di Danilo Arona

VillaAnimeMaledetteLa storia che vado a raccontarvi risale a qualche anno fa. È una vicenda molto estesa e complessa e che, per questo, non potrà essere compressa nello spazio di una sola puntata. Credetemi, ne vale la pena. I destini di alcune persone risultano ancora oggi influenzati e “segnati” dall’esistenza di una certa casa in pieno centro di Vercelli e dagli avvenimenti che lì sono accaduti. Ma procediamo con ordine.

Nella primavera del ’96 mi telefona un tal Sergio B. da Bologna per raccontarmi una storia (vera) in grado di far impallidire Steven Spielberg e il suo celebre film Poltergeist. Una vicenda collegata a una villa di sua proprietà, situata a Vercelli, a duecento metri dal Duomo e poco distante dalla stazione ferroviaria. Una storia che è anche un “pezzo” di vita, caratterizzato da una sfortuna incredibile. Secondo Sergio, colpa proprio di quella casa.

«Si chiama casa Destefanis ed è una palazzina a forma di lettera C”, mi racconta al telefono, “nella quale io e mio fratello Giorgio abbiamo abitato per un po’ di tempo all’inizio degli anni Ottanta. Un luogo già terribilmente provato da ben quattro casi di morte quanto meno prematura. Quattro fratelli da parte di nostra madre, lì dentro, prima che arrivassimo noi, sono passati a miglior vita. Due per malattia incurabile, ma due si sono suicidati, sparandosi ambedue alla testa. Ma noi non vi abbiamo dato peso. E Giorgio ne ha preso pieno possesso, andandoci a vivere con la moglie sposata di fresco. Subito dalla prima notte di permanenza, mio fratello ha iniziato a sognare. E lo stesso sogno si è ripresentato tutte le notti, arricchendosi di volta in volta di nuovi particolari».

Ovviamente chiedo a Sergio di raccontarmi il sogno. E quanto sento mi suona sorprendente, a dir poco.

«Lui viveva ogni volta la storia come se si fosse trattato di un film, nel senso che non ne era protagonista, come sovente capita nei sogni, ma un semplice spettatore. Tutte le notti Giorgio vedeva un imprecisabile numero di soldati italiani vestiti con le tipiche divise del periodo risorgimentale, mentre andavano a cavallo per una strada di campagna. All’improvviso questi soldati – che, dalle parole e dall’accento, parevano piemontesi – venivano aggrediti da numerosi contadini che Giorgio dichiarava essere italiani simpatizzanti per l’Austria. Come forse saprai, è una caratteristica di certi sogni quella di conoscere preventivamente le cose, ignorando la provenienza dell’informazione. Così Giorgio sapeva anche che questi soldati si recavano da Palestro a Vercelli. In ogni caso i poveracci venivano sopraffatti dai contadini inferociti e passati all’arma bianca se non lapidati o uccisi a bastonate. Una strage senza alcun superstite. E il sogno proseguiva con la sepoltura affrettata di quei disgraziati a qualche metro sotto terra dietro una grossa stalla in aperta campagna. Questo il sogno a grandi linee. E, se ti sembra strano che una persona possa fare lo stesso sogno tutte le notti, ti posso garantire che ci sono state più persone ad aver fatto l’identico sogno per essere semplicemente venute a trascorrere una notte a casa Destefanis…Occasionali ospiti, magari per una volta sola nella vita. Che so, una zia, un amico, la cugina della moglie di Giorgio. Ci sono però alcuni che non sognano. Ad esempio, a me o a mia cognata non è mai successo. Ma siamo eccezioni. La maggior parte della gente sognava. E alla mattina, appena svegli, al mio esterrefatto fratello tutti raccontavano dei soldati e della strage, descrivendo anche la stalla sotto il cui suolo erano stati sepolti, ammucchiati in un’orrenda fossa comune. Ma questo non è niente al confronto di quello che è accaduto dopo un po’ di tempo».

«Niente?».

«Ascolta. È domenica. Siamo tutti riuniti a tavola. Genitori, parenti, amici. Una bella tavolata bolognese, anche se siamo molto lontani da casa. Abbiamo appena addentato le lasagne al forno che il telefono, appoggiato sopra un tavolino accanto al caminetto, prende a suonare. Qualcuno si alza sbraitando e si accinge a percorrere quei pochi metri. Ma il trillo, dapprima intermittente come di norma, diventa all’improvviso un unico suono continuo, come una sveglia stridente che nessuno riesce a bloccare. E la cosa strana è che il volume si alza sempre di più, quasi costringendoci a coprirci gli orecchi con le mani. Ci guardiamo allibiti, pensando ad un improvviso e strano guasto del telefono. E, mentre ci avviciniamo sempre più all’apparecchio quanto meno per staccare la spina, ci accorgiamo di una cosa assurda. Il telefono, che continua a suonare come impazzito, si copre d’acqua, o di qualcosa che le assomiglia. In realtà si tratta di un’illusione ottica. Perché, dall’odore che si sta diffondendo nella stanza, appare chiaro che l’apparecchio si sta praticamente sciogliendo, come sottoposto a un immane calore. Giorgio in ogni caso non si perde d’animo. Stacca la spina con una pedata e l’infame trillo cessa di assordarci. Poi, quando lui si appoggia alla parete come per sorreggersi, ecco un’altra sorpresa, perché se ne stacca subito urlando. “La scossa! La scossa!”, si mette a ululare. Ed è vero. Qualcuno di noi ci prova a tastare quel maledetto muro e ne riceve una fortissima botta di corrente elettrica. Ma la faccenda più deprimente resta il telefono. che si sta ancora sciogliendo sotto i nostri occhi come se fosse una palla di gelato lasciata al sole».

«E che avete fatto?»

«Dopo quella domenica di tregenda, all’indomani abbiamo subito chiamato sia la Sip che l’Enel. I tecnici dell’azienda telefonica hanno alzato gli occhi al cielo e hanno cambiato l’apparecchio senza proferire parola. Quelli dell’Enel sono stati un po’ più loquaci, anche perché sono riusciti ad appurare che nei muri di quella stanza passava effettivamente della corrente. Senza però essere in grado di comunicarcene la ragione. A questo punto, se fossimo stati furbi, avremmo dovuto vendere, o svendere, la baracca e tornare a Bologna. Ma no, Giorgio s’illudeva ancora che il sogno dei soldati e l’episodio del telefono con il supplemento del muro elettrico non fossero in realtà collegati. Già, ci voleva la tragedia della segretaria».

«Tragedia?»

«Giorgio aveva necessità di una segretaria. La trovò. Era una di Trino Vercellese. Brava ragazza, con un marito e una bambina di pochi anni. La mise a lavorare in un’ala di casa Destefanis in attesa di trovare una sede stabile per la sua attività. Lei, dopo qualche giorno di attività, prese a dire che la permanenza in quella casa le trasmetteva un senso di disagio che non riusciva a capire. Nessuno ci fece caso. Poi ci fu quel massacro».

«Massacro?».

«Massacro, sì. Ne hanno parlato tutti i giornali all’epoca. Lei lavorava per Giorgio da tre mesi circa. Quella sera, come tutte le altre sere, tornò a casa, dove si trovavano il marito, la bambina e l’anziana madre di lei. Da quel che si è riusciti a capire, il marito stava pulendo una pistola e, senza alcuna causa scatenante, rivolse l’arma contro la moglie. La uccise al primo colpo. Quindi puntò contro la suocera e la figlia e sparò ancora. Forse l’anziana donna fece da scudo con il proprio corpo. Forse, nel turbine di follia dell’uomo, compare un attimo di lucidità. In ogni caso la bambina fu l’unica superstite. E, dopo avere ammazzato la suocera, lui si puntò la pistola alla tempia e lasciò andare il grilletto, portando con sé il mistero di quell’improvviso e allucinante raptus».

«Scusami, Sergio. Ma il nesso non è così evidente».

«Me l’aspettavo la tua obiezione. È tipica di tutti coloro che non hanno mai avuto a che fare con la casa. Per noi, soprattutto per Giorgio che ci viveva quotidianamente, la faccenda era diversa. Infatti, a partire proprio dal giorno dello sterminio, ci fu un’escalation degli eventi. I sogni di mio fratello si fecero più precisi e più angosciosi. La corrente elettrica cominciò a passare in tutti i muri. I quadri si staccavano dalle pareti in ogni momento e, più volte nella giornata, qualche oggetto volava sotto il nostro naso da un capo all’altro degli ambienti, così da costringerci a mettere sotto chiave ogni posata e tutti gli oggetti appuntiti o pericolosi. Poi una notte Giorgio sognò che, nell’identico luogo dove di solito assisteva alla strage dei soldati, transitavano a cavallo una bella e giovane donna in compagnia di un prete. La coppia si fermava a parlare con alcuni contadini che lavoravano nei campi. Qualcuno di questi personaggi aveva fatto parte del gruppo degli assalitori dei soldati. E, a questo punto, la tragedia si ripeteva: i contadini di colpo si avventavano sul prete e sulla donna e li uccidevano all’arma bianca. Quindi ne seppellivano i corpi nello stesso punto in cui già erano stati sotterrati i soldati. Mio fratello volle vederci chiaro. Si consultò con un frate di Vercelli, padre Flavio, spiegandogli del sogno collettivo e chiedendo assistenza per un’eventuale ricerca di carattere storico dalla quale poter trarre informazioni su qualche oscuro episodio della guerra risorgimentale accaduto in terra vercellese. Padre Flavio si dimostrò utilissimo perché, in meno di due giorni, grazie ovviamente agli archivi della Curia, trovò notizia di una strage avvenuta alla periferia della città pochi giorni dopo la battaglia di Palestro».

Occorre, presumo, a questo punto un’integrazione storica da parte mia per meglio inquadrare gli avvenimenti del “sogno”. La battaglia di Palestro, franco-piemontesi da una parte e austriaci dall’altra, avvenne il 31 maggio 1859 durante la seconda guerra d’indipendenza. Alla fine del mese di aprile di quell’anno, gli austriaci avevano oltrepassato il Ticino per sorprendere il Piemonte. Tuttavia l’avanzata, ostacolata anche dagli allagamenti delle campagne e delle risaie provocati dai piemontesi, era stata incerta e molto lenta. Trascorsi alcuni giorni, saputo che l’esercito francese si era ricongiunto con quello piemontese, il generalissimo austriaco, Francesco conte Gyulaj, aveva abbandonato il contegno offensivo e raccolto le sue forze in Lomellina, in attesa delle mosse dell’avversario. Dopo la battaglia di Montebello del 20 maggio, gli alleati franco-piemontesi avevano ideato un piano strategico per avvolgere il fianco destro austriaco, da Novara, e puntare quindi su Milano. Parte dell’armata sarda fu incaricata di proteggere il fianco destro alleato durante il movimento e di svolgere un’operazione di copertura avanzando da Vercelli su Robbio. Il 30 maggio i piemontesi passarono il Sesia in forze e occuparono dopo duri combattimenti Palestro, Confienza e Vinzaglio. Nella mattina del 31 maggio gli imperiali attaccarono la prima linea piemontese davanti a Palestro. Dopo fasi alterne e aspri combattimenti essi furono respinti su Robbio dalla decisa reazione piemontese. Intanto la battaglia infuriava anche a cascina San Pietro, attaccata da una colonna austriaca proveniente da Rosasco. La battaglia in questo settore fu risolta dall’intervento decisivo degli Zuavi francesi. Guidati da Vittorio Emanuele II in persona, essi assalirono con grande impeto le truppe austriache e le sbaragliarono completamente. Respinti verso lo scosceso cavo Sartirana, al ponte della Brida, molti soldati austriaci vi precipitarono dentro e annegarono. Gli imperiali non ebbero maggior fortuna a Vinzaglio e a Confienza, dove urtarono contro altre divisioni piemontesi che li respinsero su Robbio. I franco-piemontesi persero circa 600 uomini, tra morti, feriti e prigionieri; le perdite austriache apparvero molto più gravi, arrivando a quasi 1.500 uomini. Dopo la battaglia molti gruppi di soldati piemontesi tornarono verso Vercelli in ordine sparso. Fu uno di questi che cadde nell’imboscata alle porte della città compiuta da abitanti della zona, sfegatati filo-austriaci che volevano in qualche modo vendicare l’onta subita e che non fecero alcun prigioniero, nascondendo quei cadaveri scottanti sotto il suolo di una stalla in aperta campagna.

«Secondo Padre Flavio», continua Sergio, «il tempo e l’urbanizzazione avevano fatto sì che, laddove un secolo prima si ergeva quella stalla, si costruisse in seguito villa Destefanis, sotto le cui cantine senza pavimentazione giacevano e giacciono ancora oggi le spoglie delle vittime dell’agguato. La notizia prostrò parecchio mio fratello perché, senza ombra di dubbio, il frate gli aveva fornito la prova che la casa era, come si dice nel gergo, infestata. E soprattutto probabile apportatrice di una serie incredibile di disgrazie. I nostri quattro parenti morti, gli incubi, la segretaria assassinata, gli strani eventi del telefono e della parete. E anche il lavoro di Giorgio, ad un certo momento, prese ad andare a rotoli. Tanto che, dopo alcuni mesi dal truce fatto di sangue di Trino Vercellese, prendemmo in seria considerazione l’ipotesi di vendere la casa. Però prima qualcuno ci consigliò di ricorrere ai maghi. Sai, l’argomento era quello…In ogni caso, il primo che contattammo era un tipo barbuto specializzato, a suo dire, in magia bianca. Lo conducemmo davanti alla casa e lui fece strani movimenti con le mani, recitando incomprensibili cantici. Alla fine ci disse di stare tranquilli perché, secondo lui, la faccenda si esauriva lì. Invece gli incubi di Giorgio si aggravarono e la corrente elettrica continuò a passare attraverso il muro. Allora, sempre dietro ai consigli di qualcuno che dichiarava d’intendersene, cambiammo sponda e ricorremmo a un esperto, o pseudo-tale, di magia nera. Come l’individuo entrò in casa, i lampadari si misero a ballare e lui, visibilmente preoccupato, sentenziò che la nostra palazzina era un conduttore di energia elettromagnetica, fatto potenziato dalla vicina presenza dell’acqua. Infatti, un canale lambisce i nostri confini ed è probabile che sotto le fondamenta scorrano dei piccoli corsi d’acqua. In ogni caso pure lui fece dei rituali, ma si dimostrò quanto mai incerto sui risultati. Come se la faccenda fosse al di sopra delle sue possibilità. Infatti, a sentir Giorgio che continuava a viverci stabilmente, non ci furono sostanziali modifiche della situazione. Anzi, la sua attività peggiorò a tal punto che si decise tutti assieme di chiudere baracca e burattini e mettere in vendita la casa. Così avvenne e Giorgio venne a lavorare a Bologna con me. Adesso te la faccio veramente breve. Non solo non riusciamo a vendere la casa a una cifra che qui da noi non si spenderebbe per un garage, ma anche la mia azienda ha preso a non funzionare più. Per non dirti di malattie, di relazioni finite male, incidenti…Una sfiga mai vista!»

«Attento, Sergio», mi permetto di suggerire. «La convinzione di essere perseguitati dalla sfortuna è una delle più classiche forme di nevrosi. E credo che non abbia nulla a che vedere con la casistica paranormale che mi hai appena descritto».

«Tu dici? Vorrei crederti. Pensa che ultimamente siamo stati a casa Destefanis per scattare delle foto per un’agenzia immobiliare. Era di domenica. Il viaggio da Bologna a Vercelli è filato via liscio come l’olio. Abbiamo scattato e, a dirti il vero, non vedevamo l’ora di finire. Poi, appena rimessi in macchina, ci siamo resi conto che il viaggio di ritorno sarebbe stato problematico, a dir poco. In breve, l’automobile di Giorgio, nuova di zecca, si è guastata tre, dico tre, volte. E all’ultima il meccanico in autostrada ha dichiarato testualmente che era impossibile. Lui non trovava nessun guasto!».

«D’accordo. Ma il nesso con la casa resta sempre una tua ipotesi».

«Hai voglia di aiutarci?».

La domanda, così come la intendo, mi risuona brutale. La vera voglia che avverto è una precisazione che in questo momento sarebbe persino inutile: io non ho poteri taumaturgici né la presunzione di risolvere situazioni del genere. Su queste storie io ci scrivo, chiusa lì. Ma l’accento di urgenza che percepisco nella voce di Sergio mi fa propendere per una risposta affermativa senza indugi di sorta e una proposta persino azzardata:

«D’accordo. Ci vediamo a Bologna tra una decina di giorni». E mi faccio dare dal mio interlocutore indirizzo e numero di telefono.

Ho agito d’istinto. Ma quando si ascoltano storie come quelle di casa Destefanis occorre guardare in faccia chi te le racconta. Giusto per sgomberare il campo dal sospetto che la pertinenza del caso non debba poi essere quella dello psichiatra.

continua