di Valerio Evangelisti

RaymondAprile

Introduzione a Derek Raymond, Aprile è il più crudele dei mesi, Meridiano Zero, 2013, pp. 300, € 15,00.

Cieli plumbei, vetrine opache di pub malfamati, solitudini, vite spezzate, desolazione. E’ questa la Londra che descrive Derek Raymond (pseudonimo di Robin Cook, 1931-1994) nei romanzi del ciclo della Factory, una stazione di polizia di Chelsea a cui Scotland Yard affida casi di omicidio di  difficile soluzione per via della loro banalità e dello scarso lustro che procurano agli investigatori. In uno scenario analogo è situato anche Aprile è il più crudele dei mesi, dove, come il lettore vedrà, l’indagine poliziesca ha importanza molto minore (l’assassino viene scoperto quasi subito) rispetto all’ambiente in cui è maturato il delitto e al contesto sociale e umano in cui si inquadra. Un contesto malato, fitto di perversioni e distorsioni che non risparmiano i centri del potere. Al contrario, ne emanano.

Ecco svelata l’anima vera del noir, termine di cui oggi tanto si abusa per classificare, specie in Italia, come “neri” romanzi e romanzetti che dovrebbero invece rientrare nella categoria del “giallo”, magari anche di qualità. Raymond, come Manchette, Ellroy, Pelecanos ecc., non coinvolge il lettore nella scoperta più o meno ingegnosa dell’autore di un delitto, ma lo conduce ben oltre, dove gli interrogativi toccano l’assetto della società e (in lui più che nei colleghi) il senso stesso dell’esistenza.

Così Raymond descrive il suo tipo di narrativa in un libro straordinario, The Hidden Files, noto in Italia come Stanze nascoste – singolare fusione di autobiografia, riflessione letteraria e, per certi versi, corso di scrittura:

“Il noir nasce quando il genere umano è spinto alla follia in un bar o nell’oscurità, descrive uomini e donne che la sorte ha spinto troppo in là, la cui vita si è contorta e deformata. Il noir affronta il problema di trasformare un piccolo, timoroso scontro con se stessi in una lotta molto più grande – quella dell’umanità contro il contratto universale, i cui termini sono impossibili da soddisfare, e dove la sconfitta è certa.”

Quella di Raymond è una letteratura (uso questo vocabolo perché l’autore lo merita) che ha al centro il dolore e la sua origine esistenziale. Vivere è già difficile di per sé; figurarsi quando si vive ai margini, dove potere e cattiveria – spesso sinonimi – possono fare della tua persona ciò che vogliono. Umiliarti, piegarti, schiavizzarti, obbligarti a un percorso che ha la morte quale esito obbligato.

Di romanzo in romanzo, il sergente senza nome della Factory esplora i gironi di un inferno che è sotto gli occhi di tutti, ma che nessuno vuole vedere. E’ un’esplorazione angosciosa, lancinante. I grandi del noir, Manchette, Ellroy, e i loro precursori, Hammett, Chandler, Thompson, Goodis, puntavano e puntano direttamente il dito sulle aberrazioni del sistema, sulle connessioni tra criminalità e potere. Raymond si spinge ancora più in là. Un sistema sporco sporca le anime. Le avvilisce, le spezza, toglie loro la scintilla vitale. Il risultato non è tanto il “nero”, quanto un grigio sporco, caliginoso. A livelli che ben pochi autori di letteratura “alta” hanno saputo rendere, e far vivere, con pari impatto.

Mi viene in mente la frase iniziale di uno dei migliori romanzi di Simenon. Quando lo lessi si intitolava, in italiano, Piove, pastorella. Probabilmente, la riedizione in corso di tutto Simenon ha cambiato il titolo, così come le nuove traduzioni ne hanno reso più elegante lo stile, rozzo e sintetico, per adeguarlo ai gusti del mainstream. Non mi importa. Mi importa quella frase:

“Pioveva nero.”

Ecco, su ogni romanzo di Raymond “piove nero”. Sono storie intrise di malinconia, talvolta esasperata a livelli difficili da affrontare per il lettore ordinario  (un titolo per tutti: Il mio nome era Dora Suarez). Raymond è il poeta del dolore diffuso, come è il poeta della città. Una metropoli niente affatto tentacolare, a meno che non si considerino tentacoli le sue periferie, in cui si sperimentano vite estreme e pericolose. Questo è il noir propriamente detto. Un lucido pessimismo a sottofondo urbano, inadatto ad altri contesti.

Resterebbero da dire due parole sull’autore. Nato da famiglia ricca, per non dire opulenta. Abbandonata dopo la seconda guerra mondiale, quando le ingiustizie sociali divennero troppo palesi per ogni animo sensibile. In The Crust on Its Uppers mise in scena una vicenda interamente scritta in cockney, il dialetto ritmato del proletariato londinese. Intraducibile, anche se in Francia ci sono riusciti. Mentre le sue esperienze da contadino in Toscana sono riflesse in A State of Danemark, dove un agricoltore britannico segue con angoscia dall’Italia le notizie di un colpo di Stato fascista nel suo paese natale.

Poi venne la Factory, poi venne Parigi, la città in cui si installò fino a farsene assorbire. La Francia è l’unico paese in cui Raymond sia stato pubblicato, e mille volte ristampato, col suo vero nome, Robin Cook. Proibito nel resto del mondo perché uguale a quello di un autore di best-seller medico-legali, efficaci ma scritti per un pubblico di bocca buona.

Raymond-Cook era geneticamente inadeguato a sfornare best-seller. Il perché lo confessa lui stesso:

“Anche se a volte cado nella disperazione, è proprio questa la sfida del noir, per come la vedo io. Io popolo i miei libri di individui perduti che non capiscono perché devono sprofondare senza un grido. Gente che, sapendo di essere stata abbandonata dalla società, la lascia in maniera violenta, mentre lo Stato se ne vergogna talmente da non parlare mai di loro.”

Tematica non ideale per chi nella lettura cerca solo distrazione. Seducente, invece, per chi coglie la complessità del vivere e la vuole esplorare. Guidato da un maestro che è il più crudele degli scrittori, ma anche il più affetto da patologica sensibilità.