di Luisa Catanese

Fraternité CataneseLa memoria percorre strade tortuose. Arrivata alla meta non vi soggiorna per sempre. Dimentichiamo, ritorniamo sui nostri passi, spesso non ricordiamo la via, ma riusciamo a ritrovare luoghi che sappiamo di avere già frequentato, che negli anni abbiamo consumato fino a renderli al tempo stesso familiari ed estranei.
Una decina di anni fa mi capitò di parlare di 1984 di George Orwell a ragazzini delle medie. A casa ripresi in mano questo libro, che avevo letto, solo in parte, da studente, dopo averne discusso al liceo durante l’ora di storia, proprio nell’anno 1984.

«Quindi la faccia del Grande Fratello disparve a sua volta e i tre slogan del Partito, invece, apparvero a lettere cubitali:

LA GUERRA È PACE
LA LIBERTÀ È SCHIAVITÙ
L’IGNORANZA È FORZA

Ma la faccia del Grande Fratello, tuttavia, sembrava persistere per parecchi secondi sullo schermo, come se la sua impronta, lasciata sulle pupille di tutti, fosse troppo viva per essere cancellata immediatamente. La donnetta dai capelli color sabbia si gettò riversa sullo schienale della sedia che le stava di fronte. Con un tremulo bisbiglio che parve quasi un “O mio Salvatore!” essa tese le braccia verso lo schermo. Quindi seppellì il volto tra le mani. E fu chiaro che s’era messa a pregare».

L’inizio del libro, mentre lo leggevo con l’intento di rintracciare un’impronta di un passato che non vuole passare, un’immagine rifratta del nostro paese e delle guerre più recenti, mi suggerì questo commento, che poi pubblicai su una rivista.
«Quando la guerra viene definita intervento umanitario e operazione chirurgica, quando si chiama effetto collaterale l’uccisione di civili inermi, quando qualsiasi progetto, intenzione di combattere e superare i rapporti sociali ed economici del mondo presente, affinché gli umani non siano servi, strumenti e merci di altri umani, è indicata come via all’inferno e alla schiavitù, non si deve aspettare a lungo per sentirsi dire e quasi convincersi che l’ignoranza di sé e degli altri, la perpetua distrazione, il consumo smemorato, la sonnolenza digestiva, un’esistenza da sonnambuli, il marciare in truppa al suono di un jingle pubblicitario siano gioia di vivere, prosperità sociale, anzi forza.
Quando finalmente la guerra sarà pace, la libertà schiavitù e l’ignoranza forza, il titolo di un romanzo sulla società totalitaria, utopia negativa del XX secolo, potrà dar nome a un nuovo programma televisivo che ci guidi con dolcezza al nulla quotidiano».
Non riesco a rammentare se quando scrivevo queste parole ero consapevole di creare un piccolo mondo parallelo, piuttosto simile a quello da cui scrivo ora, un mondo in cui il titolo del romanzo più famoso di Orwell è The Big Brother invece di Nineteen Eighty-Four. Non mi importa stabilire se si trattasse di un lapsus o di una scelta, di una sorta di lattice verbale per agguantare rifiuti tossici. Non importa. Ho ricordato un testo scritto un decennio fa perché proprio in quelle pieghe, per l’ultima se non l’unica volta in vita mia, avevo infilato una parola, sonnambulo, di cui mi ero appropriato, qualche anno prima, dopo averla messa a fuoco come parola chiave, come figura centrale di un testo di Franco Fortini, l’autore su cui ho scritto la tesi di laurea.
Sulle poesie di Fortini avevo discusso la tesi un martedì 14 luglio, il giorno della Presa della Bastiglia. L’ho ricordato pochi giorni prima di comprare un libro che sento il bisogno di leggere, un romanzo che si svolge durante la Rivoluzione francese, L’armata dei sonnambuli.

Ho comprato il romanzo di Wu Ming che si intitola L’armata dei sonnambuli. Vorrei cominciare subito a leggerlo, ma la parte più severa della mia mente mi ha imposto di aprirlo solo verso la metà di giugno, quando comincerò a lavorare meno, o magari alla fine del mese, quando sarò già in ferie.
Finché studiavo all’università, ogni sera andavo a letto tardi e mi svegliavo tardi al mattino. Adesso la sera ho sonno, troppo sonno per leggere un romanzo lungo senza frantumarlo tra sera e sera e ancora ogni singola sera nel mio dormiveglia.
Non lavori in miniera o in fabbrica, mi dico. Apparecchio e sparecchio, riempio e svuoto lavatrici, apro e chiudo finestre, faccio spesa e colloco le merci in dispensa e in frigorifero. Non lavo mai la macchina, ma pulisco ogni giorno tavoli o lavandini. Certi pomeriggi vado a prendere mio figlio a scuola e sto con lui ai giardini pubblici. Non so quando finisce il lavoro e inizia il riposo. Lavoro a scuola, compilo e correggo a casa le verifiche, emendo o glosso i libri che i miei alunni dovranno studiare, leggo qualche articolo, scendo in apnea di fronte a questo schermo o, molto più raramente, sul divano, davanti allo schermo più grande. Certe notti, quando mio figlio è già addormentato, riesco a leggere. Non di rado dopo quattro pagine mi cade la testa sul libro.
Prima che si dorma devo ricordarmi chi sono. Ecco la genealogia della morale di stasera, la mia preghiera della buonanotte. Mi sono educato a svegliarmi la mattina presto senza provare rancore per la libertà di quelli che ora ripetono la libertà della mia giovinezza. Possiedo la casa in cui vivo anche perché alcuni miei antenati hanno lavorato per una vita, e ancora lavorato, in nero, dopo il lavoro. Posso permettermi un lavoro retribuito a tempo parziale perché ho una casa. Guadagno circa dieci euro all’ora, quasi il doppio della mia compagna. Mi compiaccio di recuperare razioni dell’unica vita che abbiamo, cedendo lavoro e reddito a chi ne ha più bisogno. «Sono il tuo datore di lavoro», dico ai colleghi e alle colleghe precari. Non pretendo di essere buono solo perché non estorco una quota del loro reddito. Mi persuado di essere decente se penso che un Berlusconi, votato da milioni di berluschini, ci ha governati. L’amor proprio, la minuscola virtù che presumo di intravedere mentre mi taglio la barba sono il modo più facile per sputare in faccia a quei milioni di miei connazionali.
Da qualche tempo, diceva qualcuno, siamo insonni quando vogliamo dormire e ci assopiamo quando dovremmo restare svegli. Non mi lamento, non è sempre così.
La mia compagna esce dalla camera di nostro figlio. Tra poco dormiremo tutti. Dall’ombelico dei miei sogni, fradici, sbucheranno i roditori della Storia. Mi sono laureato sedici anni fa, il giorno della Presa della Bastiglia. Questa sera ho sonno, ma presto, molto presto, lo giuro, leggerò L’armata dei sonnambuli. Mi aspetto di trovarci anche l’altra metà del cosiddetto suffragio universale, la canaglia, il volgo disperso che nome non ha; le periferie, le chiaviche, i depositi alluvionali, i teatri profondi della storia; i limiti scuri della nostra vita, la follia.
«Quand’ero studente, gli anni fuori corso all’università, con i compagni, sono stati una lotta di lunga durata contro la psichiatria: ho preferito pagare le tasse di iscrizione invece delle sedute da un terapeuta», diceva un mio amico. Quando ho scritto la tesi, ero in grado di trovare, sfogliando i suoi libri, qualsiasi frase di Franco Fortini. Ora fatico a ricordare. Prima di dormire, mentre ti vedo, professore delle medie di ruolo, seduto al tavolo su cui non riesci più a correggere le verifiche dei tuoi alunni, io voglio ricordare, voglio ritrovare alcune parole di Fortini. Anche lui, mi ripeto, da qualche parte, ma non ricordo dove, usa la parola sonnambulo. Nei suoi versi, il sonno e la veglia sono immagini insistenti. Alla fine, all’inizio, nelle fessure della sua poesia, una poesia della veglia, troviamo erbe o piccole bestie, i nostri limiti oscuri e il sonno. E questo è il sonno, edera nera…
Un mio amico, Riccardo, un nostro compagno di università, aveva scritto una tesi di dottorato su Fortini. Si uccise gli ultimi giorni dell’estate 2005. Un altro, Matteo, si era ucciso gli ultimi giorni d’estate del 1992.
Non parlo di me, caro prof. Se non hai voglia di ricordare, dormi. Li penso spesso, anche ora, mentre cerco di trovare sonnambuli tra le parole di Fortini. E pensando a Riccardo, non posso fare a meno di ricordare uno scritto di Fortini, Contro la retorica del suicidio: «Dobbiamo esserci tutti», concludeva. Ecco, ho ritrovato i sonnambuli. «I nostri sonnambuli» sono nello stesso libro, uno dei miei preferiti: Insistenze. Cinquanta scritti 1976-1984.
Lo sfoglio, ormai sveglio, e subito ritrovo parole di cui conservavo un’impronta sbiadita: «Parlo di sonnambulismo ma non è una metafora». Ricordo, prendo a rileggere la conclusione dell’articolo, che si intitola Il controllo dell’oblio, già pubblicato il 24 febbraio 1982, sul Corriere della sera, col titolo Perché non vogliamo ricordare?
I limiti oscuri della vita individuale, la storia, la politica: sì, è vero, le ombre si vendicano. Dovrei scrivere un testo di sole citazioni. Lo diceva Brecht? Mi ricordo che c’era un collage di citazioni all’inizio del Libro bianco sulla legge Reale del Centro di iniziativa Luca Rossi… Torno a leggere Il controllo dell’oblio di Fortini: memoria involontaria, surrealismo di massa, sonnambulismo, adolescenze prolungate, espropriazione del «ricordo», colonizzazione, Simone Weil.
«I nostri sonnambuli (questa è la mia conclusione provvisoria) vivono quindi nella dimensione, degradata, dell’ “estetico”».
No, torno indietro: «Come mille volte è stato rappresentato dal teatro comico, finiremo col credere che le cose siano andate in modo diverso dal vero… Sappiamo come si fa a dimenticare e a far dimenticare. Il controllo dell’oblio, ci dice Le Goff, è uno dei più spietati strumenti di potere. Ne sanno qualcosa anche gli odierni cittadini degli Imperi. L’interdetto della memoria – questa affascinante istituzione che varia di età in età e di tirannia in tirannia, fino a noi – non opera mai da solo, ha bisogno di un’altra istituzione sorella, il cui nome risale alla rivoluzione giacobina: l’amalgama. Con il principio dell’amalgama, soprattutto se introdotto o coltivato dalla legislazione, si possono estendere criminalizzazione e ostracismo a strati sempre più vasti. L’importante è che, anche se in minima misura, ognuno sia colpevole o colpevolizzabile; dunque bisognoso di dichiararsi “uomo” di qualcuno, di chiedere una qualsiasi protezione…».
Protezione, amalgama. L’amalgama, oggi, ha molteplici forme. E non sempre consiste, nella nostra piccola società, nella remissione di un debito, in uno stipendio o in una carriera.
Vado a dormire. Domani mi sveglio alle sei e venticinque.

Presto leggerò L’armata dei sonnambuli. Posso aspettare la fine di giugno, ma potrei anche iniziare domani sera, capitoletto dopo capitoletto, scena dopo scena. Non ora, però. Domani devo svegliarmi presto. Ho sonno, riuscirei a leggere solo poche pagine. Questa sera mi dispongo a rileggere, a risvegliare pagine che giacciono in qualche cella della memoria: «Qual è, oggi, la durata media di una lettura continuata?».
Torno a leggere, questa volta fino in fondo, Il controllo dell’oblio.
I nostri sonnambuli vivono nella dimensione, degradata, dell’estetico. Abbiamo bisogno di storia, di ricordo volontario: oggetti, strumenti che passino di mano in mano, che in sé contengano giudizio e scelta, che ci strappino al magma dei paradisi e degli inferni interiori. Costruire dure sequenze di una temporalità non individuale, esigere un patto fra persone e generazioni…

Ho iniziato a leggere atto dopo atto, scena dopo scena, lottando contro tutta la stanchezza sedimentata in questi dieci mesi di lavoro, ma con lento piacere, il romanzo L’armata dei sonnambuli. Se tra un paio di settimane non l’avrò finito, potrò leggere o rileggere con più agio durante le ferie, la mattina o nelle ore più pigre del pomeriggio.
Questa sera ho meno sonno del solito.
Apro un cassetto, una scatola, una busta; leggo e riascolto la voce di un vecchio amico che ora sta troppo lontano: «Per portare all’azione dieci partigiani», conclude la lettera, «occorre che essi siano in grado di separarsi subito dopo l’azione e di ritrovarsi in un luogo stabilito. Durante il periodo in cui tutti sono sciolti, ognuno è solo, potenzialmente fa quel che vuole, non ha nessun obbligo particolare, eppure si ritrova con gli altri il giorno dopo. Un’azione individuale e collettiva di questo genere richiede più energie morali di un esercito regolare».
Così penso a volte di ritrovare gli amici e le amiche, le compagne e i compagni lontani. Non mi accontento dei sentieri della memoria: ho nostalgia del futuro, di una fraternità, di una condivisione che, nella vita, nella lotta quotidiana, consenta di ricordare, capire, sentire, afferrare la materialità delle cose che, con troppa fretta, altri chiamano spirituali.
Per vie più strette e tortuose, più vive di quelle della memoria, ci incontreremo in un luogo più alto e visibile, estraneo e familiare, dove si ascolta la voce di chi non trova le parole, dove a tutti s’insegna e s’impara da tutti, anche dagli sconosciuti, forse già incrociati per strada, vicini ma estranei, presto dimenticati, per lungo tempo e ancora oggi senza nome.