di Luca Baiada (da Il Ponte, LXIX, n. 10, ottobre 2013)

[Si ringrazia la rivista Il Ponte per la gentile concessione.]

Jannacci

Il governo durerà per tutta la legislatura? la legislatura durerà per tutta la legislatura? il padrone d’Italia dal 1994, allo scoccare del suo ventennio non è più nella legislatura? i palazzi romani gli cuciranno un abito buono per una successiva legislatura? Già, la legislatura.

Di questi tempi, scrivere di legge elettorale è come guidare contromano bendato, che brivido! Intanto ascolto Enzo Jannacci, Vengo anch’io, no tu no.

Come comincia, una storia di elezioni truccate? Ahi, forse si può mettere un inizio involontario all’Assemblea costituente, perché non aver posto regole più precise si è rivelato un errore. Nella Costituzione ci sono i numeri dei parlamentari, ci sono norme, ma non c’è un solido baluardo del sistema proporzionale. Eppure la collegialità dell’esecutivo, col presidente del consiglio invece del vecchio «capo del governo», non ha senso, se le minoranze vengono schiacciate già nelle elezioni. E tutte le garanzie contano meno, se la rappresentanza politica si affievolisce. Col maggioritario, i voti non sono uguali: al posto di una testa, un voto, c’è un sistema più o meno così: molte teste insieme, doppio voto, e invece poche teste isolate, mezzo voto o nessun voto ciascuna.

Il tre dev’essere un numero critico, in Italia, per il sistema elettorale. Nel 1923 la legge Acerbo ratifica il colpo di mano, permettendo la sovrarappresentazione dei fascisti in parlamento. Nel 1953 con la legge truffa la Democrazia cristiana tenta un colpo di mano che non riesce. E nel 1993 il referendum Segni liquida il sistema elettorale proporzionale. In realtà, neppure prima ce n’era uno puro, perché vigeva una leggera correzione del quoziente (col sistema di Hagenbach-Bischoff), ed era già accaduto che un governo si reggesse coi voti di partiti che occupavano poco più del 50% dei seggi in parlamento, ma che alle elezioni avevano ricevuto poco meno del 50% dei voti.

Nel 1993 quel sistema elettorale, che permetteva anche a piccole formazioni di contare qualcosa, e agli elettori di dare la preferenza a un candidato anche se il partito l’aveva messo in coda, diventa un mostro, un capro espiatorio. C’è la corruzione? Non funzionano la giustizia, l’amministrazione, la sanità, i servizi pubblici? Ti si è rotto l’ombrello? È colpa del sistema elettorale proporzionale.

Sono dei primi anni Novanta i neologismi partitocrazia e consociativismo, con cui una propaganda monocorde, incessante, asfissiante ottiene al referendum, con l’ottanta per cento dei voti, il successo del maggioritario. Allora, le aspettative e le promesse sono enormi. Si parla di seconda Repubblica, di meritocrazia, di far vincere il nuovo. Saremo moderni, liberi, efficienti, come in Inghilterra, come in America. Avremo un governo serio, un’opposizione vera, che al momento giusto si scambieranno le parti, come gli omini di legno in certi vecchi barometri a filo. Sento Jannacci che canta: «Si potrebbe sperar tutti in un mondo migliore – Vengo anch’io, no tu no – dove ognuno sia già pronto a tagliarti una mano, un bel mondo sol con l’odio ma senza l’amore… E vedere di nascosto l’effetto che fa». Eh già.

Nel 1994 Berlusconi prende il potere grazie al maggioritario. L’allora Pds di Achille Occhetto, che alla vigilia del voto diceva di avere una gioiosa macchina da guerra, lo cucina la satira con un titolo indimenticabile: «Gioiosa macchina vendesi».

Poi, la memoria corta stenterà a riconoscere nel colpo basso del 1993 un’aggressione contro gli italiani. Si continuerà a spappagallare partitocrazia e consociativismo, anche quando maggioranze parlamentari blindate saranno capaci di provvedimenti prima inimmaginabili. E non saranno solo a favore dei privilegi e della vita oscena di qualcuno; saranno leggi contro tutti, sul lavoro, le pensioni, la casa, il fisco, la sicurezza. Praticamente non c’è settore in cui la compressione delle minoranze politiche non abbia favorito il peggioramento della vita, ma delle maggioranze sociali.

Però si continuerà ad attribuire ogni male alla politica e alla mediazione, senza vedere che compromessi sordidi, anche all’ombra dei patti con la criminalità, scavano un abisso fra il potere e i cittadini. Si inneggerà alla nuova efficienza, senza ricordare che proprio la governabilità, vecchio mito craxiano, aveva fatto da apripista negli anni di fango, insieme a quel «consiglio di gabinetto», istituto non previsto dalla Costituzione, ma introdotto da Craxi, che avviliva la collegialità sovrapponendovi un anomalo direttorio.

Il punto di arrivo – forse solo per ora – è l’introduzione del pareggio di bilancio nella Costituzione. In una carta fondamentale che fa del miglioramento della società il suo programma e la sua cifra di fondo, l’obiettivo del pareggio frena ogni cambiamento, ipotecando il valore propulsivo di qualsiasi disegno. Come è vero, che una classe dirigente spendacciona, corrotta, cialtrona e irresponsabile, che vorrebbe dalle istituzioni europee tutti i vantaggi e nessuna restrizione, apre le porte a ogni peggiore esito. Chiedersi se ci siano piovuti addosso prima la corruzione e il malgoverno, oppure le rese dei conti sulla pelle del popolo, è come chiedersi dell’uovo e della gallina.

Nella Costituzione si danno per scontate la lira e l’emissione monetaria in Italia. L’impegno sociale coevo al compromesso politico dell’epoca presupponeva anche la spesa pubblica, decisa da autorità responsabili e con partecipazione del popolo votante. Guarda che coincidenza, adesso i voti validi sono sempre meno, la partecipazione alla politica è confusa, la spesa è sempre meno sociale, eppure resta elevata. Intanto, un’ideologia senza nome accusa di corruzione qualsiasi rapporto fra votanti e denaro, mentre la classe dirigente è sempre più corrotta per davvero, e al popolo è stata sottratta la possibilità di influire sulla redistribuzione della ricchezza, un elemento indispensabile per un’Italia moderna. È stato consumato un furto di cittadinanza, e chi lo denuncia è tacciato di materialismo, disonestà, consociativismo, statalismo, populismo, apologia del voto di scambio e chissà cos’altro.

I passaggi giuridici, attraverso lo snaturamento delle elezioni e lo strangolamento della spesa, sono chiari. Ma al solito, ciò che si svolge in tempi lunghi è difficile da percepire. Il sistema proporzionale volge al maggioritario col referendum Segni del 1993. Il quinquennio di centrosinistra e dintorni, dal 1996 al 2001, convive col maggioritario invece di ripudiarlo, e alla fine del successivo quinquennio di destra la legge elettorale viene peggiorata, sempre in senso maggioritario (qualcuno se ne vanta chiamandola «porcata»). La nuova legge è una trappola, ma neppure il centrosinistra la spezza, e la legislatura termina con largo anticipo. Berlusconi torna al governo nel 2008, e nel frattempo cattiva spesa, malaffare e disaffezione alla politica hanno talmente avvelenato tutto, che neppure il suo esecutivo regge sino alla fine, e un nuovo governo impone misure ferree. Il pareggio di bilancio viene inserito nella Costituzione, senza dibattito e con votazioni umilianti: una manciata di astenuti e neppure un voto contrario. Una decisione presa senza dare spazio alle parti sociali, ma interpellando accademici, professionisti e persino un alto burocrate tedesco. Nell’approvazione alla Camera, si segnala l’intervento del ministro per i rapporti col parlamento, che esordisce coi versi della Sonnambula di Bellini: «Vi ravviso, o luoghi ameni». Non era mai accaduto che modifiche importanti passassero così.

Maggioritario, concentrazione di potere, impoverimento, superficialità culturale. Tutto collegato: in una società moderna poche leggi hanno un senso senza la spesa per sostenerle. Intanto le segreterie di partito decidono chi candidare, senza preferenze, e le formazioni più grandi sono sovrarappresentate e circondate da un clima di impunità. L’arretramento sociale e istituzionale, verso una società bloccata e perdente, si vede: leggi e istituzioni non servono a spendere né a migliorare, ma a conservare l’ordine, i partiti sono gruppi di orientamento controllati, e i diritti elettorali sono apparenti. Al popolo italiano si ripete no tu no.

Eppure, quando si vota col proporzionale la differenza si vede. La modifica della Costituzione tentata dalla falsa maggioranza berlusconiana, frutto taroccato del maggioritario, al referendum che nel 2006 si svolge invece col proporzionale, viene respinta. Persino chi dovrebbe inalberare quella vicenda come una bandiera, si vergogna di ricordarla.

Perno di tutto questo è l’affossamento della partecipazione alla politica, con gli inevitabili compromessi, le ambizioni e i sotterfugi. Aver colpevolizzato le bassezze e le manovre, trasformando lo stesso modello partitico in qualcosa di sporco, ha illuso che la politica potesse diventare un’astrazione, un’entità così mistica che non vi si sarebbe depositata neppure la polvere. L’esito è selvatico: niente più homo partiticus, soltanto homo lupus.

I partiti, questi fossili. Certi miei amici, studenti a Heidelberg, vennero a Roma negli anni Ottanta, e cenarono in trattoria a Campo Marzio. Sapevano poco l’italiano, ma credevano di rimediare col latino di scuola. Forse avevano in mente Giulio Cesare, con la Gallia divisa «in partes tres…». Ognuno voleva pagare per sé, e chiedevano un «Konto partito, bitte!». Unto e imperturbabile dai tempi della Suburra, l’oste non aveva nulla in contrario: «Partito, sì, vabbè…», ma quale partito avrebbe saldato la cena? Loro volevano dividersi il conto, lui trovava normale che mangiassero a spese d’altri. Tornarono a Heidelberg sapendo una parola in più: separato.

Ecco un etimo fasullo. A parole i partiti sono separati, ma servono a unire. Nei fatti, prodigio di un sistema baro, oggi non tutte le formazioni politiche ammettono di essere partiti, e aggiungono cauti distinguo. Soprattutto, servono a dividere fuori delle aule del potere, ma sulle questioni di fondo, là dentro si ritrovano poco distanti. Verrebbe voglia di ripercorrere il concetto di «rivoluzione passiva», e di chiedersi se in Italia ci sia ormai una democrazia passiva, in cui le strutture della rappresentanza sono svuotate, le parole d’ordine della contestazione servono a ribattere i chiodi sulla carne di chi sta peggio, e si fatica a trovare uno schieramento che non si risolva nello stare fermi.

Ogni cosa si semplifica. Il bipolarismo dal 1993 è stato presentato come il toccasana. Due poli, due fronti contrapposti, e la politica diventa chiara, limpida, pulita. Adesso un unico sistema valoriale liquida anche il bipolarismo, arnese vecchio; ma il maggioritario, resta. È caduta la maschera: temevate che si potesse contare solo fino a due? Niente paura, conterete fino a uno.

Insieme all’impoverimento dell’elettorato attivo, quello di chi vota, c’è quello dell’elettorato passivo. Per essere eletti non basta neppure stare dalla parte vincente, occorre essere uno yes-man, o una yes-woman, e va ancora meglio se la mancanza di preparazione previene qualunque sorpresa. E anche fra gli eletti, molti diventano voti pilotati. Il ricorso alla fiducia su provvedimenti concertati con le segreterie è sempre più frequente. I regolamenti parlamentari sono applicati in modo da far parlare il relatore, i capi dei gruppi e pochi altri. Chi segue i dibattiti delle Camere sente discussioni poverissime, con gli esclusi che si ingegnano a inventare mozioni d’ordine, che si arrochiscono a illustrare dichiarazioni di protesta e inesistenti voti in difformità dal gruppo, per strappare all’uditorio qualche attimo di attenzione. Attimi subito spenti, perché l’aula borbotta, si distrae o si svuota.

Anche l’elettorato passivo è svilito, e il fatto che sia ben remunerato aggrava la situazione. A vederli vicini, l’elettorato passivo e quello attivo, con dentro il palazzo la politica trasformata in mestiere robusto, e fuori il lavoro mal pagato, lo svuotamento sembra procedere di pari passo, anche se naturalmente la situazione è scomoda solo per alcuni. Ma il no tu no, è quasi per tutti.

Possibile, che questo non cammini di pari passo con la società e la vita? Si vede tutti i giorni. L’io non esiste senza il noi, e l’io dissociato che percorre l’Italia contemporanea è fatto anche di questo, di una miopia cinica, gelida eppure chiassosa e caricaturale, effetto e insieme causa dell’impossibilità di cambiare le cose, del fatto che non si riesce a contare davvero, che si è crocifissi alla cronaca e sconsolatamente derubati della storia. Chi non riesce nemmeno a dirlo, si copre di tatuaggi o scarabocchia i muri e le pensiline dell’autobus.

E l’amore, e l’amicizia – in politica non se ne parla, ma sono atti sociali e comuni – non sono sporcati anche loro dallo sradicamento, dall’espulsione? Il precariato erotico e sentimentale si aggrappa allo spaesamento come i pidocchi ai cenci del reietto, insieme al fatalismo e allo stordimento. Aveva ragione Paolo Volponi, nelle Mosche del capitale: «Tutti quelli che bevono, si drogano, prendono tranquillanti, vanno dai maghi, litigano con la moglie e i figli, vanno a puttane o chiavano con la vicina o la cognata, sono quelli che lottano contro il dolore, ma non ti daranno mai retta. Come non ti daranno mai retta i tifosi di calcio, i patiti delle carte e del biliardo e delle bocce». Certe italiane inquietudini non sono castighi, ma conseguenze del fatto che non siamo più corpi, e per vederlo basta cercare quel che resta di umano, a un semaforo o in un’aula del potere.

C’è poi l’effetto combinato dello svuotamento dei diritti politici e della presenza del papato in Italia. Se sino agli anni Novanta si riusciva a mediare qualcosa, dell’appetito vaticano, strappando un minimo di autonomia per lo Stato e la società, adesso la debolezza di formazioni piccole o labili, che si affrettano a dichiararsi timorate, permette al papato di tenerle tutte in scacco, in una gara a chi lo compiace meglio. L’avvicinamento delle formazioni politiche, in un unico sistema valoriale che fa appello al corpaccione sociale dell’Italia profonda, non poteva portare che a questo, ed era facile prevederlo.

Basta col No tu no. Anche guidando contromano bendati, ci si annoia. Ancora Jannacci, ma Ho visto un re: «E sempre allegri bisogna stare, che il nostro piangere fa male al re, fa male al ricco e al cardinale, diventan tristi se noi piangiam…»