di Danilo Arona

CorvoPiccolo riassunto. Ci troviamo nella haunted house di Vercelli altrimenti conosciuta come Villa Destefanis. Lucia, l’agnostica, si è precipitata nella stanza di destra, in altre parole la sala da pranzo, quella in cui un telefono si era fuso sotto gli occhi attoniti dei commensali domenicali. Sergio gongola perché le manovre di Lucia gli appaiono come una conferma della straordinaria peculiarità degli eventi della casa. Io gli faccio segno di tacere (qui termina il riassunto), perché non bisogna in realtà influenzare le intuizioni di un medium autentico. Intanto registro la cupezza di Giorgio: si capisce che la visita gli pesa molto di più che al fratello. Del resto era proprio Giorgio a viverci quotidianamente, ad avere gli incubi tutte le notti.

Nella stanza Lucia non perde tempo. Facendosi strada in mezzo tra  un divano sfondato, un tavolo zoppo in posizione non euclidea e ragni che paiono migali della Malesia, raggiunge un angolo oscuro, si volta verso il gruppo ed enuncia: «Qui c’è un calore incredibile!», riferendosi ovviamente a un caldo percepibile solo da lei e, forse, da Immacolata. «È l’angolo dove stava il tavolino con il telefono», commenta a bassa voce Sergio, quasi febbricitante per le inappuntabili verifiche che fornisce la mia amica sensitiva.

«La forza della preghiera! Solo quella può liberare la casa!», tuona alle nostre spalle Immacolata, che si è dedicata sino a questo momento a inzuppare i pavimenti e a disporre su ogni piano disponibile i santini con l’effigie di Padre Pio. Lucia serra i pugni e per un lungo attimo temiamo lo scontro diretto. Poi, alle spalle della medium laica, vediamo tutti qualcosa di sconcertante cui non abbiamo prestato ancora la dovuta attenzione: sul muro, anzi, “dentro” il muro si vede una pianta, apparentemente un ficus, che pare incastrata, “impastata” all’interno, cresciuta sotto la malta ormai sul punto di sgretolarsi. Una pianta attecchita in maniera incredibile nella parete, con le foglie che sembrano i tendini tesi, in rilievo, di un braccio vagamente alieno.

«Che storia è questa?», mormora Sergio guardando di sbieco il fratello.

«Non lo so», risponde quest’ultimo, «non c’erano vasi di piante in questa camera. E poi, anche se ce ne fossero stati…»

La frase gli muore sulle labbra. È un enigma. Neppure Lucia e Immacolata abbozzano spiegazioni. Solo Paola si chiede ad alta voce se questa stanza non stia per caso sotto l’esatta perpendicolare della cantina. Le giunge una risposta affermativa. Ma nulla che sciolga il quesito.

Quindi Lucia si sposta verso una finestra. Si prende la testa fra le mani, come in preda a una forte e improvvisa emicrania. Immacolata, invece, alla caccia di tecniche alternative, riprende a girovagare, salmodiando e spruzzando liquidi.

Io mi guardo attorno. Sembra uno spettrale manicomio. Sergio inizia a scattare fotografie. Prima l’assurda pianta nel muro, poi l’ambiente qua e là, le muffe, gli angoli tenebrosi, gli oggetti oggi distrutti che un tempo formavano l’arredo di casa Destefanis.

Di colpo Lucia si gira di nuovo verso noi. Stavolta non ha una bella cera. «Non si tratta soltanto di soldati», sussurra, «c’era qualcun altro, una creatura che non c’entrava per nulla!»

«Una donna?», chiede con ansia Sergio.

«No, una bambina», risponde la medium, «la donna era incinta».

Cade una cappa di silenzio e di sgomento. La donna incinta altri non può essere che la moglie del comandante dello sfortunato drappello massacrato dai contadini. Ci guardiamo tutti senza sapere che cosa dire né che pesci pigliare. Persino Immacolata, medium fondamentalista, ha interrotto i salmi come se, per qualche manciata di secondi, si trovasse anche lei sulle stesse coordinate di Lucia. Si sentono nell’aria la pietà, l’inquietudine e una diversa forma di paura. I bambini morti, anche quando si cammina fra le ombre e il paranormale, fanno un certo effetto.

Poi il pragmatismo sembra trionfare.

«Che si fa?», chiede Sergio. Le due medium si guardano per un lungo, interminabile minuto. Poi le posizioni, sino a questo momento inconciliabili, svelano un inatteso indice di convergenza. «Occorre benedire la casa e dire molte messe per quei poveri disgraziati là sotto!», è il coerente parere di Immacolata, alla quale Lucia replica: «Bisogna purificare l’edificio. Liberare i corpi sottili dalle scorie negative. Conosco le tecniche, ma dovrei fermarmi qui per una notte intera».

Naturalmente l’ultima decisione spetta ai fratelli bolognesi e la compagnia, intuendo che la visita domenicale alla casa degli spiriti sta per finire, si approssima verso l’uscita non prima di avere sostato con perplessità per alcuni secondi dinanzi alla stranissima pianta cresciuta nel muro. Una volta fuori, e tutti con un certo sollievo, si ripercorrono le scale ricoperte dal guano dei piccioni. Giunti nel cortile, ecco che lo sdernatissimo colombo che avevamo scoperto quasi agonizzante all’inizio della visita, come ci vede si libra nell’aria con uno scatto degno di Berruti. «Lo psicopompo è guarito!», dichiara con allegria l’amica Paola, «Buon segno!».

Prima dei definitivi commiati, capisco al volo che i fratelli hanno già preso una decisione. Chiedo lumi e mi dicono che nel primo pomeriggio si recheranno da Padre Flavio, il religioso di Vercelli che è a conoscenza di tutta la vicenda e che li ha già aiutati nelle trascorse indagini. Ovvio, raccomando loro di tenermi al corrente comunque vada. E, dopo un’occhiata in cagnesco tra le due sensitive, mi dirigo con Lucia verso l’auto per tornare a casa.

Durante il tragitto facciamo inevitabili commenti sull’autenticità dell’infestazione e sulla forza che, secondo la ragazza, si sprigiona dalle mura della casa.

«È come se le stesse fondamenta ne fossero impregnate. Dolore, sconcerto, rabbia. Toh, riecco i corvi».

Già, gli uccelli sciamanici sono ricomparsi di nuovo sulle nostre teste. L’autostrada in questo momento è del tutto deserta, forse colpa del fatto che è ora di pranzo. E i corvi svolazzanti stanno per regalarci un nuovo, strano brivido, degno e provvisorio finale della storia. Lucia ha appena iniziato una sua personale filippica nei confronti di “quella fanatica”, quando una massa scura che lì per lì mi pare un sasso piomba sul vetro della macchina. Avviene tutto in così pochi secondi che non ho neppure provato l’istinto di frenare. Guardando nello specchietto retrovisore, noto un corvo stecchito sull’asfalto. Roba da Hitchcock e da Tippi Hedren assediata dentro la cabina telefonica.

«Capperi, un corvo è venuto a schiantarsi sul parabrezza», osservo con apparente freddezza mentre fermo la macchina in corsia d’emergenza per andare a controllare il pennuto. Scendo e faccio  un’inutile verifica. Il corvo è morto. Praticamente l’ho ucciso io.

«Già, loro lo sentono», sentenzia sibillinamente Lucia mentre risalgo in auto, «va a finire che ci portiamo dietro qualcosa. Sai, quando entri in certe case, niente di più facile che qualche larvona ti si piazzi sulla schiena o in un groviglio di capelli. Così te la porti a casa».

Simpatica Lucia, soprattutto rassicurante. Certo è che, se fosse solo per il groviglio di capelli, dovrei stare tranquillo. In ogni caso giungiamo ad Alessandria senza altri intoppi e ci lasciamo con la promessa di stare in contatto per tenere la faccenda sotto controllo. Tutto qui? No, perché molto tempo dopo mi chiama Sergio da Bologna. E non ho ancora detto “Pronto?” che sento pronunciare nella nota cadenza emiliana: «La sfiga sta continuando, peggio di prima. Padre Flavio è andato alla casa, ha fatto un sacco di benedizioni e poi ci ha detto di stare tranquilli. Ma la sfiga è sempre peggio e Giorgio sogna ancora. E c’è dell’altro. Ti ricordi le foto che abbiamo scattato? Ebbene, Giorgio le ha scannerizzate al computer e sono uscite delle facce. Facce bianche, assurde, incomplete. E un’altra cosa che non ho neppure il coraggio d’ipotizzare che roba sia proprio davanti alla pianta nel muro. Domani le metto in una busta e ti spedisco il tutto».

Così è stato. La busta l’ho ricevuta. Le facce sono lì. E quell’altra cosa che ha terrorizzato Sergio sembrerebbe proprio la silhouette di un feto più o meno come si mostra durante una normale ecografia. Il condizionale, mai come in questo caso, è d’obbligo.

Ma la storia non è finita. Storie così non finiscono mai, durano nei secoli. Loro, i fratelli, nel frattempo sono scomparsi dalla mia vita. Casa Destefanis, però, è lì, nel centro di Vercelli, a pochi chilometri da Alessandria. Non chiede di meglio che di essere “guardata” da tutti coloro che non ci credono.