di Alberto Prunetti

tungsteno2César Vallejo, Tungsteno, Roma, Sur, 2015, pp. 137, euro 15, trad. di Francesco Verde

Ci sono libri che mascherano la realtà, la imbellettano e ne camuffano le contraddizioni; ci sono libri che svelano la realtà, ne descrivono la complessità, ne espongono le ferite. Quello di Vallejo non è un libro che maschera la realtà, non la camuffa, non stende veli di cipria sulla dura dinamica delle forze sociali. Siamo in Perù, nei primi decenni del Novecento, e i nordamericani si sono comprati un pezzo di montagna. Devono portare a termine i loro progetti e pertanto devono piegare la resistenza dei minerali e degli abitanti del posto. César Vallejo ci fa vedere con le parole il sangue della manodopera schiavizzata, la forza dell’estrattivismo e del colonialismo selvaggio. Insomma, ci parla delle vene aperte dell’America Latina ( e Tungsteno lo si può leggere a fianco del capolavoro di Galeano) Breve, incisivo, stupendo. Non condivido il giudizio rapido di C. Aíra che lo liquida come un testo ideologico. Certo, c’è una tesi ideologica forte, ma stilisticamente siamo ben oltre il realismo socialista: le pagine sul sogno febbrile di un personaggio hanno già connotazioni oniriche e quella terribile cavalcata a dorso di mulo che serve a trasferire e domesticare gli indigeni schiavizzati ha una forza visionaria che di rado la letteratura sa evocare e che si trova più spesso nell’arte delle immagini in movimento. E’ un realismo, quello di Vallejo, che sembra spingersi nell’iperrealismo e poi, per enfasi, nella deformazione caricaturale della società. Non a caso nel corso della lettura mi sono venute spesso in mente, nelle figure di quei militari e di quei borghesi crapuloni descritti dal poeta peruviano, i soggetti delle caricature di George Grosz e di Otto Dix. Sì, la realtà viene ripresa e gonfiata fino a trasformarsi in una caricatura iper-realista. Insomma, è un gran bel libro quello che Sur ha dato alle stampe, tutt’altro che convenzionale (A proposito, provate a leggere questo libro pensando alla Val di Susa e alla Grandi Opere Inutili dei nostri giorni. Sarà un bell’esercizio comparativo).

 

Rodolfo Walsh, Variazioni in rosso, Roma, Sur, 2015, pp. 235, euro 15, trad. di. Eleonora Mogavero

Quest’opera non è una di quelle che Rodolfo Walsh amava di più. E non è neanche una di quelle per cui è diventato uno dei più acclamati scrittori argentini del Novecento. Eppure questi tre racconti polizieschi, che potremmo definire “gialli”, sono importanti perché ci raccontano qualcosa di Walsh. Non solo parlano del suo autobiografismo (sono gialli risolti da un correttore di bozze, lavoro che Walsh ha esercitato per anni e che ritorna in un altro suo racconto, “Nota a pié”) ma illustrano la grande capacità che Walsh ha avuto nel porsi nei panni delle forze di polizia e nel carpirne le tecniche d’indagine. Capacità che poi gli è servita in seguito, quando ha cominciato a identificarsi, più che con la figura dello scrittore di gialli, con i panni del giornalista d’inchiesta e con quelli del guerrigliero. Così in questi tre racconti brevi l’autore argentino ci fa vedere con che meticolosa precisione si possa condurre un’inchiesta. Quale lavoro semiotico di inferenza si possa condurre con le prove, le tracce e le evidenze. E questa capacità gli servirà  in seguito per esplorare, raccontare e risolvere casi di omicidio (vedi Il caso Satanosky e il suo capolavoro, l’inchiesta di Operazione massacro). Ma gli servirà anche per decifrare un telegramma criptato dei servizi segreti nordamericani, trovarne la chiave crittografica e svelare un tentativo di invasione di Cuba orchestrato dai democratici americani. E infine, in anni in cui Walsh, sotto la dittatura, entrerà in clandestinità nelle fila dei montoneros, questa sapienza investigativa gli consentirà di muoversi sotto copertura (cosa che aveva già fatto come giornalista, quando scriveva con una pistola in tasca e un’identità falsa, anticipando di anni lo stile di Gunter Wallraff) ma anche di infilare nel corpo della bonaerense, la polizia di Buenos Aires, un suo uomo. E non solo. Gli permetterà di inserirsi sulle onde radio della polizia argentina per guidare i suoi compagni di guerriglia lungo strade sicure; lo aiuterà a compiere azioni dirette contro i milicos e di allestire un’agenzia giornalistica clandestina. Tutto questo, fino all’ultimo dei suoi giorni, seppe fare Rodolfo Walsh. Chi l’avrebbe detto che quel correttore di bozze occhialuto e stempiato sarebbe divenuto la minaccia vivente dei golpisti. Eppure il suo violento oficio di escribir comincia con questi tre racconti che sono scritti con gli artifici retorici delle detective-story inglesi. Ma qui non siamo a prenderci il thé a Cambridge, siamo in Argentina, e il gioco si farà presto duro.

[Nota: assieme a questi due titoli integra l’uscita di Sur un romanzo di Tomás Eloy Martínez: Purgatorio (Roma, Sur, 2015, pp.283, euro 15, a cura di Francesca Lazzarato). Non ho ancora avuto modo di leggerlo ma dopo aver già letto con grande entusiasmo due titoli di questo autore che considero fondamentali per come ha narrato la storia dell’Argentina, ovvero Santa Evita e La novela de Perón, mi sento nella posizione di nutrire verso questo titolo ottime aspettative].

 

pereiraMarino Magliani e Marco D’Aponte, Sostiene Pereira, Latina, Tunué, 2014, pp. 172, euro 19,90

Marino Magliani ha sceneggiato il romanzo di Antonio tabucchi e il risultato è davvero bello. Morte e vecchiaia da un lato e impegno politico e resistenza umana dall’altro, nel Portogallo che sta per scivolare nella stessa catastrofe politica della Spagna franchista. Anche le tavole di D’Aponte, stilizzate e lontane dall’iperealismo, contribuiscono a dare corpo al significante iconico, riuscendo in maniera esemplare a tradurre l’opera dalla cifra testuale a quella grafica. Un adattamento che funziona alla perfezione.

Paul Avrich, Ribelli in paradiso, Roma, Nova Delphi, 2015, pp. 382, euro 15

Avrich è uno dei più importanti storici dell’anarchismo. A cominciare dal suo saggio su Kronstadt, la sua opera è caratterizzata da estremo rigore nell’uso delle fonti e da uno stile espositivo rigoroso ma estremamente leggibile. Quest’opera, dedicata al movimento anarchico nordamericano, non tradisce le aspettative. Anzi: non si limita a una storia giudiziaria della vicenda di Sacco e Vanzetti ma riesce a ricostruire un pezzo di storia sociale dell’emigrazione politica italiana dei primi del Novecento. Il volume è stato tradotto  e curato da Antonio Senta, che ha provveduto anche ad adattare con le note del traduttore le citazioni al repertorio bibliografico italiano.

Céline Minard, Per poco non ci lascio le penne, Roma, 66THAND2ND, 2014, pp. 245, euro 18

Mi ha sorpreso questo ritorno al west, che passa da una scrittura tagliente, da una concreta perizia nel maneggio dei cavalli e da una profondità psicologica dei personaggi femminili (che nel western tradizionale erano relegati a personaggi sbiaditi: vecchie stregone papago o belle maliarde assassine, se non povere fanciulle abbandonate da salvare). Come lettore ho faticato a riavvicinarmi al western perché ne avevo fatto overdose nella mia infanzia e ho provato qualcosa di simile a chi, avendo smesso di fumare, sente il fumo delle sigarette. Prima ne è disgustato, poi attratto. In breve, quella della Minard una bella prova di scrittura, anche se ho faticato a farmi trascinare dal ritmo del suo plot. Dopo Corman McCarthy, è la seconda volta negli ultimi anni che mi avvicino al western da lettore e, anche se non ho provato le stesse profondità abissali di Cavalli selvaggi nella lettura del romanzo della Minard, si tratta comunque di un’opera che potrebbe rilanciare un genere che in passato è stato esplorato e abusato fino alla consunzione.

Giampiero Capra e Stephania Giacobone, Come macchine impazzite, Milano, Agenzia x, 2014, pp. 249, euro 15

A metà anni Ottanta il punk italiano aveva già superato la sua fase nichilista. Prima di spengersi, o di trasformarsi in hardcore, o di scomparire a colpi di rap, una band italiana che entrò nel cuore di tanti furono proprio i Kina. Montanari e provinciali, suonavano con canzoni in italiano che conservavano una base melodica. Anche il loro modo di vestirsi aveva qualcosa da boscaioli, più che da giovani ribelli delle periferie metropolitane. Insomma, per chi come me veniva dalla provincia rurale, per chi gli anfibi li usava non per moda ma perché il babbo li portava dal cantiere e le camicie a quadri non erano ancora un simbolo grunge ma un modo di vestirsi adatto alla campagna, i Kina erano davvero il gruppo da ascoltare. Il loro hit “Questi anni” lo cantavamo a scuola appena la campanella ci concedeva un attimo di requie. “Se ho vinto se ho perso” è uno dei pochi vinili che conservo con cura e dedizione. Insomma, questo libro è la loro storia, ma è anche un pezzo di memoria di chi, come me, li ha ascoltati per anni, adorandoli. Per la cronaca, dalle mie parti il punk si adattava al giro rurale grazie alla figura del buttero-punk, detto anche maremmione, che faceva cover dei kina ingoiando le c. E nella scena punk del periodo ricordo con nostalgia Grostock, un evento punk sulle sponde dell’Ombrone, e un altro concerto sulle pendici dell’Amiata in cui i butteri-punk si misero a zappare la vigna, ubriachi, a metà nottata, per avere un vino migliore alla prossima stagione. Insomma, la storia del punk italiano non è tutta metropolitana e le memorie de bravissimi Kina ce lo dimostrano appieno.