Karim Franceschi, storia di un foreign fighter italiano contro l’ISIS

di Alessandro Bresolin

PKKQuest’anno a febbraio Napoli si tinge di giallo rosso e verde, i colori della bandiera curda. Diverse iniziative infatti celebrano il conferimento della cittadinanza onoraria ad Abdullah Öcalan, da diciassette anni imprigionato in Turchia nel carcere di massima sicurezza dell’isola di Imrali. Il mattino del 15 febbraio si è svolta la cerimonia ufficiale in comune, dove il sindaco De Magistris ha consegnato la pergamena a Dilek Öcalan, la nipote di ventotto anni che dal 2012 ha raccolto l’eredità politica dello zio, e che nel 2015 è stata eletta deputata del Partito democratico del popolo (HDP). Al teatro Politeama si sono svolti poi i festeggiamenti, organizzati dalla rete Kurdistan di Napoli, a cui hanno partecipato tanti artisti solidali come ZeroCalcare, 99 Posse, Daniele Sepe, Daniele Sansone, EZezi, Jovine. A fine serata la stessa Dilek, seduta in prima fila, sorprendendo tutti ha chiesto il microfono e ha cantato per almeno cinque minuti in un commovente ringraziamento alla città.

Qualche giorno prima, il 10 febbraio, ho incontrato Karim Franceschi alla presentazione del suo libro Il combattente (pp. 350, € 15, Rizzoli) negli spazi occupati dell’Università Federico II di via Mezzocannone. Karim nel libro racconta la sua esperienza in Siria, dov’è andato a combattere insieme ai curdi contro lo Stato Islamico, partecipando alla liberazione di Kobane nel gennaio 2015. Classe 1989, madre marocchina e padre partigiano (oggi avrebbe 88 anni), Karim cresce tra Marrakech e Senigallia, dove frequenta il liceo classico. Dopo anni di militanza politica nei movimenti e nei centri sociali decide di andare nel Rojava, la regione curda nel nord-est del paese per unirsi all’YPG (acronimo di Yekîneyên Parastina Gel, in curdo Unità di Protezione Popolare) e combattere l’ISIS in prima linea. Il YPG e la sua costola femminile, il YPJ (Yekîneyên Parastina Jin, ovvero Unità di protezione delle donne) sono le milizie che dall’inizio della guerra nel 2012, dopo il ritiro delle truppe di Assad dai cantoni del nord-est della Siria, hanno assunto il controllo del territorio.

Karim accetta subito l’intervista, prima che inizi la presentazione, e passiamo in una stanza accanto a quella dove parlerà. Cominciamo a discutere seduti intorno a un tavolo. Appassionato lettore di Wu Ming, si definisce semplicemente un partigiano internazionalista per nulla affascinato dal mito della violenza ma consapevole delle sfide del suo tempo. Dice di aver scritto Il combattente per l’esigenza di raccontare, che spera di essere letto soprattutto dai suoi coetanei. Per lui sarebbe una soddisfazione diventare un punto di riferimento per quei giovani immigrati, di prima o seconda generazione, che sono qui e faticano a trovare modelli e ideali. “Inoltre – dice – parte del ricavato del libro andrà a finanziare la ricostruzione di Kobane”. Conosco allora un ragazzo determinato ma anche sensibile e riflessivo, e accendo il registratore:

Vorrei innanzitutto chiederti di ricordare Giulio Regeni, un tuo coetaneo torturato e ammazzato la settimana scorsa in Egitto. Tu sei andato a combattente a fianco del popolo curdo mentre lui era al Cairo da ricercatore e corrispondente per Il Manifesto, per studiare e sostenere i movimenti e le libertà sindacali. Entrambi siete andati a cercare di capire quelle realtà e a difendere dei valori. Quando hai saputo questa cosa, che hai pensato?

Ho provato davvero tanta rabbia quando ho saputo della morte di questo compatriota, perché è un compatriota e un martire, ucciso dalla dittatura di Al Sisi, da questo governo egiziano che è al potere tramite un golpe militare e davvero bisogna far luce su questa vicenda, far si che il suo sacrificio non venga dimenticato e portare avanti quello che ha fatto. Vedo questo compatriota come un martire, un martire per la libertà.

Qual è la motivazione più forte che ti ha spinto a raggiungere Kobane e a combattere?

Quella di aiutare dei compagni e un popolo in difficoltà nel quale mi riconoscevo, nei loro valori democratici, libertari, di giustizia, e nella loro visione del mondo. Il popolo di Kobane è fantastico: durante la guerra civile siriana ha deciso di vivere in un mondo diverso, non fatto di guerre settarie come quelle tra sciiti e sunniti che stavano infuocando la regione, e di costruire un nuovo progetto rivoluzionario fondato su principi democratici, femministi, ecologici, di autodifesa. Per questa ragione veniva attaccato dall’ISIS. Queste donne che si erano emancipate avevano tolto il velo e portavano trecce lunghissime stavano venendo uccise dai soldati del Califfato, che sono fascisti fondamentalisti. Era un femminicidio in qualche modo, per cui quella rivoluzione è innanzitutto una rivoluzione delle donne. Io in origine ero andato lì per portare aiuti umanitari, poi quando mi sono confrontato con la realtà dei bambini soldato curdi mi sono detto “devo andare a combattere al loro posto”, e così ho fatto. Un’altra ragione è sicuramente legata al fatto che mio padre era partigiano e io sono cresciuto con storie di Resistenza che mi hanno raccontato, invece delle storie per bambini. E questo seme della partigianeria è germogliato allora in me.

Quest’aspetto della partigianeria rievoca la consapevolezza per cui a volte è necessario lottare per difendere alcuni valori, com’era il caso per la Resistenza in Europa durante la Seconda Guerra mondiale o in Spagna nel 1936, esattamente ottant’anni fa, quando il popolo spagnolo ha preso le armi, compresi quelli che si definivano antimilitaristi, per difendere i valori della Repubblica democratica e combattere contro il golpe militare di Franco. La tua scelta ha fatto capire a tanta gente che questo non è un conflitto lontano: in pratica è una guerra contro quello che non esiti a definire un fascismo.

Certo che è una forma di fascismo, perché lo Stato Islamico cerca di dare una risposta al capitalismo e all’imperialismo attraverso la riproposizione di un sistema feudale, maschilista e autoritario fondato su quel tipo di gerarchie, dove ovviamente tutti i crimini vengono puniti con una repressione sproporzionata. Allargano la loro visione morale su scala mondiale, e ogni crimine viene punito con la morte. Bastano pochissime cose, un niente, per diventare meritevoli dell’uccisione, della tortura, dello stupro. In questo loro modello del mondo ripropongono la schiavitù, gli omosessuali vengono uccisi, chi beve alcolici viene ucciso, chi appartiene a un credo che loro ritengono inferiore può essere ucciso, le donne fatte schiave. Questa visione del mondo, che riduce chi è diverso in uno status inumano, è assolutamente fascista. Quindi i kuffar, ovvero gli infedeli, sono ridotti in uno stato di inumanità e sono meritevoli delle peggiori repressioni.

Qual è la lezione più forte che hai imparato lì?

Ho imparato ad apprezzare e ad amare questi principi che noi diamo per scontati, come la democrazia e la libertà. Ho visto morire molti compagni, e ho capito qual è il prezzo che tutti i popoli d’Europa e del mondo hanno pagato per poterli ottenere, ed è un prezzo altissimo, fatto di martiri che sacrificano la loro vita, la loro salute, di uomini e donne coraggiosissimi, determinati. E noi in qualche modo questi valori li perderemo se non torniamo a dargli l’importanza che hanno. Un’altra cosa che ho imparato è che avere ideali oggi, in questo periodo storico, è un qualcosa di davvero importante. Troppo spesso avere degli ideali, la parola stessa ideale assume un contenuto negativo, e dire “ho degli ideali” viene inteso come se si dicesse “sono un coglione”. Invece avere uno scopo e degli ideali è davvero importante perché altrimenti si perde il senso della vita.

Dagli elementi che hai a disposizione come vedi l’evoluzione della guerra civile in Siria?

In questo momento c’è un grande problema, la guerra civile non in Siria ma in Turchia. Il governo turco sta portando avanti una politica di pulizia etnica davvero preoccupante nel sud-est della Turchia, in questo Kurdistan negato dove ci sono città a stragrande maggioranza curda che stanno subendo veri e propri assedi militari, con tanto di mortai e carri armati. Pochi giorni fa a Cizre sono stati massacrati sessanta civili, donne, uomini e bambini che si erano rifugiati in uno scantinato, un fatto passato completamente inosservato da parte dell’opinione pubblica internazionale. Questo è un grande problema perché va ad aggiungere altro sangue e tragedia in una situazione regionale che vede Iraq e Siria infuocati da una guerra civile che va avanti da cinque anni. Inoltre, c’è il rischio che l’esercito turco entri in Siria, e allora… prevedo che questa guerra civile si intensificherà e si propagherà anche in tutta la Turchia. Ma bisogna intervenire prima che questa cosa davvero sfoci in qualcosa di terribile. La Turchia è qui, confina con l’Europa, è Europa in qualche modo, il governo Erdogan sta portando avanti delle politiche criminose, sono state chiuse televisioni, quest’anno detiene il record del più alto numero di giornalisti internazionali arrestati al mondo, senza contare le complicità con i vari gruppi jihadisti. Bisogna davvero svegliarsi, anche perché abbiamo appena dato, come Europa, tre miliardi di euro al governo turco e non è accettabile che faccia tutto questo in un contesto come simile. Non possiamo dare un silenzio assenso verso quello che sta facendo la Turchia, o addirittura una sorta di via libera, un “ok, vi diamo anche un premio”, non è accettabile, davvero.

Cosa pensi dell’iniziativa del comune di Napoli di conferire la cittadinanza onoraria a Öcalan, leader del PKK (Partîya Karkerén Kurdîstan, in curdo Partito dei lavoratori del Kurdistan) storico movimento kurdo nato in Turchia alleato del YPG in Siria?

Questo gesto ha un’importanza enorme, perché accende una luce su ciò che sta succedendo in Turchia e al popolo curdo in Turchia, su questa guerra civile, su questa pulizia etnica che il mondo praticamente sta ignorando. Il fatto che Napoli decida di dare la cittadinanza a Öcalan, leader dei curdi, ha un significato importante, vuol dire che non solo il sindaco e l’amministrazione, ma che i cittadini e il popolo napoletano si ribellano a questo stato di cose.

A tuo avviso le responsabilità maggiori per la situazione in Iraq e Siria di chi sono?

La responsabilità maggiore è dell’avidità, e del capitalismo, che produce avidità. Queste non sono terre qualsiasi, sono piene di petrolio e di interessi economici e geopolitici enormi. Ciò produce la corsa all’oro di varie potenze mondiali che rivaleggiano fondamentalmente per derubare quei popoli delle loro ricchezze, e utilizzano diversi dispositivi e strumenti creati ad hoc per questo. Uno di questi è lo jihadismo globale, in particolare l’ISIS. C’è disgusto da parte mia quando realizzo nel particolare tutti i vari schieramenti, alleanze, che poi cambiano a seconda di dove vanno gli interessi. Io sinceramente non faccio il tifo per Putin né per Obama, certamente non per Erdogan, che è uno dei più grandi responsabili di questa guerra insieme ai Paesi del Golfo. L’unico gruppo per cui faccio il tifo è il popolo siriano. Davvero, io faccio il tifo per quel popolo siriano che non ha ceduto alla rabbia. Perché molti cedono alla rabbia e si uniscono ai gruppi jihadisti, e accettano il loro aiuto pur di veder sconfitto Assad. Ma questi sono deboli, e ne pagano il prezzo. Io faccio il tifo per quei popoli siriani e non che invece hanno deciso di rispondere alle violazioni con più democrazia, più libertà, più diritti, e la ricerca, la riproposizione di essi. Io questi popoli li sostengo con tutto il cuore.

Il PKK, nato nel 1978 come movimento marxista-leninista, da molti anni è fortemente influenzato dal socialismo e dal municipalismo libertario, così come dalle teorie dell’ecologia sociale di Murray Bookchin (la compagna di Bookchin, Janet Biehl nel suo articolo Bookchin, Öcalan, e la Dialettica della Democrazia, ricorda che Öcalan cercò tramite i suoi avvocati di contattare Bookchin, definendosi suo discepolo e pronto ad applicare le sue teorie in Medio Oriente). Che tipo di realizzazioni sono state attuate in questi anni nel Kurdistan siriano, che sta vivendo in modo praticamente autonomo mettendo in pratica i principi del confederalismo democratico?

Il confederalismo democratico si adatta bene alla situazione sociale del Medio Oriente: gli Stati non esistono, non come qui, c’è un vuoto, e per questo è sorto l’ISIS. Rojava significa “Kurdistan dell’ovest”, ma in realtà non è solo Kurdistan, non è uno Stato e non vogliono proporre un nuovo nazionalismo. Si tratta di un confederalismo democratico basato su autonomie regionali e su una democrazia rappresentativa dal basso, che significa basata su assemblee e comitati che questi popoli hanno nelle loro giurisdizioni, nei loro villaggi. Questo significa che arabi, curdi, assiri, yazidi, armeni, cristiani, musulmani, vivono tra di loro senza nessun tipo di autorità che si impone dall’alto. Si tratta di comunità che si federano in nome di ideali e diritti, dove ogni carica pubblica, a partire per esempio da quella del sindaco, è duplice, maschile e femminile. Quindi amministrano i loro territori con dei principi molto solidi e portanti che in realtà sono molto semplici, e si basano sul femminismo pratico, sulla democrazia, sull’eguaglianza tra etnie e religioni e sull’autodifesa. E questo porta anche a una visione del mondo anticapitalista fondata su un’ecologia sociale, letteralmente, sulla comprensione tra i popoli, la discussione, la parola. Queste possono sembrare banalità, ma lì sono praticati. In quelle terre l’islam politico ha distrutto tutto, quindi hanno tolto la religione dalla vita pubblica. Oltre una linea immaginaria che è la linea del fronte c’è l’ISIS, con tutto quello che comporta la loro ideologia, da questa parte del fronte invece, dove c’è il confederalismo democratico, ci sono musulmani, cristiani e atei seduti uno di fianco all’altro che bevono un tè insieme. Dall’altra parte della linea ci sono donne coperte di nero con solo gli occhi scoperti, dall’altra parte ci sono donne con le trecce libere, con colori vivacissimi, che vivono libere ed emancipate. Ed è davvero qualcosa di straordinario.

Perché hai scelto Marcello come nome di battaglia?

Quando ho deciso di combattere, e di seguire il corso di addestramento, non avevo mai sparato prima. Sapevo che la guerra sarebbe stata disumanizzante, decisi che in qualche modo dovevo salvaguardare la mia umanità, e ho scelto il nome con cui mi chiamavano da piccolo. Un grande aiuto poi l’ho avuto dalle partigiane di Kobane, dal loro modo di vivere la guerra: assumono dei rischi, come per esempio trattando bene dei prigionieri che a parti invertite le farebbero a pezzi, ma così salvano la loro umanità. È importante combattere non per amore della guerra, ma per autodifesa, per la vita.

Dicevi in modo provocatorio che gente come Salvini e la Le Pen sono in qualche modo sponsor dell’ISIS, in quanto seminatori di odio.

Salvini è un agente dell’odio. Sfortunatamente li abbiamo anche noi. Nei territori dell’ISIS c’è l’imam che predica odio verso le minoranze, i diversi, gli omosessuali, i kuffar, che minacciano la loro identità e religione, e chiedono misure violente contro queste persone; noi abbiamo Salvini che se la prende con gli immigrati, gli stranieri, prima ce l’aveva con i napoletani, puzzano, rubano il lavoro, minacciano l’identità piemontese o altro, e ottiene la stessa cosa. Bisogna sempre stare attenti a chi, qui in Europa, ottiene più voti ogni volta che l’ISIS fa un attentato, sono persone pericolose.