copertina okÈ da pochi giorni in libreria il quinto romanzo della nostra redattrice Marilù Oliva, di cui pubblichiamo sotto l’incipit. Si intitola Le Sultane, edito da Elliot Edizioni, e segna un punto di svolta nella sua produzione: dopo averci condotto nel baratro delle devianze psicotiche e delle morti storiche con il romanzo d’esordio Repetita e dopo la Trilogia della Guerrera dedicata all’antieroina Elisa Guerra e al tema del precariato lavorativo ed esistenziale, Marilù si addentra in un nuovo progetto, il cui leit-motiv è il tempo. Si tratta di un ciclo di romanzi non seriali, svincolati l’uno dall’altro, ma che costituiscono un tassello nella recherche che da anni costituisce l’indagine dell’autrice: cos’è il tempo, al di là delle nozioni cui è giunta la fisica? Il tempo, in letteratura, si svincola dagli argini delle formule e sguscia via ancora più velocemente, ragion per cui è preda infida e Marilù non pretende di poter rispondere esaurientemente alla domanda. Però accerchia la risposta e lo fa cominciando con Le Sultane, ovvero proiettando il lettore alla fine del tempo umano, quando il tramonto si staglia all’orizzonte.
È la storia di tre vecchie – ma non solo: dei loro familiari, dei loro vicini, della loro giovinezza – ridotte allo stremo dalla solitudine e dall’invidualismo altrui. Come recita la quarta, esse: «sono abituate a non ricevere considerazione, ragion per cui, quando l’esistenza le costringe a una svolta forzata, osano quello che non hanno mai osato fare e rompono tutti i tabù. Come tre parche potenti che inseguono disperate lo scoccare del loro tempo, si muovono lentamente nell’ombra e filano i destini di chi ha tentato di metter loro i bastoni tra le ruote.
Con atmosfere nere e suscitando sorrisi amari, questo libro racconta uno spaccato sociale che abbiamo costantemente sotto agli occhi, ma soprattutto tenta di riportare quanto la noncuranza e l’autoreferenza possano lacerare la collettività, perché dimostra che se non sei nulla per gli altri, gli altri non saranno nulla per te».  (La redazione)

Qui il book-trailer.

Le Sultane

Bisogna immaginare Sisifo felice. (Albert Camus)

Guardo il mio Juri e i suoi occhi di acero, un sopracciglio inarcato, l’altro più spigoloso.

Ho scoperto che era un maschio solo alla nascita, allora non esistevano le apparecchiature che oggi contano perfino i capelli del feto. Non serve diventare mamme per scoprire la magia dei figli, basta essere donne e io, poco prima che nascessero i miei, sapevo che mi avrebbero tolto una costola.

Il tempo che passa non vale niente, tutto cambia e si sfrangia, intorno, eppure il cordone che unisce te al frammento di te si mantiene intatto. È invisibile ma, delle volte, se allunghi la mano, puoi toccarlo e palparne il ruvido. Non si tratta solo di amore. È lava di vulcano, purezza e sgomento, e non puoi rifiutarlo né tagliarlo: puoi solo permettergli l’invasione totale.

Eccola, la mia invasione totale.

Juri, il mio pezzo d’osso.

Chissà se sente la mia fatica. Ho girato come una pazza per la bassa ferrarese, le mie amiche dicono che venderei l’acqua santa al diavolo. Figuriamoci. Non è più come una volta: noi mercanti ambulanti abbiamo vita grama. La gente non butta più via i soldi, così faccio credere che quelli delle mie clienti siano spesi bene. Mi piazzo al loro tavolo, nel cuore delle case, giù un caffè, una sigaretta, e, tra una chiacchiera e l’altra, ci scappa sempre un completo matrimoniale o un lenzuolino. Forse si impietosiscono a vedere una vecchia come me capace di percorrere centinaia di chilometri in un pomeriggio, boccheggiante sulla Ford Escort diesel, e lo sanno bene, le mie acquirenti, che c’è un motivo per cui mi spezzo la schiena: ho in mente un progetto e mi servono soldi. Parecchi soldi. Imbarcarsi in un piano come il mio, a settant’anni suonati e senza sostegni monetari, non è mica roba da ridere.

Ma ce la farò, vero Juri?

Non mi rispondi?

Sai cosa ti dico?

Ora mi piego, anche se vedo le stelle da quanto mi fa male la schiena, e ti do un bacio sulla guancia. Poi lustrerò la tua foto col glassex per vetri – ne tengo sempre un po’ in borsa – e verserò secchiate d’acqua fresca sulla lapide. Non sopporto le infiltrazioni di terriccio tra le scanalature del marmo.

 

Torno a casa stanca morta, mi fermo da Carmela, al secondo piano: stavolta glielo devo dire. Avevo scelto il terzo e ultimo piano dell’appartamento in equo canone del Comune sperando nella quiete. Juri era mancato da poco, quando rincasavo volevo starmene lontana dalle voci e dedicare i pensieri ai miei morti. Il silenzio era venuto meno perché, nell’appartamento di sotto, dove abitavano i Pennascia, una famiglia di siciliani un po’ loschi, questi avevano deciso di rimpatriare nell’amata isola e di lasciare alla figlia Carmela le chiavi, pur continuando a figurare residenti qui. Furbetti, loro: non avrebbero rinunciato al diritto di prelazione per un futuro acquisto dell’immobile a prezzo ridicolo. Fatto sta che ora in quella casa si era di botto scatenato il putiferio, con musica a tutto volume e scenate da ubriachi nel cuor della notte.

I primi tempi noi del vicinato confidavamo che la situazione si sistemasse da sola. Avendo in seguito capito che di buonsenso, nella testa di Carmela, nemmeno un grammo, abbiamo deciso di farle notare le sue mancanze. Disturbo della quiete pubblica. Schiamazzi notturni. Disprezzo per il regolamento Iacp, che prevede osservanza degli orari di riposo: dalle quattordici alle sedici e dalle ventitré alle sette di mattina. Ci siamo lamentati in tutte le salse, ma Carmela tuttora se ne frega.

Quando i sipari si chiudono e i suoi amichetti se ne vanno, non è finita. Perché allora, nel momento in cui restano soli lei e Boubacar detto Bubi, il senegalese di seconda generazione che si è impiantato a casa sua, ecco: allora si danno alla cuccagna nel letto e… chi riesce più a dormire?

Io, però, ho fiducia nella cortesia. Se c’è ancora qualcosa di recuperabile, su questa Terra, bisogna lavorarci sopra: l’educazione salverà il mondo, forse. E ora che Carmela mi apre la porta assonnata e inviperita, perché costretta a svegliarsi solo alle undici di mattina, sfodero le buone maniere: «Buongiorno, Carmela».

«Che vuoi?» ringhia anche con lo sguardo.

«Sì, senti… stanotte avete fatto troppo baccano… qui non si riesce a dormire».

Si tira indietro i capelli sbuffando. Indossa una maglietta estiva taglia uomo, anche se è autunno. Le gambe nude sbucano pallide fino ai piedi a papera. L’incrocio tra una madre carina e un padre inguardabile è riuscito a radunare i difetti di ciascuno: viso scimmiesco e corpo tozzo del padre, bei capelli e sederone della madre.

Cerco un andamento materno con la voce: «Dai mo’, non possiamo andare avanti così… eh?».

Mi guarda con una faccia da schiaffi, io proseguo: «Qui siamo anziani, devi tenerne conto. Abbiamo i nostri orari, su: fai la brava».

Annuisce contrariata, fa un passo indietro, chiude la porta, non prima di aver lanciato un cenno cafone con la mano. Ci rimango male. Non ci vuole niente a farmi piangere, la mia tenuta è bassissima, così cerco un diversivo, non voglio sprecare le lacrime per una fetente come lei.

Decido di concedermi una gratificazione: anziché salire in casa, torno in macchina e mi dirigo al negozio cui sto dedicando da giorni i miei pensieri.

È gremito di gente, ma in meno di cinque minuti mi ritrovo in fila alla cassa. Rimiro in mano le scarpe decolleté Dolce & Gabbana, rosa shocking, lucide, con fiocchetto rifinito esternamente in panna e tacchetto di tre centimetri, che sciccheria. È da due mesi che le ho puntate, prima dei saldi erano inavvicinabili. Il prezzo di partenza di centocinquanta euro si è abbassato. Prima del venti, poi del trenta, poi del cinquanta per cento, fino a scendere, per questo ultimo paio, addirittura al settanta, incredibile: riuscirò a pagarle solo quarantacinque euro, un affarone. Certo, ho notato un difettuccio: la vernice della calzatura di destra è leggermente rigata sul fianco, ma non si può avere tutto nella vita.

Attendo beata in fila alle casse, queste sono le parentesi capaci di farmi dimenticare la tragedia del mio Juri. Tiepidi sollievi che durano al massimo mezz’ora. Negli altri intervalli la mia vita è pantano. Che dire di Melania, la figlia rimasta? Dovremmo stringerci forte forte, noi due superstiti alle lune storte del destino, invece viaggiamo distanti anni luce. Lei è così imprevedibile, scostante. L’avevo chiamata Melania in onore del personaggio femminile di Via col vento, una donna buona come il pane, che nulla – proprio nulla – ha in comune con quella scapestrata di mia figlia.

Chissà cosa ho sbagliato con lei. Chissà perché il suo cordone è tanto sciupato. Lei lo strattona ma, per quanto tenti di squarciarlo, non ce la farà a romperlo.

Cosa penseranno le tizie in fila del fatto che una settuagenaria acquisti un accessorio del genere? Nel dubbio, mi tampono con la mano libera i ciuffetti biondi cotonati in stile Marilyn Monroe, tra bigodini e piega ogni mattina perdo una quarantina di minuti, ma esco di casa sempre a posto. Nessuno può sospettare che fine faranno queste scarpe, supporranno che siano un regalo, magari per una nipote. La gente comune non è in grado di immaginare cosa accadrà appena metterò piede in casa: mi rimirerò davanti allo specchio con il nuovo acquisto, indossando solo la mia guêpière color carne – un pezzo d’epoca, classe 1955, ereditato da una duchessa formosa cui avevo rifilato un copriletto di viscosa, spacciandolo per seta indiana.

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