di Vittorio Catani

catanimarteRicordo bene, sulla Terra doveva essere il settembre 2045, su Marte chissà che stagione era e comunque era identica a un settembre. D’altronde Marte, freddo glabro e spoglio com’è, con quella luce giornaliera tra ombra e il color cenere, a noi astronauti è sempre apparso un eterno autunno, o un eterno tramonto. Un pianeta silente, immobile, forse inutile. Sì, ricordo bene quel pomeriggio. Tu, Liza, facevi parte della spedizione al Polo Nord e dovevi restare alla Base per altri tre mesi, ma era in arrivo dalla Terra la navetta delle turnazioni e io avevo deciso di ripartire. Non era indispensabile la mia sostituzione, pure mi ero incaponito a tornarmene.

Uscimmo dalla Base, formata da tante stanze semisferiche allineate. Sembravano igloo, collegati da piccole gallerie. Uscimmo per appartarci e salutarci, lasciando dentro Wachowski, Corbett, Nakamura e De Lillo.

Eravamo accampati lì perché studiavamo la calotta polare marziana, dove c’era pochissima acqua e soprattutto ghiaccio secco. Di giorno un po’ evaporava al debole calore del sole (un dischetto come una monetina, lontanissimo e freddo) o meglio sublimava, passando direttamente dallo stato solido al gassoso. Per questo motivo (ricordi, Liza?) si era creata sullo sfondo una sorta di nebbia o nuvolone, che incrociando i deboli raggi solari creava un effetto eccezionale. Una nuvolaglia grigia, con sfrangiature di un giallo accecante e zone d’un verdone cupo. Eppure era mozzafiato, ricordi?

Entrammo nel piccolo igloo isolato poco distante, una cabina d’emergenza. Assaporammo un tè caldo osservando lo spettacolo dall’unico finestrino in metacrilato, spesso cinque centimetri. Nell’insieme – sembrava incredibile – il panorama di ghiaccio e di quelle nubi creavano un aspetto addirittura romantico, vagamente barocco, ma al contempo evocava chissà quali catastrofi imminenti. Era esattamente una foto del mio stato d’animo del momento. Sorbimmo il tè caldo nel silenzio eterno di Marte, cui contribuimmo con il nostro dolente tacere. In realtà non sapevo bene io stesso perché volevo andare: forse avevo cose (minime) da sbrigare sulla Terra, o volevo evadere dalla routine che perfino un altro mondo può ingenerare, o avevo bisogno di riflettere (lontano 80 milioni di km.) sul rapporto che si era creato fra noi.

Ti lasciai lì per mesi: con gli altri astronauti, ma sola dentro di te. Provavo sensazioni contrastanti, un senso d’insoddisfazione, forse di infantilismo. Partii il giorno dopo. Fu uno di quei frangenti che ti restano dentro carichi di desideri inesprimibili, speranze, anche angoscia. Rammento soprattutto quel cielo estraneo e incredibile, esso stesso immagine di un’angoscia impossibile.

A volte ho rimpianto quel momento. Ma questo, mi rendo conto, non significa assolutamente nulla.