di Alda Teodorani

GramsciInCenere[Pubblichiamo un estratto del romanzo di Alda Teodorani Gramsci in cenere, in uscita presso Stampa Alternativa. Di Alda Carmilla si è occupata più volte. Qua un suo profilo, riferito soprattutto alle sue narrazioni horror, cui non appartiene quest’ultimo lavoro.]

Lisa aveva capelli lunghi, l’ossatura minuta e un bel seno. Vestiva sempre come un uomo, camicioni infilati nei jeans di un paio di misure in più, tenuti su dalla cintura a fibbia larga. Aveva una casa ma era come se non ce l’avesse. I suoi stavano fuori tutto il giorno e lei rientrava solo a notte fonda, dopo la serata passata da Sputafuoco o in discoteca. Quando tornava, si buttava sul divano che le faceva da letto ancora truccata e vestita e si addormentava così.

Lisa sniffava eroina, e per questo non ha seguito il destino dei suoi amici che si facevano la roba in vena, anche se nessuno può davvero dire come sarebbero potute andare le cose in seguito per lei, se un seguito ci fosse stato. La mattina si alzava, si struccava, faceva una doccia e si truccava di nuovo. Usciva e andava a caccia – a caccia di uomini. D’inverno solitamente si appostava nelle sale biliardo di bar fumosi. Si sedeva e accendeva anche lei una sigaretta. Poi faceva colazione leggendo il giornale – come me e come Lara – quindi giocava da sola una partita a stecca. Più tardi la raggiungeva la sua amica Martina. Insieme continuavano col biliardo, incuranti degli sguardi degli uomini – di solito vecchi partigiani (tutti i vecchi, in Romagna, ai tempi del bar di Sputafuoco, erano partigiani).

Martina era l’unica vera amica di Lisa, con lei condivideva tutto: maschi, droga, viaggi in autostop fino a Bologna, dove andavano a rubare nei grandi magazzini, nelle librerie, a fumare trenta sigarette al giorno camminando sotto i portici, ridendo e sfottendo tutti; una volta una vecchia s’era incazzata seriamente e malgrado l’età aveva rincorso Lisa e l’aveva acciuffata per i capelli, strattonandola con una forza incredibile. Tornando a casa, ne avevano riso, raccontando la cosa davanti al bar di Sputafuoco, ma al momento non era stato affatto divertente.

Lisa stava bene con Martina perché le faceva scordare tutto: la mancanza di un suo spazio, la noia ma soprattutto quel senso di inutilità che spesso le pesava addosso. Martina le raccontava con leggerezza e una buona dose di ironia avvenimenti che aveva vissuto, dettagli piccanti del sesso con gli uomini che rimorchiava la sera quando andava a ballare al Verdeluna – che non si chiamava più Verdeluna ma tutti continuavano a chiamarlo così – fatti grotteschi dei quali ridevano insieme, risate incontrollabili al punto da non riuscire più a smettere, arrivando perfino a scivolare giù dal divano, come quella volta che lei aveva le mestruazioni e il ragazzo di turno l’aveva portata a casa sua, dove viveva con un grosso pastore tedesco, aveva insistito per fare sesso nonostante il ciclo, e mentre l’altro si affannava sopra di lei, Martina, che di cani e gatti aveva una paura folle, aveva visto il cane estrarre le sue mutandine dal mucchio degli abiti gettati a terra nella foga di svestirsi, e divorare il suo assorbente: convinta che l’animale, una volta assaggiato il suo sangue, ne avrebbe voluto altro, era rimasta lì immobile, a fissarlo terrorizzata mentre il ragazzo, inconsapevole di tutto, chiudeva in bellezza la sua scopata, mugolando e dimenandosi.

Un’altra volta, con un uomo sposato che lei aveva fatto aspettare e penare un paio di mesi prima di dargli un appuntamento, una semplice scopata nell’auto di lui si era trasformata in un horror: lui l’aveva presa con forza, violento, senza mai fermarsi nonostante le sue proteste e alla fine, dopo avere concluso, si era accorto del sangue, c’era sangue ovunque. Il suo cazzo era pieno di tagli. Spaventato e confuso, con Martina che rideva, s’era messo a urlare: «Guarda che hai fatto, e adesso cosa le racconto a mia moglie!»

Al pronto soccorso avevano identificato la responsabilità dell’accaduto nella spirale anticoncezionale, che lo aveva ferito in quel modo: Martina non lo aveva mai più rivisto né sentito ma le era giunta voce che aveva divorziato alcuni mesi dopo.

Per carnevale, Lisa e Martina se n’erano andate in giro con la faccia dipinta come i Kiss e l’estate successiva, nella loro 500 rosa e arancione, avevano ingannato il tempo e la noia tirando palloncini pieni di acqua a tutti quelli che incontravano per strada. Avevano centrato il finestrino di un’auto che le aveva affiancate, a bordo due ragazzi che facevano gli spiritosi, e che poi avevano tagliato loro la strada, costringendole a fermarsi. Erano due carabinieri e le avevano accompagnate alla locale caserma dove ovviamente tutto s’era risolto con un nulla di fatto. Sempre con la scassata 500 andavano a Imola. Specie d’estate la città, tutta stesa da un lato del fiume, dà un’idea di dolce pigrizia, anche se vorrebbe essere – e lo è – molto operosa. Sembra il set di un film in certi punti, o anche la raccolta dei luoghi da mettere in un romanzo, con le rive del fiume che sembrano giardini, piene di salici, con gli orti dei pensionati, o con il vento freddo che spira dalle colline coperte di neve nei giorni d’inverno.

Il ritrovo di chi cercava la roba era il parco delle acque minerali (sorgenti di acque sulfuree avevano origine su quella collina e il nome era dovuto a quello). Si fermavano al chiosco davanti all’ingresso dell’autodromo per una bibita e un panino e spesso sentivano dentro il circuito rombare le moto o le auto che facevano le prove; a volte erano gare clandestine, ragazzi che erano riusciti a trovare un varco nella recinzione o avevano sfondato una rete.

Da ragazzino andavo sempre in quei campi attorno all’autodromo. Io e i miei amici avevamo un appuntamento fisso che coincideva con il calendario delle gare motociclistiche: ci stendevamo sull’erba, aspettando di vedere le prime moto passare, e invariabilmente i sorveglianti ci trovavano e ci cacciavano via a parolacce. La città è cresciuta attorno all’autodromo, baracchette che vendevano gelati o “piadine” si sono ingrandite, son diventati luoghi di ritrovo per la gente del posto anche quando non ci sono le corse.

 

Nella pineta delle acque, Lisa e Martina trovavano quasi sempre qualcuno che vendeva loro un po’ di pillole; a volte compariva Leo che indossava invariabilmente – anche in estate – un impermeabile giallo, aveva il vizio di sedersi dentro un albero cavo, e offriva uno spinello da fumare in compagnia.

Una volta, mentre camminavano verso la pineta in cerca di roba, le aveva fermate una pattuglia della polizia, chiedendo loro di aprire le borse e «favorire» i documenti: non cercavano tossici carichi di stupefacenti, cercavano terroristi, che in quei giorni stavano premendo sull’acceleratore della violenza; non avevano trovato né armi né droga e le avevano lasciate andare subito.

Quella stessa sera, poiché non avevano trovato niente, né ero né pillole, ma solo un po’ di erba, avevano soltanto bevuto ripromettendosi di fumarsi l’erba con calma, una volta arrivate a casa, e a notte fonda, sulla strada del ritorno, la 500 si era fermata tossicchiando in mezzo alla carreggiata.

Ubriache fradice, sedute sul bordo della statale, le due si erano fatte uno spinello, finito quello ne avevano rollato e acceso un altro. Poiché non si vedeva anima viva, avevano deciso di spingere la macchina, calcolando che quando avesse preso velocità, Martina, che correva più forte di Lisa e aveva anche vinto qualche gara di atletica prima che lo spacciatore del paese le facesse sniffare la prima dose di ero, si sarebbe gettata dentro l’abitacolo e avrebbe ingranato la marcia.

 

A pochi chilometri di distanza, stava arrivando un camion. Era un vecchio OM, che tra i camionisti è conosciuto come l’acronimo di uOmo Morto. I fanali non funzionavano bene ma il motore andava a pieno regime poiché era stato revisionato di recente e il camionista, che era stanchissimo, pigiava forte il piede sull’acceleratore: voleva solo arrivare a casa prima di addormentarsi al volante, ma quella notte sua moglie lo avrebbe dovuto aspettare molto più a lungo del solito. Un paio di chilometri dopo l’uscita dell’autostrada di Imola, aveva superato una curva e aveva ripreso velocità. Si era acceso una sigaretta e poi si era ritrovato la 500 davanti all’improvviso, con le due ragazze che spingevano e che con i loro corpi coprivano i fanalini di coda. Non aveva avuto nemmeno il tempo di frenare: il camion si era schiantato sulla piccola utilitaria, schiacciando i corpi delle due ragazze tra le lamiere, e una volta che la 500, per l’urto, era schizzata in avanti, il camion aveva continuato la sua corsa travolgendo i corpi straziati e stritolandoli sotto le enormi ruote poi, ormai senza controllo, era finito nel campo coltivato a erba medica che fiancheggiava la strada e si era fermato là, sbuffando come un vecchio bisonte. Il camionista era sceso dall’abitacolo e nella luce spettrale dei fanali ancora accesi non era riuscito a vedere niente. Ma aveva già ben capito, malgrado il sonno, cosa era successo e aveva una gran voglia di scappare via. Invece era rimasto sulla strada, ad aspettare che passasse qualcuno.

Non so nemmeno se gli abbiano fatto una multa o tolto la patente.