di Silvia Samorì

LandsEnd[La casa editrice Meridiano Zero ha da poco pubblicato il romanzo del nostro apprezzatissimo collaboratore Danilo Arona, e di Sabina Guidotti, Land’s End. Il teorema della distruzione (pp. 226, € 12.00). Proponiamo la prefazione di Silvia Samorì, intitolata Lei era parte del mio sogno.]

“He was part of my dream, of course – but then I was part of his dream, too!”

Lewis Carroll, Through the Looking Glass

Ogni storia, se ben raccontata, abbraccia altre storie.

Sono nata e cresciuta in un posto che molti potrebbero definire la fine del mondo. Forse qualcuno userebbe il termine nel suo significato migliore, ma non sono convinta sarebbero in molti. La mia fine del mondo è una casa antica, circondata da campi, boschi, colline e un torrente. Sopra un crinale incombe la presenza silenziosa di una torre (antica davvero, quella), poche altre abitazioni sparse nella campagna e un piccolo centro abitato a qualche chilometro di distanza.

Quando si cresce in un posto simile è inevitabile che se ne raccolga in qualche modo lo spirito, trasformando quelle geografie esteriori corredate da silenzi, suoni, luci, ombre, nebbie e solitudini di una qualità e di una purezza particolarissime, in una geografia dell’anima. Se è vero che ogni luogo ha il suo Genio, quello che ho incontrato io era un Genio potente che mi ha lasciato in eredità, anche ora che siamo spesso distanti, una grande quantità di suggestioni, manifeste e segrete, e la nostalgia per certe atmosfere, per i lati in ombra del reale, per tutto quello che resta al confine. Soprattutto il desiderio, in qualche modo benefico e curativo, di mantenere vivo il rito arcaico del raccontare che serve a dare un corpo, intrappolare, esorcizzare quelle inquietudini che ci seguono come ombre dovunque, anche nei luoghi dove la fine del mondo sembra lontana.

Forse è stato proprio l’intervento di quel Genio a indirizzarmi verso un incontro che sembra cucito dal destino. Ormai ho perso il conto degli anni che sono passati, ma a un certo punto della mia vita di lettrice mi sono imbattuta in uno scrittore che, in un modo che definirei quasi diabolico, sembrava avere l’abilità di plasmare le paure che rincorrevo in storie perfette.

Il fascino è un incantesimo di seduzione e la paura è affascinante e seduttiva, ancora di più quando chi te la offre è stato così audace da indagarla in tutte le sue pieghe. Non conto le notti insonni che ho passato su quelle pagine, le sveglie improvvise con un occhio all’orologio che segnava sempre le 5.20 del mattino, gli sguardi che ho lanciato a certi tratti di autostrada, a particolari sfumature nel colore del cielo, l’attenzione al suono del vento o alle semplici coincidenze della vita di tutti i giorni, che all’improvviso erano diventate fenomeni sui quali vigilare. Ma soprattutto quello che mi conquistava era la sensazione di familiarità che percepivo in molte di quelle storie, ambientate in luoghi (dai nomi sempre così poco rassicuranti, Montebuio, Bassavilla, Malapunta) con un’anima tanto affine alle mie geografie.

Ho inseguito quello scrittore di nascosto per molto tempo, e fantasticando molto su di lui perché l’immaginario va nutrito prima di tutto di immaginazione, finché le nostre strade si sono incrociate, banalmente come accade ora, sui sentieri della rete. Non ci siamo mai incontrati di persona, quel che io so di lui e quel che lui sa di me sta tutto nella corrispondenza che ci siamo scambiati e continuiamo a scambiarci. Le parole però sono un veicolo di grande potere, questo lo sapevano bene anche in tempi molto remoti, se vengono utilizzate nella maniera giusta sono capaci di creare legami sottili ma tenaci.

E dagli esiti imprevedibili.

Sto scrivendo queste righe in una serata dolce di primavera, nella mia casa alla fine del mondo. Poche ore fa una serie di scosse di terremoto ha movimentato un pomeriggio di quiete. È quasi maggio, ogni anno i giorni tra aprile e maggio coincidono sempre con un brusco risveglio della terra. In un certo senso ci siamo quasi abituati. Oggi, però, l’epicentro dello sciame è stato localizzato proprio sotto la mia torre antica, la casa del Genio, su quel crinale che fin da bambina mi è sempre sembrato ricalcare il profilo di un drago addormentato, la torre come una corona posata sulla sua testa. L’ho interpretato come un richiamo.

Quello scrittore ha scritto storie bellissime ambientate lungo i sentieri oscuri della schiena del drago e quando li ho letti ho avuto conferma che ci siano luoghi capaci di catalizzare energie sottili e sfuggenti, di quelle che stanno al confine tra la realtà e tante altre cose, letteratura compresa.

La mia torre deve possedere in qualche modo quella vocazione. Quando sogno La Fine, ad esempio (a chi non è capitato?), di qualunque cosa si tratti, arriva sempre dall’orizzonte alle sue spalle. Ho imparato negli anni a fidarmi dei messaggi che mi arrivano nelle ore più buie e più silenziose quando mi trovo qui, ed è per questo motivo che molti mesi fa, al termine di un sogno pieno di inquietudine, mi sono seduta davanti al mio computer e l’ho raccontato al mio amico misterioso. Perché quel sogno lo riguardava. Non lo riporterò per filo e per segno, lo trovate incastonato tra le pagine di questo romanzo, basti sapere che lo stavo cercando lungo le strade di un luogo privo di vita e spazzato dal vento e lo trovavo dopo un eterno girovagare chiuso in una stanza intento a scrivere sulla sua vecchia macchina Continental (uno dei personaggi più terrorizzanti di tutta la sua narrativa). A scrivere “la storia più importante di tutte”, così mi diceva, una storia che dai tasti della macchina priva di carta scivolava in un altro mondo, mentre quello in cui ci trovavamo spariva poco a poco nel nulla.

In quel periodo stavo divorando i suoi libri uno dietro l’altro, sicuramente c’è un concorso di colpe da indigestione di fantastico nella genesi dell’incubo, ma questo non esclude che una porta di qualche tipo si fosse aperta, per far uscire o entrare cosa, questo non sono in grado di dirlo.

Posso solo aggiungere che pochi giorni dopo una delle mie figlie, al ritorno da scuola, mi consegnava una manciata di fogli pieni di disegni fatti nei momenti di noia. Mentre li scorrevo deliziandomi con una teoria di gattini, animaletti volanti e amenità infantili mi trovavo all’improvviso davanti una mostruosità terrificante. Sembrava un fantasma, disegnato nel tipico stile da fantasma col lenzuolo sbrindellato. Ma a differenza dei gattini non rideva affatto, tutt’altro: sfoggiava uno sguardo terribile e spalancava una bocca enorme piena di zanne sanguigne, mentre con le mani reggeva enormi catene appuntite. «Questo è il Mostrofantasma, mamma» mi ha detto con aria seria, «l’ho disegnato perché volevo che si mangiasse tutti quelli che mi disturbano».

Sul mio comodino c’era un libro e fra le pagine di quella storia un mostro dalla bocca piena di zanne e con catene uncinate si trascinava nel deserto in cerca di vendetta e di sangue. Non un libro di lettura da seconda elementare. Certamente no. Eppure qualcosa doveva aver percorso strani sentieri dall’inchiostro scritto all’inchiostro disegnato. Qualcosa con una forza spaventosa.

«Lui era di certo parte del mio sogno, ma anch’io facevo parte del suo» così l’Alice di Carroll diceva del Re Rosso incontrato dall’altra parte dello specchio. E un’altra protagonista della letteratura immortale, la Penelope di Omero, diceva a un uomo misterioso che ancora non aveva riconosciuto come Odisseo che le porte del sogno sono due: una di corno e l’altra di avorio. I sogni che escono dalla porta di avorio sono carichi di menzogna e di inganni, quelli che escono dalla porta di corno raccontano la verità.

Non so da quale porta sia uscito il mio sogno, né se i confini tra quello che è reale e quello che è immaginato mi vedano dalla parte giusta dello specchio. So che quel sogno ha portato all’incontro fra un uomo e una donna, che hanno scritto una storia dove un uomo e una donna raccolgono i segni dell’apocalisse dall’alto di un luogo alla fine del mondo, mentre un altro uomo e un’altra donna, in un gioco di riflessi, nello stesso mondo oppure no, rincorrono una storia che potrebbe essere “la storia più importante di tutte”. Un (doppio) gioco di specchi tra Danilo e la sciamana Sabina Guidotti, un incontro tra due formidabili personalità che hanno il dono di captare i segni di uno Schema che tutto è meno che un’invenzione letteraria.

Su questo lato del Prisma la terra sembra essersi placata, almeno per un po’, la notte è limpida, il vento continua a soffiare, la torre tace.

Una storia (ben raccontata) ha abbracciato un’altra storia e un’altra storia e un’altra storia.