di Franco Pezzini

HalifaxFantasmiSecondo Lord Halifax

Una delle caratteristiche proverbialmente note dell’immaginario britannico, fino allo stereotipo e alla barzelletta, sta nel suo rapporto coi fantasmi. Per carità, non che il Continente ne sia sprovvisto, basti pensare alle storie circolanti nelle nostre campagne o persino nelle grandi città; e anzi spesso simili racconti fanno parte del patrimonio familiare. Ma in un paese come il Regno Unito che coltiva con passione conservativa memorie e istituzioni del proprio passato remoto, il rapporto coi fantasmi è improntato a una peculiare, sostanziale complicità. Sia nel coltivarseli, rifuggendo – se non in casi eccezionali – da qualunque tipo di sgarbata scorciatoia esorcistica, che depriverebbe il luogo infestato di un titolato abitatore; sia nell’inorridire con molta professionalità (con tutte le tinte di batticuore, insonnia, fremiti e quant’altro) quando ovviamente il fantasma di famiglia con altrettanta professionalità si fa vivo. A proposito del Canterville ghost, 1887, che prima di incontrare la pragmatica famiglia americana Otis aveva terrorizzato con fantasia istrionica intere generazioni più che avvertite della sua presenza (un vero e proprio cartellone teatrale di apparizioni che fa il verso a romanzi paleogotici e penny dreadful: “Red Reuben, or the Strangled Babe”, “Guant Gibeon, the Blood-sucker of Bexley Moor”, “Dumb Daniel, or the Suicide’s Skeleton”, “Martin the Maniac, or the Masked Mystery” eccetera) Oscar Wilde è molto più filologico di quanto spesso si consideri.
Chi scrive ha spesso utilizzato con profitto le repertoriazioni di fantasmi oggi recuperabili con comodità via internet: ma in fondo si tratta di pallide imitazioni dell’unico e vero baedeker dell’Inghilterra spettrale, il leggendario Lord Halifax’s Ghost Book, 1936, distillato della raccolta che appunto Charles Lindley Wood, secondo visconte Halifax (1839-1934) aveva compilato per uso privato. Uomo gentile di fede anglocattolica e dalla lunga attività a favore dell’ecumenismo (fu a lungo presidente della English Church Union) questo signore barbuto dal viso scavato amava in modo appassionato le storie di fantasmi, e ne raccoglieva tramite tutti i familiari e conoscenti. Come ricorda uno dei figli:

Il libro dei fantasmi di mio padre fu uno degli elementi più caratteristici della nostra vita a Hickleton. Lo teneva con la massima cura, di tanto in tanto apportandovi di proprio pugno qualche aggiunta e tirandolo fuori in occasioni speciali, come per esempio per Natale, per leggerci ad alta voce le pagine preferite prima di mandarci a letto.

Per continuare più avanti:

Forse anche a quell’epoca c’era chi non avrebbe riconosciuto questa abitudine come la ricetta migliore per salvaguardare l’equilibrio nervoso dei bambini, e mi ricordo anzi le proteste di mia madre, «i piccoli si spaventano troppo», anche se per quel che ricordo i suoi interventi non sortivano di solito alcun effetto. Dal canto suo, mio padre si giustificava dicendo che quelle letture erano utilissime allo sviluppo della fantasia, senza contare che le stesse vittime, affascinate e incantate da un senso di delizioso terrore, chiedevano sempre un’altra storia. Mi sono spesso chiesto da dove traesse origine l’attrazione che mio padre sentiva per le storie di fantasmi e simili, tanto da costituire con queste una specie di sfondo per la nostra infanzia. Esse indubbiamente rispondevano alla sua innata tendenza verso il mistero e il fantastico, in base ai quali si era formato una scala di valori per giudicare cose e persone. Nessun’altra accusa, salvo quelle riguardanti la moralità, era ai suoi occhi così lesiva della considerazione d’una persona quanto la mancanza di fantasia, e lo schema tangibile della vita quotidiana prendeva senso per lui dalla relazione che esso aveva con qualcosa di più profondo, qualcosa che si può sentire più che vedere, e che può essere colto solo grazie a una facoltà più sensibile della ragione.

Il testo, apparso in Italia già decenni orsono per Sugar e poi Longanesi, in questa forma è oggi felicemente riproposto da Odoya (Lord Halifax, Storie di fantasmi, trad. dall’inglese di Luciana Marchi Pugliese, pp. 255, € 18, Bologna 2016). E ciò che le sue pagine schiudono al lettore è una vera festa dell’affabulazione, dove il gioco a spaventarsi – entrando nei panni degli sconcertati testimoni, perché si tratterebbe in generale di storie autentiche – va di pari passo con la delizia delle descrizioni di ambienti, rapporti e dialoghi tra fine Settecento e inizio Novecento, molti vittorianissimi, a punteggiare di brividi la carta geografica della Gran Bretagna ma non solo. Non tutte le storie, poi, trattano propriamente di fantasmi (a usare un termine generico per l’intera nebulosa di ombre dei viventi di ieri, benevole o allarmanti, in qualunque modo manifeste e qualunque tipo di natura lascino individuare): questo piccolo atlante del bizzarro presenta infatti un assai più ampio spettro – si perdoni il calembour – di fenomeni sovrannaturali. Misteriose chiamate telefoniche notturne, grida strazianti ed enigmatiche, gatti vampiri, profezie oroscopiche, diavoli in agguato, incredibili sogni, animali annunciatori di morte… e persino eventi non sovrannaturalistici ma appartenenti piuttosto alle ombre oniriche o esistenziali del gotico. Dove il piacere assoluto della lettura schiude ulteriori suggestioni intriganti.
Una prima provocazione riguarda il rapporto tra l’opera e i materiali che raccoglie. In testa ai capitoletti troviamo infatti annotazioni a cura del figlio dell’autore, che era morto un paio d’anni prima e che forse non si aspettava nemmeno tanta circolazione delle sue carte. Ciò che leggiamo non è dunque la trascrizione puntuale, filologica e integrale del quaderno che l’ottimo Lord compilava, perché il curatore estrae testi del padre glossandoli e riordinandoli: e il primo fantasma di questi racconti non può essere che lo stesso Lord Halifax, seguito da tutta la torma incerta dei testimoni diretti e indiretti che gli hanno consegnato le storie o le hanno ritoccate (come emerge talora) correggendo il tiro di quanto inizialmente trasmesso da altri, o aprendo percorsi paralleli. Su alcune storie poi, estratte da riviste d’epoca o comunque consegnate senza griffe di affidabilità, l’insieme è persino più dubbio. Si pensi a un testo emblematico come questo:

Questo racconto era uno dei preferiti di lord Halifax, ed è preceduto dalla seguente nota: «Certifico che questa è una copia fedele del resoconto scritto da mr Pennyman a proposito del fantasma che frequentava l’albergo di Lille» (O. Barrington)

Mi avete espresso il desiderio di sapere quale credito si può dare a un racconto che, arricchito di qualche fronzolo, è stato recentemente presentato come una «storia vera di fantasmi», a distanza di trenta o quarant’anni dagli avvenimenti che lo hanno ispirato. Voglio quindi presentarvi i fatti, tali quali mi sono stati ricordati circa un anno fa da una mia vecchia amica, figlia del defunto W.A. Court; mi inviò il quaderno in cui il racconto era stato scritto, chiedendomi di leggerlo e di dirle se c’era in esso qualcosa di vero. Era stata amica intima di mia madre e di tutta la nostra famiglia, e non avendo mai sentito far parola di quella faccenda non riusciva a capacitarsi che fosse vera. Io stesso lessi il racconto con la massima sorpresa; era chiaro che non poteva essere stato scritto da nessun membro della famiglia contemporaneo ai fatti, né da nessuno particolarmente in confidenza con la mia famiglia, dato che c’erano in esso molti errori a proposito dei nomi e di altri particolari; altre cose tuttavia erano così verosimiglianti che ne rimasi sinceramente meravigliato. Tanti erano gli anni trascorsi e tanti gli eventi che l’episodio si era scolorito nella mia mente, infatti feci molta fatica nel cercare di ricordare come in realtà si fossero svolte le cose. Alla fine riuscii a ricordare tutto, tanto che ora sono in grado di rispondere alle vostre domande. […]

Eccetera eccetera. Tanto più che, concluso il racconto, si trova questa nota che ne avvia un altro parallelo:

La “versione romanzata” cui si fa cenno nel primo paragrafo di questo racconto era evidentemente una novella apparsa sul Cornhill Magazine e scritta dal noto scrittore, reverendo Baring-Gould, che in seguito scrisse a lord Halifax accludendo la seguente lettera che gli era pervenuta.

Caro Signore, solo ora mi capita tra le mani il numero di novembre del Cornhill Magazine, in cui leggo la vostra storia dell’“uomo nella gabbia di ferro”, molto interessante perché mi ricorda quanto capitò a me circa trent’anni fa all’hôtel du Lion d’Or a Lille. Vi narro quella vicenda perché penso che vi possa interessare. […]

Insomma un sistema pirandelliano di cornici per l’orizzonte di una traditio più o meno fluida o affidabile, dove Lord Halifax stesso a volte non ricorda più, e deve farsi rifrescare le idee da altri, ma il tempo è passato per tutti… Un contesto non meno fantasmatico dell’oggetto trattato, e che contribuisce a nutrire la delizia di queste pagine.
Il che però traghetta a notare un secondo aspetto. Per la quasi totalità, le vicende narrate conoscono come detto una presunzione di autenticità (tranne La storia macabra del colonnello P. che è frutto, dichiaratamente, della fantasia di Lord Halifax), anche se magari con qualche correzione di tiro nella nota d’incipit o nel segno di un sospetto aggiuntivo per il loro ripescaggio dai giornali. Ma è un fatto che per gran parte presentino i connotati delle storie “autentiche”: una certa asciuttezza testimoniale, la ripetitività (poco romanzesca) di fenomeni incongrui emersi come bolle su un qualche stagno torbido, e una mancanza di conclusioni se non in un senso molto generico o soggettivo. Ciò che, ancora una volta, ne accresce il fascino: come davanti a certe case infestate solitarie nella campagna, o certe locande haunted tutte sbarrate in paesotti silenziosi. Forse a una cert’ora apriranno agli avventori, al calar della sera, o forse sono chiuse da tempo e abbandonate: ci giriamo intorno, consideriamo le storie narrate senza riuscire a possedere una qualche narrazione compiuta. E il fantasma di quel fantasma ci accompagna ancora quando, a distanza d’anni, rivediamo quelle foto.