di Bernardino Formiconi

DonneSandiniste[Oggi quasi novantenne, ma ancora lucidissimo, padre Bernardino Formiconi è stato un personaggio importante della rivoluzione sandinista del 1979 e dei periodi successivi. Giunto in Nicaragua negli anni ’50 come missionario francescano, Bernardino trasformò, col confratello Uriel Molina, la parrocchia di Managua di Santa Maria de los Angeles in una delle basi dell’insurrezione contro la dittatura dei Somoza. Fu esponente della “teologia della liberazione”, rappresentante del FSLN in Italia, ed è poeta e saggista. Il testo in dodici capitoli che presentiamo, scritto negli anni Ottanta ma rimasto inedito, affronta i primi anni della vittoria rivoluzionaria dal punto di vista della Chiesa ribelle, tanto detestata da “san” Wojtila.] (V.E.)

NATALE IN LUGLIO

Quelle interminabili giornate di giugno e luglio del 1979, a Managua e altrove nel Nicaragua, fummo in molti a tra­scorrerle nei fragili gusci delle nostre case, isolati gli uni dagli altri, senza acqua, né luce, né cibo. Mentre aspettavamo le dieci di sera, ora in cui Radio Sandino con la sua debole voce ci avrebbe portato un alito di speran­za, ci domandavamo se saremmo usciti vivi da quel terribile trambusto.

La notte del 10 giugno, con la decisione di uscire sul­le strade a costruire barricate e scavare trincee, aveva­mo attraversato il nostro Rubicone. Il Popolo aveva getta­to il guanto al Tiranno, e questi aveva raccolto la sfida. Un duello all’ultimo sangue. Di alternative non avevamo che la vittoria o la morte.

La mitragliatrice, quella terribile M 50, aveva tuonato per giorni, le scariche di fucileria ci avevano accompa­gnato notte e dì. Ci assicuravano, è vero, che i muchachos, i nostri ragazzi, erano vivi, che lottavano sulle barricate. Ma ci ricordavano pure che la bestia Somoza e le sue fiere erano ancora libere, alimentate da una in­fernale macchina di guerra che affluiva da Honduras, El Salvador, Guatemala, Stati Uniti e perfino Italia. “Dob­biamo aiutare Somoza”, gridava a un capo del telefono, al suo collega del Guatemala, l’ambasciatore italiano a Ma­nagua.

Non eravamo pessimisti, eravamo coscienti. Prendevamo atto di una realtà dura e crudele che non ci permetteva di allentare le briglie della nostra fantasia, di abbandonarci ai sogni, alle utopie. La terra del latte e del miele era ancora lontana.

All’improvviso la mitragliatrice tace, le pallottole non sibilano più. Managua è avvolta da un pesante silen­zio. Nelle sue vie tutto è desolazione. Case sventrate, pareti perforate da raffiche di armi automati­che, condutture d’acqua che rigurgitano il loro liquido per le strade, carcasse di auto bruciate con le ruote rivolte goffamente al cielo, cadaveri in putrefazione, cani randagi che se ne contendono i brandelli.

La guerra si era allontanata. Dove si lottava? León era in mano ai muchachos. A Masaya, l’odiata guardia era rimasta asserragliata nella fortezza del Coyotepe. Mana­gua era libera.

La radio taceva. Ci arrivavano ogni tanto notizie frammentarie dall’estero, e noi, aiutandoci con la fantasia, le componevamo e le riordinavamo come tessere di un mosai­co, durante quegli ozi forzati, quell’attesa estenuante, in quel silenzio di morte.

Tutto è silenzio intorno a noi, quasi un misterioso si­lenzio biblico, preludio di chissà quale rivelazione. Non si odono voci di nessuna specie. Il chiasso, con cui abi­tualmente i nostri bambini riempiono strade e cortili, è cessato. E’ sparito perfino quel martellante, noioso can­to dei galli che scandisce lo scorrere della notte. E’ possibile che gli animali abbiano avvertito la tragicità del momento? O non saranno piuttosto finiti nella pentola, per assicurare qualche giorno di sopravvivenza ai loro pa­droni?

Ogni tanto qualcuno scivola in fretta lungo i marcia­piedi, volge nervosamente lo sguardo intorno, chiama im­perioso davanti a qualche uscio che si schiude il tanto necessario a farlo passare. Poi tutto torna silenzio.

Tra tanto squallore di morte, uno scoppio di gioia, una fiammata di vita: l’arrivo miracoloso e improvviso di Vivian, la compagna di lotta clandestina. Con Vivian ave­vamo portato alla Direzione dell’FSLN i piani del bunker del tiranno e del quartier generale della guardia, prepa­rati da due ex ufficiali somozisti e rimasti nascosti pri­ma in una ambasciata e poi sotto il fondo di un vecchio scrittoio. Vivian ha bisogno di medicine e di denaro per comprare una Uzi, che un tenente vende a rate mensili.

Ci dice che ora la lotta è concentrata su Masaya. La vittoria sarà nostra, ci sono novemila guerriglieri a difendere la città. Dobbiamo mandare laggiù, con urgen­za, una comandante rimasta a Managua.

Ci avventuriamo per le strade deserte, facendo acrobazie con l’auto tra barricate e trincee, con i nervi a fior di pelle per il timore di imbatterci in qualche pattuglia di belve.

Il “no” secco delle ineffabili suorine del Collegio Teresiano, cui chiediamo una sottana che da tanto tempo non portano più, non ci fa perdere di coraggio. Inventiamo sottana, velo, sandali e cordone per vestire da suora la comandante. La fiammante “novizia”, accompagnata da una venerabile e anziana signora, attraversò i posti di bloc­co con tutta tranquillità e poté arrivare a Masaya. Uno sbirro, forse attratto dal fascino della “suorina”, le fe­ce perfino una goffa riverenza.

Sprofondiamo di nuovo nella lunga agonia del silenzio, che ci avvolge ogni giorno di più nella sua stretta morta­le. Dove è andata a finire la nostra gente, i ragazzi, le donne che ci ingozzavano di caffè durante le interminabili notti passate a fianco di quelli che si erano rifugiati nella nostra chiesina? Dove sono Membran, il giovane medi­co con il quale curammo i primi feriti della guerra, Mano­lo, Cornelio, Nelson? A combattere? Fuggiaschi? In mano alle “belve”? Nessuno può dircelo.

Un’attesa, la nostra, simile ai dolori del parto. Il Ni­caragua trattiene il respiro nell’attesa di quel Natale di luglio, nascita dell’Uomo Nuovo, per il timore di ritrovar­si il giorno dopo la figlia, la Rivoluzione, morta tra le braccia. Quella rivoluzione cresciuta nel seno di tante ma­dri, di tanti uomini e donne, di giovani e ragazzi, alimen­tata con crudo mais sotto un cielo gonfio di Speranza. Ane­liamo tutti quella figlia, la nostra figlia. Siamo tutti, in qualche modo, suo padre e sua madre. Per ognuno di noi quell’attesa angustiosa è la ragione del silenzio.

Di buon mattino, il 17 luglio 1979, la televisione – che finché c’era stata corrente aveva trasmesso musica sinfoni­ca per darci l’immagine di una calma che non esisteva più nemmeno sullo schermo, o al massimo qualche sporadica noti­zia, con foto di “terroristi” uccisi perché alteravano l’ordine pubblico – riprende a funzionare per annunciarci che il tiranno ha rinunciato al trono. Non dice proprio co­sì, ma emette un lungo comunicato che in sostanza dice que­sto. Ci sintonizziamo immediatamente su emittenti stranie­re. Da esse riusciamo a sapere che Somoza ha effettivamente abbandonato il Paese alle quattro del mattino, proprio l’o­ra dei ladri. Viaggiano con lui verso Miami, sul Jet Execu­tive preso a credito in Inghilterra tre anni prima e mai pa­gato, il suo primogenito noto ai nicaraguensi come E1 Chiquin (“lo scugnizzo”), specie di vivente compendio di tutte le porcherie di quarantacinque anni di dittatura, l’amante ufficiale, suo fratello naturale José, il segretario personale, le os­sa del padre e del fratello (disseppellite dai suoi seguaci nella notte, mentre lui recitava all’Hotel Intercontinental la pantomima della rinuncia di fronte a un centinaio di fede­lissimi) e gli ultimi spiccioli del Banco Central, saccheg­giato tre giorni prima dallo stesso Chiquin al comando di un manipolo di 35 sbirri.

Eredita il “trono” un fratello della cognata del tiranno, certo Francisco Urcuyo MaliaSb, che, a quanto si dice, dovrà passare le consegne del potere al Fronte Sandinista. Sarà ricordato col nomignolo di “Francisco el Breve”, perché re­sterà presidente solo poche ore.

E’ lo svanire di un incubo, un raggio di luce alla fine di un tunnel lungo 45 anni.

Tragica illusione! Poco dopo appare sullo schermo l’ef­fimero presidente, con le insegne presidenziali. Ci comu­nica che il suo incarico durerà, a norma della Costituzio­ne, fino al 1981.

Il raggio di luce si spegne.

Tuonano nuovamente i cannoni sul Coyotepe, l’ultimo ba­stione delle “bestie”. Quelle stesse “bestie” che tutte le mattine, per anni, hanno sostenuto con il loro comandante questo edificante dialogo:

“Chi è il nemico della guardia?”

“Il popolo.”

“Chi è il padre della guardia?”

“Somoza.”

“Chi siete voi?”

“Tigri, siamo tigri.”

“Di cosa si alimentano le tigri?”

“Della carne e del sangue del popolo. Viva la guardia, abbasso il popolo!”

Ora sembra che di carne e di sangue del popolo, per ali­mentare le tigri, non ce ne sia più.

Ma alle prime ore del mattino del 19 luglio il silenzio che regnava per le strade s’interrompe di colpo. Al princi­pio è un mormorio, poi un vociare più sostenuto, grida, ru­mori di auto, colpi di clacson, il tutto in continuo cre­scendo. I marciapiedi si ripopolano, si formano capannelli di gente eccitata, i bambini gridano di nuovo.

A mezzogiorno siamo tutti in cammino verso una stessa meta, per un’adunata che nessuno ha convocato. La prima adunata spontanea della nostra storia.

Le colonne guerrigliere stanno marciando verso Managua, e il Popolo con la sua carne e il suo sangue, la Vita che le tigri non hanno divorato, corre festante all’appunta­mento. Ci ritroviamo tutti così come siamo, con la barba lunga, i vestiti sporchi o a brandelli, sulla strada che porta da Masaya a Managua. Il Popolo scomparso si ritrova ora in cammino, spinto da una forza invisibile.

Non piove quel pomeriggio. Il sole tropicale splende sulla gioia che irradia dai nostri volti.

Ci guardiamo negli occhi, per la prima volta dopo tanto tempo, e ci ripetiamo l’un l’altro, quasi meccanicamente: ME’ partito”• Non diciamo altro, ripetiamo solo all’infi­nito, ubriachi di gioia: “E’ partito”. E sulla strada, in­corniciata da due ali di Popolo festante, novemila guerri­glieri, i muchachos, stanno sfilando su camion, trattori, rimorchi, auto rese colabrodo dalle pallottole, jeep scon­quassate, carri trainati da cavalli, qualunque mezzo capa­ce di rotolare.

Eroi vittoriosi con la pelle ricoperta da una maschera di terra e sudore, con addosso divise di tutte le fogge, berretti, baschi, qualche fazzoletto originariamente ros­sonero, fucili di tutte le marche e calibri, un campiona­rio di pistole forse unico nella storia, da quelle fabbri­cate artigianalmente a Monimbò alle più sofisticate machi­ne gun. Amalgama tutti una divisa inconfondibile, il sorri­so. Con un braccio o una gamba ingessati, con la testa ben­data, zoppicando o trascinandosi sulle stampelle, nessuno tra quelle migliaia di eroi è mancato all’appuntamento con la Resurrezione del Popolo.

Chilometri e chilometri di folla ai lati del cammino, un Popolo rinato come per rigenerazione spontanea, una molti­tudine che ammira, forse con un filo di invidia o di vergo­gna, gli eroi di un’impresa che ai grandi, in 45 anni, non era riuscita.

Sguardi ansiosi, impazienti. Fazzoletti che asciugano le lacrime, vengono stretti fra i denti, soffocano un singul­to. Madri, spose, sorelle che alzano le braccia, cercando quella parte di loro lontana da chissà quanto tempo. Un de­siderio immenso di possedere, condividere. Ansia negli oc chi che guardano attorno con il timore di non incontrare nessuno.

L’amicizia torna a esprimersi con grida, cenni, gesti. Volti di cui conservavamo ancora un’immagine infantile ap­paiono adesso adulti per la fatica, la fame, la lotta, ma­turati dalla scelta che ha portato alla vittoria.

E’ l’incontro tra due generazioni, tra due epoche. Tra un passato d’inferno, fatto ricordo, e un futuro che è già presente, tutto da inventare.

Ai lati della strada il Popolo continua ad affluire, i bordi si gonfiano, il passaggio si fa angusto. L’immensa carovana si ferma» E il Popolo risorto allunga le braccia per stringere i suoi beniamini, i muchachos.

Scende la notte. Il cielo si veste d’azzurro profondo, intensissimo. Un manto teso a proteggere la felicità del­l’uomo, la Vita.

L’indomani continua la festa del Trionfo. Da tutte le strade della Terra Libera Nicaragua, migliaia e migliaia di uomini e donne vanno al grande incontro, nella piazza che ha ora un nuovo nome: Piazza della Rivoluzione.

Da León giunge lentamente, su un camion di lavoratori, la Giunta di Governo di Ricostruzione Nazionale. A quanto diranno poi, siamo 400 mila nella Piazza, quel giorno. Su­gli alberi, sui tetti, sui cornicioni fatiscenti della vecchia cattedrale, su impalcature improvvisate. Da ogni parte immensi grappoli di Popolo e di combattenti, alberi fioriti di Popolo, edifici rivestiti di Popolo. Donne co­perte di rossonero, bandiere rossonere, cingolati rossone­ri. E. il trionfo dei colori del Generale degli Uomini Li­beri, Cesare Augusto Sandino.

Los muchachos fanno sfoggio delle nuove divise dell’E­sercito Popolare Sandinista, confezionate frettolosamente nella clandestinità, con qualcuno alla porta per evitare sorprese»

Il tiranno è al sicuro a Miami. L’odiata guardia è in fuga precipitosa verso ogni frontiera. La morte che, pre­potente sovrana, si era librata sulle nostre teste per 45 an­ni, è solo un ricordo.

I Caduti, i 55 mila Eroi e Martiri, sono vivi, risorti, presenti nella gioia del Popolo. In quei 400 mila uomini riunitisi in quella piazza senza sapere come, per un appuntamento che è conclusione di una missione e inizio di un’altra. La gente ha obbedito al richiamo del Sangue dei suoi Martiri, dell’Amore di coloro che hanno amato con l’Amore più grande.

Non viene esaltato nessun leader quel giorno, nessun caudillo, nessuno che si sia particolarmente distinto nel­la lotta di liberazione. Sandino sorride, nella sua digni­tà, da migliaia di poster che il Popolo agita come bandie­re. Tutto il Popolo, nell’ideale di Sandino, è autore, spet­tatore e protagonista della festa del Trionfo.

Dal camion della Giunta di Governo il vescovo Salazár alza la mano per chiedere la parola. Ricordiamo il suo ge­sto e ricordiamo le sue parole: “Poiché nessuno ha ricorda­to Dio in questo mare di evviva, io voglio gridare: viva Dio!”

Non ci sono applausi per le parole del vescovo. La cosa può anche sembrare strana in un popolo che ha il nome di Dio sempre a fior di labbra. Ma è così. La gente, quel giorno, è come fuori di sé. Dio lo sente nei cuori, nella gioia, nell’aria, lo vede nei ritratti dei Martiri, nelle lacrime di migliaia di madri, nel dolore sereno di chi ha dato qualcosa di sé per la felicità di tutti, nel vuoto la­sciato dai morti, nelle mani che stringono altre mani. So­no i Morti-Presenti, con il loro sangue, il cemento di quell’assemblea di uomini finalmente liberi di costruirsi un proprio avvenire. Il loro Amore portatore di Vita. Le angustie, il silenzio degli interminabili giorni di giu­gno e luglio in quest’Amore vitale acquistano un signifi­cato. Hanno accompagnato la gestazione dell’Uomo Nuovo, che adesso è nato.

Fu quella la grande assemblea degli uomini riportati in vita, attraverso il dolore, dall’Amore. Era l’immagine che ci schiudeva la rivelazione e la gioia di quel gran miste­ro di cui è protagonista la comunità degli uomini nuovi, quella che chiamano Comunione dei Santi, sconfitta della morte, trionfo della Vita. Un Popolo fino a ieri umiliato, flagellato, schernito, crocifisso, un Popolo di Dio era resuscitato. Dio si era fatto Vita nella storia dell’Uo­mo.

E questo è la Rivoluzione. Sconfiggere la morte, distrug­gere il vecchio, costruire il nuovo. Un Popolo in cammino, spinto dalla forza travolgente del Sangue, dalla coscienza incontenibile di cominciare a essere libero. Nessuno lo potrà trattenere. Un Popolo si impadronisce della propria storia, scopre, possiede e gode la ricchezza che porta den­tro di sé, il patrimonio della sua ancestralità cristiana, della terra su cui è vissuto fino a ieri da schiavo. Perfi­no i fucili, da secoli seminatori di morte, ora, in mano al Popolo, si eleveranno a proteggere la nuova Vita che nasce con la Rivoluzione.

E’ lo Spirito di Dio, nella gioia dell’Uomo Nuovo, che si libra, come al principio dei tempi, su ogni angolo del Ni­caragua libero. Quello Spirito che, attraverso il Sangue dell’uomo, lo farà tutto nuovo.

Ha il vescovo Salazár non si accorse di ciò. Forse nem­meno lo sospettò. Lo stesso dovette succedere all’arcive­scovo Obando che, a quanto dicono, stava osservando la fe­sta del Trionfo in disparte, da una finestra del vecchio Palazzo Nazionale – quel palazzo ribattezzato da Gabriel García Márquez “Partenone bananiero”.

Era forse un segno, un sintomo sinistro, il fatto che i vescovi stessero osservando quella irruzione di Vita, quel Trionfo di Amore, dalla prospettiva delle vecchie struttu­re di oppressione?

Se questa era l’interpretazione da dare agli atteggiamen­ti di Obando e Salazár, una grossa ipoteca avrebbe gravato sulla gioia del Popolo di Dio per gli anni a venire. Il problema più grosso per il Popolo di Dio protagonista del­la sua Rivoluzione.