di Alda Teodorani

FosterWallaceQuando sei un lettore – e lo devi essere, a mio parere, mentre scrivi e prima ancora di essere uno scrittore – ti stupisci, sentendo parlare altri scrittori, del mondo che state condividendo.

È una sensazione stupenda perché il mestiere dello scrittore è solitario, straniante. Non hai orari, hai dei problemi a mantenere le amicizie e/o le relazioni e spesso non ti pettini la mattina, eppure, se presti bene attenzione, ti accorgi che intorno a te c’è un fermento sotterraneo, c’è una specie di famiglia, di collegamento che unisce te e altre sensibilità come la tua, te e altri autori, te e i tuoi lettori (in linea di massima, i lettori sono creature silenziose). Questa è la sensazione che ho provato vedendo The End of the Tour, riconoscendo me e i miei stati d’animo nelle frasi dette da David Foster Wallace all’intervistatore David Lipsky – frasi timorose, a volte fin troppo personali, ma si sa, con gli sconosciuti si tende a parlare di più, salvo poi pentirsene – durante una manciata di giorni che chiudevano il tour di promozione del libro Infinite Jest, un libro che ha fatto diventare Wallace, per usare la frase di Lipsky, la “rockstar della letteratura americana”.

Durante l’intervista per “Rolling Stone”, che Lipsky avrebbe in seguito pubblicato in libro, si scopre un D. F. Wallace quasi timoroso di se stesso, fragile, cupo, ma anche innocente, un’innocenza rivelata dallo sguardo ingenuo che lo scrittore volge al mondo.

È un film riuscito nella misura in cui fa riuscire te spettatore a penetrare nella mente di un grande e fragile uomo, a condividerne gli amori e le passioni, a sorridere della sua bandana o del modo che ha di trattare i suoi cani, insomma ti fa calare nella complessa mente dello scrittore americano,  e pensi che quell’uomo, quello scrittore, si è suicidato, e ti chiedi se ha avuto rimpianti in quel momento, se non c’era proprio niente che lo avrebbe fermato, né cani né casa né ricordi né tantomeno scrittura.

La scrittura, sì, quella stessa scrittura che ti porta a rimestare nel torbido di te stesso e allora in fin dei conti non c’è poi tanto da stupirsi se un uomo con la personalità di David Foster Wallace ha deciso di darci un taglio.

La cifra del film è anche quella del viaggio, a ben vedere si tratta di un road movie, ogni tappa una sofferenza, una sorpresa, qualcosa di insolito, insospettato. È un viaggio che trasporta due persone verso una meta ma è anche un viaggio che ci trasporta nell’interiorità, verso gli inferi della mente, dentro il film e dentro di noi, accompagnati dalla recitazione di Jason Segel (perfetto in bandana e occhialini e terribilmente somigliante a Wallace) e di Jesse Eisenberg (lo stronzetto in atteggiamento di ammirazione ma al quale non difetta un bel po’ di invidia).

Road movie, dicevo, ma siamo ben lontani dal viaggio di scoperta della pace e della natura di Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, il primo libro che mi viene in mente quando si parla di viaggio. Qui, in The End of the Tour, e lo preannuncia anche il titolo, il viaggio – che non  a caso, o forse a caso, ma la sostanza non cambia, si svolge in un freddo inverno, comunicando una sensazione di gelo e isolamento – è verso la notte e la fine, mentre nel libro di Robert M. Pirsig è verso l’alto e la scoperta, l’apertura e la luce, l’abbandono della follia tramite la forza della natura che si scopre davanti ai nostri occhi.

È proprio Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta la prima cosa che mi è venuta in mente vedendo The Walk on the Woods, storia di uno scrittore ultrasettantenne (Robert Redford) che si avventura insieme all’amico Katz – uno di quegli amici che vedi ogni 10 anni, o venti, e ne approfittano sempre per chiederti soldi – lungo il sentiero degli Appalachi, anche qui siamo in zona letteraria, è lo scrittore Bill Bryson che parla, il film è tratto dal suo libro-diario, è pieno di paesaggi mozzafiato intorno ai personaggi in cerca di vita ed emozioni, pieno di musica – quella ripresa dal vecchio folk americano dove si sente l’impronta delle note primitive andine e dei pellerossa, dove si sente vibrare l’antico continente, il suo respiro prima dell’arrivo dei bianchi – e anche qui c’è neve e freddo ma c’è soprattutto sole, emozione e scoperta della vita. Nonostante l’allure vagamente da commedia americana, nel film ho trovato vari messaggi importanti, tra i quali quello che stimola a non arrendersi e continuare a mettersi sempre in gioco. Un altro tipo di road movie, insomma, che mi fa venire voglia di prendere zaino e sacco a pelo e andarmene via.

Non allarmatevi se per un po’ non sentirete mie notizie.