di Mauro Baldrati

Perfetti-Sconosciuti-Poster-Italia-01Lo spettatore traumatizzato a vita dal pecoreccio italiano, il sottogenere più deprimente della storia del cinema; oppure da certi film “impegnati”, come quella coppia che rimane sconvolta dal figlio (o era la figlia?) che si fa le canne, e inizia così un processo di analisi delle “colpe” e delle “responsabilità” di genitori: questo spettatore ha introiettato un “grave pregiudizio” sul cinema italiano, che vede come opprimente, quasi minaccioso, e ogni volta che è costretto a uscire di casa per assistere a una proiezione deve compiere uno sforzo psicologico, come se dovesse sottoporsi a una punizione. Pregiudizio sbagliato, ovviamente, come tutti i pregiudizi, che sono fondati sulla generalizzazione. Tuttavia quando parte l’ordine di andare a vedere questo film uscito da poco, Perfetti sconosciuti, viene immediatamente assalito da quello stato psichico che a Bologna chiamano “coccolone”. Per di più commette l’errore di sbirciare nella trama: “Eva e Rocco sono una coppia di mezza età che invita a cena a casa loro i propri amici: Cosimo e Bianca, Lele e Carlotta, e Peppe. I padroni di casa sono ormai da tempo in crisi, situazione a cui contribuisce anche il rapporto con la figlia adolescente, la seconda coppia è invece formata da novelli sposi, i terzi hanno anche loro i propri problemi mentre l’ultimo, dopo il divorzio, non riesce a trovare nè un lavoro nè una compagna stabile.”.

No. Un altro film italiano esistenziale, con le famiglie e tutto il resto.
Per favore, ridateci Non aprite quella porta.
Restituiteci La cosa.
Rivogliamo La notte dei morti viventi.

E quando arriva davanti al cinema, con una fila tremenda alla cassa? Si chiude lo stomaco. Qua bisogna distendersi sul tavolo operatorio, come diceva il vecchio Henry Miller, e tirare fuori le budelle.

In realtà la fetta maggioritaria della fila è per Hateful Height, che ancora tira. Però il gioco si fa duro quando entra in sala, che è piena, per cui bisogna sdoppiarsi: uno qua, l’altra là, solo posti singoli. Un senso di soffocamento incombe. Sicuramente gli spettatori parlano, ridono, commentano, e mangiano secchioni di pop corn. E’ qui il vero psico-horror, altro che Freddy Kruger.

Per fortuna non accade nulla di tutto questo. Niente pop corn. Telefonini spenti. E niente chiacchiere, anche perché i dialoghi sono impegnativi e non bisogna distrarsi. Solo qualche risata, condivisibile, perché alcune battute e situazioni sono davvero comiche, di una ironia garbata ma graffiante.

Appunto, i dialoghi.
All’inizio sembrano abbondare un po’ in banalità, ma è la restituzione verosimile della banalità dei dialoghi reali, quando tutti abbiamo uno schermo, una maschera, e si parla senza dire nulla.

Lo spettatore, che ormai ha accettato il suo destino, non ci mette molto a farsi catturare da quel flusso di parlato, che scorre in una perfetta sceneggiatura che riserva a tutti i protagonisti, seduti al tavolo della cena, uno spazio equivalente, armonico nella loro diversità.

E nei loro segreti. Infatti, quando parte la proposta di un gioco che consiste nel mettere sul tavolo i telefoni cellulari col viva voce, per cui ogni segretuccio sarà svelato, tutti nicchiano, ma alla fine accettano.

E qui inizia un’altra puntata dell’eterno romanzo globale transgenerico intitolato “Nulla è come appare”. Sembra di essere nelle pagine di Proust, quando scopriamo che dietro gli schermi dell’amante, dell’amico, si nasconde uno sconosciuto. La vita altrui è ignota, non è controllabile, e soprattutto non si può possedere. Mentre i telefoni squillano emergono intensità e segreti che possono incrinare rapporti fondati sul silenzio, sulla reticenza, sul pregiudizio. I rapporti privati dei partner non sono affatto regolati da quell’immanenza confessionale che dovrebbe regolamentare il matrimonio o la convivenza. Sono disarticolati, fuori controllo. Si delineano miserie, sciatterie e volgarità, quando un messaggio o una foto mettono a nudo il lato cosiddetto oscuro.

Ma è davvero oscuro, o è la pretesa esclusività dei rapporti di coppia a stringerli in un abbraccio soffocante, possessivo, punitivo?

Questa e altre domande scorrono nel flusso dei dialoghi, degli equivoci e delle menzogne, in una rappresentazione impeccabile di uno dei generi più complessi e delicati: il canto corale. Nessuno vale meno degli altri, nessuno è trascurato, in un gioco policentrico che riesce nel difficile compito di evitare la banalità, il luogo comune narrativo, il facile artificio per strappare una risata o per riempire un buco imprevisto.

Nel finale bisogna fare attenzione, essere vigili, perché il gioco del “Nulla è come appare” non è solo nella vicenda e nei personaggi, ma nel film stesso. Quando gli schermi si richiudono, i segreti implodono e la maschera ghignante dell’ipocrisia torna a stamparsi sui volti dei protagonisti, l’ultima svolta geniale potrebbe sfuggire allo spettatore distratto.