente dal disperato tentativo di far cessare i tormenti; l’eccesso, la gratuità e di conseguenza l’immoralità delle sofferenze inflitte. Anticipatrici di riflessioni successive sono anche le osservazioni che von Spee propone circa le ragioni dell’impiego della tortura, da cui emerge «con nettezza anche la motivazione politica, la strategia di affermazione e di consolidamento del potere attraverso l’esibizione dell’arbitrio» (p. 38).

Col passaggio al secolo dei Lumi le voci che si sollevano contro l’abominio della tortura si moltiplicano e quelle considerate da Lalatta Costerbosa vanno da Christian Thomasius a Ludovico Antonio Muratori, da Cesare Beccaria e Pietro Verri, da Wilhelm von Humboldt a Voltaire, da Gaetano Filangieri a Immanuel Kant e le argomentazioni a supporto della comune tesi di fondo riguardano l’opposizione al diritto di natura ovvero alla retta ragione; la violazione del principio della presunzione di innocenza; l’eccesso e la sproporzione della violenza della pena; l’arbitrarietà della stessa e l’abuso di potere che la sottende; l’assoluta l’inutilità, soprattutto dal punto di vista giudiziario, del supplizio, che – sono le note parole di Beccaria in Dei delitti e delle pene – “è il mezzo sicuro di assolvere i robusti scellerati e condannare i deboli innocenti”; l’intrinseca ingiustizia di una pratica che equipara in modo del tutto immotivato il reo e l’innocente, che sono sottoposti al medesimo trattamento, con la conseguenza che – ancora una volta sono parole del Beccaria – “l’innocente non può che perdere e il colpevole può guadagnare”.

E in conclusione dell’esauriente excursus storico e dottrinale, così osserva acutamente e puntualmente sintetizza la studiosa:

Questo sul finire del Settecento, questo tre secoli fa. Ciononostante, dopo questo tuffo nel passato dei tormenti, lampante ci sembra l’odierno ricorrere di vecchi pretesti e cattivi argomenti, magari frettolosamente rinnovati […]. La tortura – per sintetizzare – ha una doppia natura: è giudiziaria e politica. La tortura è inutile per l’interesse pubblico e produce effetti paradossali per il caso giudiziario e per la stabilità dell’ordine politico. La tortura è ingiusta per almeno quattro ragioni: viola il principio di presunzione di innocenza; implica il misconoscimento dei diritti fondamentali, in particolare e innanzitutto del diritto alla vita; è essenzialmente eccessiva e non può essere moderata da norme giuridiche; non può essere giustificata dalla tradizione; porta con sé l’infamia (o l’autopercezione di essa). […] Eppure, queste idee non sembrano oggi così unanimemente condivise; e vengono nuovamente messe in discussione (pp. 54-55).

E non si può che condividere anche questa ulteriore osservazione di Marina Lalatta Costerbosa: «La nostra impressione è, in definitiva, che anche queste circostanze […] mostrino il carattere regressivo del momento presente, un momento nel quale sotto questo specifico profilo legato alla tortura, i diritti soggettivi sembrano “avere un prezzo”: il prezzo della cosiddetta sicurezza pubblica» (p. 55).

La storia recente della “democrazia” occidentale, almeno dalla fondamentale svolta dell’11 settembre 2001 in poi, è prova provata di una deriva autoritaria e repressiva, intollerante e profondamente antidemocratica, di cui è al momento impossibile intravedere la conclusione e che ha riportato in auge, nella pratica e nella teoria, nella predisposizione e nell’utilizzo di violenti strumenti coercitivi di esercizio del potere e nella riflessione giustificazionista di un’intellighenzia prezzolata che si presenta con l’abito del crudo pragmatismo securitario, quanto secoli di riflessione e di progresso giuridico e civile avevano relegato nella categoria dell’esecrabile (per quanto il suo utilizzo, in realtà, non fosse mai stato abbandonato).

Tra gli argomenti attualmente più diffusi a sostegno della legittimità del ricorso alla tortura troviamo – osserva l’autrice – quello del “caso di emergenza”, secondo il quale dinanzi a circostanze eccezionali la sospensione del diritto sarebbe non solo possibile, ma addirittura necessaria e, in secondo luogo, quello della “sicurezza pubblica”, intesa come finalità primaria ed assoluta del potere sovrano, rispetto alla quale anche i diritti fondamentali vanno in subordine. Oppure quello – che sfiorerebbe la comicità, se non fosse tragico – che presume che sia possibile infliggere un supplizio “temperato” da limiti e principi morali accettabili: è la teoria – spiega Lalatta Costerbosa – del «torture warrant, l’autorizzazione giudiziale alla tortura da lasciare al libero convincimento del giudice» (p. 60), che, pertanto, in maniera pubblica e “responsabile”, valuterebbe circa la necessità della tortura.

Ma il ragionamento che in un certo senso fa e da sintesi e da fondamento di tutti gli altri è «quello dal tratto demagogico più spiccato, l’argomento di chiara matrice utilitaristica, declinato in una direzione specifica negli anni Novanta dall’autorevole sociologo Niklas Luhmann e divulgato in innumerevoli circostanze e sedi come argomento della “bomba a orologeria”, della ticking-bomb» (p. 61), che – come già osservato in precedenza – conduce alla relativizzazione di qualsiasi principio, norma o diritto in relazione a situazioni pericolose ritenute gravemente lesive della sicurezza della società: in buona sostanza, oggi non esisterebbero norme irrinunciabili nelle nostre società dinanzi, poniamo, al pericolo terroristico costituito dalla presenza di ordigni innescati e predisposti all’esplosione o di criminali pronti all’azione.

Una simile meschinità di pensiero lascia facilmente intravedere dietro l’apparenza del fine giudiziario – comunque ingiustificabile – quale sia la vera finalità della tortura, anche quando teorizzata e sostenuta attraverso la teoria della ticking-bomb, cioè quella politica; pertanto non si tratta tanto di operare in modo “estremo” ed “eccezionale” per sventare un pericolo assoluto, ottenendo confessioni e informazioni utili, ma si tratta, in realtà, di esibire in maniera indubitabile la forza e la capacità di produzione di violenza del potere politico dello Stato.

È in un contesto complessivo di questo genere che, dopo decenni di inaccettabile e colpevole silenzio, le istituzioni legislative italiane hanno affrontato il doveroso compito del riconoscimento della tortura come fattispecie di reato; circostanze non certo favorevoli per la stesura di una legge chiara, inflessibile ed inequivocabile quale un crimine esecrando come questo esigerebbe, caratteristiche che, infatti, il testo della norma recentemente licenziata dal Senato – lo si è detto in precedenza – fin troppo evidentemente non possiede.