di Michele Fiano e Marilù Oliva

panoramaTommaso Pincio, Panorama, NN Editore, Milano 2015, € 13

Panorama è una piattaforma virtuale, una versione distopica di Facebook che presenta delle coercizioni alle quali l’utente, una volta iscritto, deve ineluttabilmente assoggettarsi. Nel libro è accomunato al panottico che ideò Jeremy Bentham nel 1787, la prigione cilindrica dove i reclusi avevano la sensazione costante – ma mai la certezza – di essere monitorati in ogni momento. Sappiamo, sin dalla prima pagina, che Ottavio Tondi conoscerà e si innamorerà di Ligeia Tissot solo ed esclusivamente in questo ambiente fittizio, in quattro anni di intensa corrispondenza, e non avrà mai l’occasione – né la volontà – di incontrarla nella realtà. Una realtà altrettanto distopica divenuta quasi cifra stilistica dei lavori di Tommaso Pincio, che ci ha abituati a contesti desueti, ma non distanti anni luce da quelli in cui degenerano oggi le nostre esistenze, come quelli descritti nel brillante Cinacittà o nel recente Pulp Roma.
Panorama obbliga gli utenti a rendere visibile un ambiente della propria casa di cui fanno, simbolicamente, pubblica offerta. Ligeia Tissot porge all’obbiettivo il proprio letto, spesso disfatto o in disordine. E Ottavio Tondi ci si consuma sopra. Non lo guarda solo, ma molto di più: lo fissa, lo contempla, lo studia, lo sorveglia. Il virtuale spodesta il reale partendo dagli spazi e trascinando le persone, se è vero che Ottavio non possiede Ligeia e comunica con lei solo attraverso il digitale, ma ha perfetta cognizione di quello che lei fa credere sia il suo giaciglio; altrimenti Ottavio si consuma sulle foto di lei, dove appare sempre “spietatamente giovane e sempre elegante, sempre con quella sua luce nello sguardo, una luce irruenta e folle, da assassina”. Finché la donna sparisce. Ed è partendo dal suo nome che inseguiamo quel cammino suggestivo in grado di trovare le tracce tra esperienza personale e creazione. Del resto, per un artista che ha voluto come nome d’arte quello – italianizzato – di uno dei più emblematici rappresentanti della letteratura postmoderna, l’onomastica non poteva essere un caso. Ligeia Tissot, Ottavio Tondi, Mario Esquilino lasciano la sensazione di essere stati ponderati perché portavoci della propria essenza e, quando chiediamo all’autore come sono nati, in qualche modo ce lo conferma:

«Per rispondere a questa domanda dovrei dirvi prima che il libro è nato un paio di anni fa, quando una persona con la quale mi scrivevo da tempo su Facebook è scomparsa dal social senza lasciare traccia. La sparizione mi ha lasciato con un vuoto inatteso e per cercare di colmarlo, come spesso succede, ho percorso a ritroso le tappe del nostro rapporto. Una delle ragioni per cui ho scritto il libro è la speranza che potesse aiutarmi a ritrovare questa persona. Si chiamava o si chiama (sempre che non fosse un nome inventato) come una nota officina di orologi. Da qui Tissot, anche se l’officina in questione era un’altra. Ligeia invece nasce dal fatto che ho sempre pensato a questa persona come alla Ligeia del racconto di Poe. La nascita di Ottavio Tondi è invece stata più casuale, nel senso che il nome mi è semplicemente apparso alla mente. O meglio, mi è apparso Tondi, dopodiché ragionando sulla rotondità (un aspetto che mi interessava esaltare) sono arrivato a Ottavio, a un otto, a due tondi. Un nome specchio che si adattava bene alla funzione che inizialmente doveva avere il personaggio, quello di uno specchio attraverso il quale raccontare Ligeia. Come spesso accade quando scrivo, i rapporti di forza tra i personaggi sono cambiati. Ottavio è diventato il protagonista, esiliando sullo sfondo Ligeia. Ma era giusto, perché il motivo dominante o comunque ispiratore del libro era l’assenza. Quanto a Mario Esquilino, sinceramente non ricordo più bene come mi sia venuto in mente. Forse ha pesato una vecchia idea: quella di crearmi un eteronimo per ognuno dei colli di romani».

Ottavio Tondi è un lettore famelico, la sua omeostasi si perfeziona attraverso la mera fruizione, non ha nessuna velleità scrittoria. Leggere è per lui come sbirciare nelle vite altrui, così scandisce la sua esistenza: estraniarsi dal reale per rifugiarsi comodamente tra le pagine – Questo diventa Ottavio Tondi su un divano: un divano. Col tempo l’intrattenimento puro si trasforma in professione retribuita e, a seguito di un’intervista concessagli, resasi indispensabile per singolari circostanze che rimandano alla recente cronaca letteraria italiana, i lavori che consiglia Tondi iniziano a diventare tutti bestseller di successo e anche il direttore editoriale trova rilassante parlare di libri con lui, forse per il suo modo di esprimersi con precisione, ma sempre in disparte, in un mondo in cui vige la rincorsa ai riflettori, come dimostra il seguente climax:
«Nel suo ambiente tutti volevano diventare qualcosa. Gli aspiranti scrittori volevano diventare scrittori, gli scrittori volevano diventare scrittori di successo, gli scrittori di successo volevano diventare scrittori apprezzati dalla critica».
Segnanti vicissitudini lo portano a spostare lo sguardo dalla costruzione immaginaria dei libri all’immaginario ricostruito di Panorama. Non più la vita tradotta dai libri attraverso l’immaginazione, quindi, ma quella goduta dalla vista che si spalanca su un panorama degradato e sconfinato: l’umanità. La decadenza generale di cui parla Tondi già nelle prime pagine investe irrimediabilmente anche il nostro antieroe, i libri, che inizia a vendere per vivere, vengono gradualmente sostituiti da taccuini di appunti dove sono annotati pensieri e elenchi che riguardano la sua relazione virtuale. Da lettore di magnifici testi – difficile non annotarsi alcuni titoli poco conosciuti citati in Panorama – Tondi passa alla scrittura, e non lo fa solo su foglietti, ma su un social network, perché lo stimolo ad andare avanti ormai gli è dato solo dalla relazione con la fantasmagorica Ligeia. Ma è il suo sguardo che subisce una mutazione, su Panorama guarda foto, video, ma guarda anche le frasi, la scrittura diventa icona anch’essa. L’utilitarismo rappresentato da Pincio non è quello analogico di Bentham, Panorama nasconde insidie che accelerano processi di disfacimento nel reale e i litigi che diventano companatico di un’insoddisfazione destinata a non essere mai sanata, propulsione di continui, fatui e violenti girotondi di guerre e riappacificazioni:
«Ogni pretesto era buono per aggredire, insultare, sbeffeggiare; un innocente commento sulle condizioni meteorologiche valeva quanto un attentato terroristico all’altro capo del mondo. Nulla era troppo innocente o troppo distante per scatenare una guerra di opinioni. Tondi trovava affascinante osservare le persone annientarsi a vicenda, le alleanze tramutarsi in odio viscerale e gli odi viscerali tornare ad essere momentaneamente alleanze perché un nuovo e più viscerale odio era apparso all’orizzonte».
Suscita sempre disincanto il tono pacato della prosa di Tommaso Pincio, che non è impediente al velo di inquietudine che ammanta quasi sempre i suoi scritti, al punto da farne assumere, nella struttura, anche gli schemi del noir. Un romanzo dissacrante e ricchissimo, sia semanticamente che dal punto di vista delle possibilità di spaziare col pensiero, una scrittura limpida e corposa che sa sovrapporre all’ironia il sarcasmo laddove le condizioni di osservazione lo permettono: altrove, lo sfacelo delle apparenze la fa da padrone. Da sottolineare innumerevoli passaggi, non ultime le frasi lapidarie indirizzate ai circoli letterari autoreferenziali, di cui pullulano i nostri salotti virtuali:
«Il minuscolo mondo letterario per il quale aveva vissuto, una comunità dalla spropositata considerazione di sé benché ignorata dai più, aveva meritato di soccombere, spazzata via dall’arroganza di credersi testimone del mondo, custode di valori millenari, cuore dell’umanità. Aveva proprio ragione la Buia: mancavano di qualunque minimo senso del ridicolo. Per troppo tempo, a lui e alle persone come lui, era sfuggita una verità più in bella vista di una lettera in un posacarte. Ebbe dunque la seguente illuminazione: non era morta la letteratura, erano morti loro, i letterati».

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