di Antonella Festa (di incroci de-generi)

immagine1Come è noto, il termine “femminicidio” viene coniato per connotare le uccisioni seriali verificatesi a Ciudad Juarez, in Messico, a partire dagli anni 1993/1995, quando svariate centinaia di donne cominciarono ad essere uccise  tutte secondo una stessa modalità: donne esili, dai lunghi capelli neri, povere, soprattutto lavoratrici, più di rado studentesse,  violentate, torturate, accoltellate o strangolate ed il loro cadavere  abbandonato nel deserto. Spesso, le vittime si assomigliavano, i loro corpi ed i loro vestiti venivano ritrovati in posti diversi, oppure con indosso abiti che appartenevano ad altre donne scomparse. Molte di loro erano appena arrivate dalla città, nessuno le conosceva né ha reclamato i loro corpi. La polizia stessa non si è scomodata troppo per le indagini, così gruppi di femministe e di attiviste/i si sono fatti carico di redigere una lista di disperse, di investigare e di analizzare la serie di femminicidi.

Nel 1999 Ursula Biemann, artista, teorica e curatrice di studi su migrazioni, genere e tecnologie, ha realizzato un video-documentario dal titolo Performing the border, girato al confine tra Messico e Stati Uniti, dove le corporations americane hanno installato  stabilimenti per l’assemblaggio di componenti elettroniche e digitali. Nella forma dell’inchiesta, Biemann intreccia diverse fonti: interviste con lavoratrici, prostitute, attiviste, giornaliste, intervallate dal commento dalla voce fuori campo della regista, da filmati e immagini d’archivio. Il documentario, diviso in quattro sezioni, apre con la presentazione della frontiera Usa-Messico in quanto area geografica e spazio performativo, prosegue con le condizioni di vita e di lavoro delle donne, il mercato del sesso e, infine, i femminicidi. Nel 2001 Biemann è ritornata sul documentario per scriverne un breve saggio nel quale ha enfatizzato la connessione tra tecnologia e una frontiera resa altamente performativa sia  dalla rappresentazione discorsiva delle due nazioni, sia dalla cultura tecnologica della ripetizione, registrazione e controllo introdotta dal lavoro di assemblaggio svolto nelle maquiladoras, imprese a capitale estero, per la maggior parte statunitense, che però contrattano, esentasse, manodopera locale a basso costo.

L’interesse di Ursula Biemann non è raccontare tragedie personali, ma  analizzare come il confine, da astratta metafora delle diverse forme di marginalità, diventa una materializzazione delle stesse non solo nell’architettura spaziale, ma anche nell’ organizzazione sociale.  In particolare, la videomaker  focalizza l’attenzione sulla mobilità dei corpi  delle donne in un’area transnazionale e sulle  relazioni razializzate e genderizzate nella politica riproduttiva delle maquiladoras, ma anche nell’industria del divertimento e del sesso, evidenziando il potenziale sovversivo delle sfaccettate identità di confine. Infine, Biemann propone una lettura dei femminicidi seriali di Ciudad Juarez, tentando di rivelare come i  nessi tra politiche urbane, violenza sessuale di natura seriale e tecnologia convergono, attraverso profonde stratificazioni, nel significato psico-sociale della frontiera.

Ogni giorno centinaia di donne, per lo più giovani e giovanissime, attraversano la frontiera spostandosi da El Paso, Texas, a Ciudad Juarez. Queste donne, che rappresentano  la maggioranza della popolazione dei paesi di frontiera, hanno creato nuovi spazi di vita e di consumo, hanno cambiato strutture sociali e relazioni tra i generi e in questo modo hanno riscritto le regole dei  corpi e della  società. Sono queste donne a produrre gli strumenti che rendono possibile il cyberspazio,  la mobilità e la libertà di consumo, una libertà che non è goduta da loro, ma dai milioni di consumatori che vivono al nord della frontiera. La loro mobilità rimane confinata nei limiti della “free zone” concessa dalla produzione post-fordista. Queste donne sono i nuovi membri del transnazionalismo, ma la loro cittadinanza funziona in maniera assai differente da quella del consumatore transnazionale, che vive a nord del confine.

L’idea di transnazionalismo è generalmente associata con quelle di lavoro delocalizzato, reti di comunicazione globale, libero mercato e la sensazione positiva di poter essere in più luoghi contemporaneamente. Ma il transnazionalismo che ha profondamente mutato le rurali condizioni di vita messicane è lo stesso che ha trasformato lo schiavo coloniale in un robot post-fordista che monta microcircuiti in una produzione continua.

MARGINI COMUNICANTI

immagine2 Attraverso il linguaggio delle compagnie offshore ogni attività, struttura o persona può essere definita in termini di smontaggio e rimontaggio. I termini utilizzati per il lavoro di assemblaggio sono stati trasferiti sui corpi dei soggetti che svolgono tali mansioni. La maquila woman, in particolare, viene tecnologizzata da una terminologia che frammenta e disumanizza il suo corpo e lo trasforma  in un componente usa e getta, sostituibile, commerciabile. Solo ai corpi che si rendono commerciabili, sostituibili, trasformabili in merce e riciclabili, saranno concessi visti di ingresso che permettono una certa mobilità transnazionale. Gli annunci di lavoro, prima di ogni cosa, funzionano come tecnologia di sorveglianza, esibendo dei geocorpi, ossia corpi trasformati in un’allegoria in cui si intrecciano processi di razializzazione e genderizzazione della forza lavoro, subordinata agli interessi delle compagnie. Ne sono riprova gli annunci come quelle della “Elamex communications”, in cui donne dall’aspetto per così dire azteco, in costume tradizionale, si rivolgono ad un possibile cliente in un codice facilmente comprensibile, che capta il desiderio di taglio dei costi, esenzione dalle tasse,  facile riconversione, avviamento veloce.  In questi termini il lavoro è ridotto unicamente ad una cifra, peraltro bassa, ed è rappresentato in forma  spersonalizzata, quantificabile come unità, alla stregua di un qualsiasi altro incentivo offerto per attrarre i produttori nella free zone.

Storicamente, il corpo delle donne ha incapsulato il desiderio di conquista. In particolar modo, i clienti americani hanno bisogno di  essere rassicurati del fatto che quei corpi non sono fuori controllo. Gli annunci insistono nell’assicurare una forza lavoro femminile addomesticata, docile, affidabile e disciplinata. Le  mani curate soddisfano gli standard dell’azienda; il volto esprime serietà, concentrazione e precisione, la postura non tradisce emozioni. In breve, la donna  rappresenta la riproduzione in sé ed il suo corpo, inscritto in una funzione robotica, è stato completamente tecnologizzato. Così, la connessione normativa tra “femminile” e “naturale” è stata rimpiazzata da un’incerta mistura di “naturale” e “tecnologico”. In questo groviglio di meccanica e genere, il “naturale” corpo femminile è disarticolato, inscritto nella macchina e incorporato di nuovo in qualità di occhio o  mano del corpo unico aziendale.  Questo accade a quelle parti del corpo per le quali una maquila woman viene affittata, cioè i suoi occhi e le sue mani, perché la produzione digitale e della microelettronica richiede sia  grande precisione ottica sia prontezza tattile. Ma le sue componenti biologiche sono anche ciò che la rendono estremamente fragile e vulnerabile, poiché la sua vista è precisa per qualche anno, dopo di ché dovrà essere rimpiazzata da un’altra giovane e fresca lavoratrice. La maquila woman appartiene ad un processo di periodica sostituzione di pezzi e, pertanto, ha bisogno di essere continuamente riciclata.

TECNOLOGIE DI CONTROLLO

Le tecnologie del controllo della frontiera e  del lavoro  installate a Ciudad Juarez rendono violentemente ovvie le relazioni tra l’atto del vedere, la sorveglianza, il potere ed i corpi. L’organizzazione del lavoro è fermamente proibita a Ciudad Juarez e una delle ragioni per cui le maquiladoras preferiscono lavoratrici è che queste sono ritenute più docili e meno inclini ad organizzarsi attraverso sindacati. Quindi, poiché sin dall’adolescenza le ragazze sono spesso le uniche in famiglia con un’entrata economica,  grande è la pressione dai membri della famiglia sulle stesse affinché siano accondiscendenti con le condizioni esistenti di lavoro per salvaguardare il loro impiego. Insomma, la maquila è programmata per accordarsi con lo stampo prevalentemente patriarcale della famiglia.  In ogni caso, negli anni recenti l’intera area industriale è stata interconnessa con un computer network, e gli stabilimenti  hanno compilato liste nere con i nomi delle persone indesiderabili, a cominciare da assassini, delinquenti e nemici della maquila, cioè chi cerca di alterarne le condizioni di produzione. Le donne hanno paura di perdere il lavoro a causa di una benché minima disobbedienza, hanno paura di non essere in grado di trovarne un altro e di farne ricadere le conseguenze sulle loro famiglie.

Per il governo messicano l’economia che si fonda sulla maquiladora è estremamente importante  in quanto si colloca ben al di sopra di ogni altro introito derivante dal petrolio o dal turismo. Così, il governo chiude un occhio sugli interessi della maquiladora e la massiccia presenza militare statunitense non serve solo a impedire che gli “illegali” attraversino il confine, ma anche a proteggere il gigantesco investimento industriale degli Stati Uniti sul territorio messicano.

La gestione del tempo è un altro efficace mezzo di controllo. Prima dell’alba, la lavoratrice lascia la sua abitazione in periferia, cammina fino alla stazione degli autobus in centro e viaggia per un’ora fino alla maquila per fare il turno delle 6. Passa 9 ore in fabbrica e torna a casa nello stesso modo.  Non viene lasciato  tempo per vivere, né per pensare, né per organizzarsi.

In un sistema di lavoro  collegato elettronicamente, ogni individuo è identificato e schedato. Il tempo, la produttività e il corpo delle lavoratrici delle maquiladoras è strettamente controllato spesso da manager bianchi di sesso maschile. Il controllo del corpo procede fino al punto da richiedere cicli mensili di esami per verificare che la lavoratrice non sia incinta. Il controllo forzato delle nascite e i test di gravidanza sono all’ordine del giorno  e, non c’è bisogno di dirlo, una gravidanza significa il licenziamento immediato. La riproduzione di questi corpi è strettamente sorvegliata dal momento in cui si stabilisce che essi debbano essere produttivi.

La veloce industrializzazione ha imposto trasformazioni piuttosto violente  tra le pieghe dei registri dello spazio pubblico e di quello privato, tra il lavoro e la fabbrica da un lato e la famiglia e la casa dall’altro, e, più in generale, tra l’economico ed il sessuale. In Messico, come altrove, questi registri sono stati tradizionalmente scissi lungo le linee della differenza sessuale, perché, tradizionalmente, le donne si prendono cura della casa mentre gli uomini sostengono economicamente la famiglia. Ciò che Juarez ha conosciuto in un breve lasso di tempo è stata la fusione tra la sfera privata, femminile, lo spazio domestico della riproduzione  e la consunzione di quella pubblica, lo spazio maschile della produzione. Con l’assumere prevalentemente giovani donne questi modelli tradizionali sono stati forzatamente trasformati e, ovviamente, non senza conflitto. Dunque, non meraviglia il fatto che la lavoratrice emerga come la figura centrale di questo conflitto, dal momento che incarna le due funzioni di produzione e riproduzione. È lei a concretizzare il problema che deve essere contenuto e gestito ed è a partire dal NAFTA che la frontiera ha materializzato il conflitto medesimo.

SESSUALIZZARE IL TERRITORIO

A Ciudad Juarez il lavoro non è soltanto femminilizzato, ma anche sessualizzato. Per una giovane donna in cerca di lavoro, infatti, si danno tre opzioni: diventare un’operaia dell’assemblaggio; se non è assunta in fabbrica perché non ha le conoscenze minime richieste, può diventare una domestica; se non ha le referenze necessarie, l’unica possibilità di lavoro è quello sessuale. Spesso il lavoro in fabbrica non è la fine della storia, perché i salari bassi costringono molte donne a cercare un’entrata supplementare prostituendosi nei week end. Così, il mercato del lavoro e quello del sesso si compenetrano in tale assetto economico. Pertanto,  la prostituzione non è semplicemente una parte o un servizio esentasse di una serata di baldoria, ma un elemento strutturale del sistema capitalista. Inizialmente, le donne offrivano servizi sessuali a chiunque potesse pagarli, poi la situazione si è evoluta in industria del divertimento ed è interessante sottolineare che a Juarez, dove la prostituzione emerge dall’economia della maquila, i distretti del sesso non hanno mediatori.

immagine3 Nel discorso ufficiale dei media, il confine è sempre rappresentato come luogo di delinquenza, depravazione e prostituzione, un magnete per tutte quelle soggettività che non rispondono agli standard morali della società, ma i media raramente sprecano anche una sola parola sul fatto che queste condizioni sono generate dall’industria della maquila, la quale implementa  quel piano di una zona franca designato e segnato dagli enti amministrativi di entrambe le nazioni e dalla gente del Dow Jones.

Alla frontiera, le identità si formano e collassano di continuo, diventano conformi e trasgressive. Ed è cosi che la sessualità è diventata il campo in cui il desiderio dell’espressione di sé e i dispositivi di controllo cozzano violentemente. Migliaia di lavori di assemblaggio sono stati creati nel deserto e le donne ne sono le addette. Poiché le relazioni tra i generi sono in larga misura determinate dall’economia, la trasformazione di quest’ultima, e soprattutto il fatto che il reddito dipenda dal lavoro delle donne,  ha avuto un impatto immediato nel modo in cui le donne si relazionano agli uomini. Per questa ragione, le donne hanno acquisito una maggiore autonomia sulla loro sessualità. Così, il fatto che le donne siano coloro che guadagnano e garantiscono un reddito alle famiglie ha fatto sì che queste guadagnassero potere anche nelle loro relazioni, ha reso possibile l’aperta espressione del loro desiderio sessuale ed ha affrancato il soddisfacimento del desiderio da significati economici o tradizionali quali, per esempio, ambienti domestici o percorsi sentimentali ed esigenze riproduttive.

TECNOLOGIE DI SOPRAVVIVENZA

immagine4 Il continuo movimento diasporico delle donne nello spazio transnazionale attesta la loro flessibilità, resilienza e resistenza. Spesso sono molto giovani, 13/15 anni , quando lasciano le loro famiglie per andare a lavorare al confine. Una volta arrivate, non trovano sistemazione perché gli investimenti municipali sono rivolti solamente ai transnazionali, ma non alle persone che lavorano per loro. Così cercano un posto libero, spesso lontano dagli stabilimenti e costruiscono baracche nel deserto con avanzi delle maquiladoras. Alcuni definiscono queste procedure “invasioni”, perché le migranti occupano un posto, ci edificano e aspettano i documenti per regolarizzare le  case, ma questa, seppur irregolare, è l’unica via per arrangiare una sistemazione. Ecco quindi lunghe strisce di territorio dove vivono essenzialmente donne, strade di sabbia, senza illuminazione e trasporti pubblici. Non è inusuale vedere giovani maquila women muoversi nei quartieri sorti nel deserto con addosso le protesi che le proteggono dalle cariche elettromagnetiche che corrono nei loro corpi durante il lavoro di assemblaggio, protesi che trasformano i loro corpi in banchi da lavoro. La vita al confine insegna alle sue abitanti a tener testa alle contraddizioni, a cambiare quotidianamente abitudini e adottare molteplici strategie perché la flessibilità è una questione di sopravvivenza. È questa una vita perennemente in transizione e la  lotta per la sopravvivenza è un buon punto da cui iniziare. Il coraggio di resistere alla situazione è un desiderio che eccede il potere. Non pretende di sconfiggere l’oppressione o di avere la meglio, ma solo di sopravvivergli.

IDENTITÀ TRASGRESSIVE – LA STORIA DI CONCHA

Anche le più sofisticate tecnologie di controllo hanno crepe e falle, esistono brecce alla difesa del confine e piste che conducono nella valle del deserto. E’ qui che, di notte,  alcune donne aiutano altre, incinta, ad attraversare il confine, perché partoriscano figli nati in America con la speranza di poterli usare per ottenere benefici in territorio americano.  La storia che segue parla di soggettività nomadi, trasgressive, che, nelle loro traiettorie, esprimono un desiderio altro rispetto ai processi di normazione cui sono sottoposte.

Concha viveva in una delle baracche fatte di materiali di risulta delle maquiladoras. Ad un certo punto, quando il marito la abbandonò, si rese conto che una donna incinta non aveva chances di trovare lavoro a Juarez. Qualcuno le disse che avrebbe potuto vendere sigarette a basso costo negli USA  perché non avrebbe pagato tasse e così cominciò il suo commercio. In seguito, approfittando dell’abilità con cui riusciva ad attraversare la frontiera eludendo i controlli, diventò una wetback, cioè cominciò, dietro compenso, ad aiutare altri, spesso donne che volevano partorire in America,  ad oltrepassare la frontiera in maniera “illegale”. Concha e la sua storia di trasgressione è una radicale contraddizione ai docili, riconoscibili, maneggevoli corpi presentati negli annunci della Elamex. Concha attraversa il confine, muovendosi dentro e fuori la legalità. Questo attraversamento non si dà una volta per tutte e non coincide con l’obiettivo di diventare qualcun’altra dall’altra parte. Piuttosto, si tratta di un soggetto in transito continuo, che si muove attraverso la zona transnazionale cercando sempre nuove strategie per aggirare le strutture di potere che si frappongono sulla sua traiettoria clandestina. Questa soggettività si fa mediatrice e costantemente traslatrice di differenti sedimentazioni, registri linguistici e codici culturali. Non è incastrabile in un senso ordinario  dal sistema di controllo dei cittadini. Tale soggettività è profondamente sovversiva in ragione della fugace, assolutamente mobile e transitoria natura della sua attività e della non conformità a  qualsiasi programma nazionale. Con l’aiuto di Concha, il corpo gravido, materno, che ordinariamente è oggetto di un  grande interesse biotecnologico e del controllo riproduttivo, diventa lo spazio della trasgressione. È lei a condurre questi corpi dallo spazio transnazionale, dove i servizi sociali sono negati loro dai datori di lavoro, a un nuovo spazio nazionale che è ironicamente dominato dalle stesse corporations, ma dove si possono ottenere forme di assistenza proprio da loro.

FEMMINICIDI SERIALI

immagine5 Nei suoi studi sui serial killers Mark Seltzer traccia una serie di connessioni  tra violenza sessuale e tecnologie di massa tipiche di una cultura meccanizzata, cioè tra questa forma di violenza ripetitiva e compulsiva e le tecniche di produzione e riproduzione che costituiscono la cultura della macchina. In particolare, Seltzer mette in relazione i processi di identificazione, registrazione e simulazione alla disposizione psicologica del serial killer.  Anche se non viene fatto esplicito riferimento ai casi di Ciudad Juarez, l’attinenza con gli stessi è innegabile.

Seltzer attribuisce al serial killer un problema di identità: il serial killer soffre la mancanza di confini, non riesce a distinguere se stesso dagli altri e questa incapacità è immediatamente traslata in violenza lungo la linea della differenza sessuale, la differenza fondamentale che è in grado di riconoscere, scrive Seltzer  nella sua introduzione Serial Killing for Beginners. Stando alle sue approfondite ricerche sulla violenza sessuale seriale, un comune denominatore psicologico degli assassini risiede nell’annullamento dell’identità  fino al punto di diventare una non-persona, fino al desiderio di dissolversi nell’ambiente circostante.  Abbiamo già visto che c’è una particolare permeabilità tra i corpi e l’ambiente a Jaurez, dove  le costruzioni si disperdono nelle strade non asfaltate. Il delitto viene compiuto spesso all’alba, quando la distinzione fra giorno e notte non è chiara ed i confini fra le case abitate, le strade polverose ed il deserto sono indistinguibili.  Nelle prime ore del giorno, un gran numero di donne attraversa questi spazi indefiniti in direzione delle maquiladoras, in transito dallo spazio privato a quello lavorativo, tra deserto e urbanizzazione. La frontiera, dunque, è una gigantesca metafora di concetti divergenti e, nello stesso tempo, il luogo dove il venir meno delle distinzioni si esprime in forme violente. A livello di rappresentazione, le immagini usate dalla Elamex esemplificano come la tecnologizzazione del corpo femminile esprime simultaneamente i demarcatori di natura, genere, razza. Ad un livello materiale, tale processo è accompagnato dai ripetitivi meccanismi robotici del lavoro di assemblaggio, dalle profonde implicazioni del corpo con le funzioni tecnologiche cui assolve e dalla costruzione di un corpo genderizzato e razializzato. Il serial killer non fa altro che tradurre la violenza di questo groviglio in una patologia urbana, riproducendo sul corpo una ripetitiva performance che smonta e disidentifica. Nella sua maniera morbosa, il serial killer non fa niente di più che rendere letterale e visibile il discorso prevalente.  È lui il performer. L’erotizzazione della violenza sessuale penetra i confini del corpo collettivo, facendo del desiderio privato uno spettacolo pubblico. Il serial Killer performa questa trasgressione su un corpo genderizzato e razializzato e la frontiera diventa il perfetto palcoscenico per questo spettacolo. Persi i confini tra il sé e l’altro, il serial killer è perennemente alla ricerca di un confine. E’ attratto dal confine della sua nazione, precisamente perché questo significa il limite di una più grande entità di appartenenza, cioè la nazione. Recarsi  al confine significa allora l’espressione fisica di una mente estrema, la sovrapposizione del proprio corpo con quello della nazione, la confusione tra il dentro ed il fuori.

Dunque, una riflessione discorsiva sui femminicidi seriali di Ciudad Juarez permette di cogliere le conseguenze dell’accellerata  trasformazione economica del confine messicano in seguito alla ratifica del NAFTA. A questo punto, non c’è dubbio che la società post-industriale ha determinato i  profondi cambiamenti che si sono verificati al confine e che hanno avuto, e continuano ad avere, un potente impatto sulla vita delle donne. Il movimento femminista, a Juarez, ha il coraggio di sopravvivere e di combattere, nonostante la repressione, per opporsi non solo all’indifferenza, ma anche allo sfruttamento del lavoro e trovare alternative migliori di vita, riscrivendo le loro soggettività e la società, nella misura in cui questa cambia, ma anche nella misura in cui loro stesse contribuiscono a cambiare la società.

Rivolgendo per un attimo l’attenzione all’Italia, pur riconoscendo le innegabili differenze tra le congiunture storico-geografiche, culturali ed in parte economico-produttive dei rispettivi paesi, non possiamo far a meno di evidenziare la tensione delle femministe sudamericane, messicane e non solo, a includere nelle loro analisi anche, anzi soprattutto, il piano economico-produttivo e a denunciarne l’incidenza nei meccanismi a monte del femminicidio. Ne consegue che le loro rivendicazioni non si limitano, come in Italia, alla richiesta di più sicurezza e aggravanti per le pene, né ad un generico cambiamento culturale, ma si fondano essenzialmente sulla denuncia dello sfruttamento del capitale, che riduce i corpi a mere unità di produzione, di cui ci si può disfare quando da questi non è più possibile estrarre valore.

Insomma, siamo convinte con Ursula Biemann e con i gruppi femministi attivi a Ciudad Juarez che un’azione efficace di contrasto alla violenza di genere non possa prescindere dall’analisi delle relazioni che intrecciano, identità, territorio, tecnologia, migrazioni, ma anche  sessualizzazione dei corpi e  femminilizzazione  del lavoro nell’era dell’economia globale.

BIBLIOGRAFIA

Ursula Biemann, Performing the Border: on gender, transnational bodies and technology, pubblicato in Globalization on the Line: gender, nation, capital at Us Borders, edito da Claudia Sadoswky, 2001, http://www.opa-a2a.org/dissensus/wp-content/uploads/2008/10/performing_the_border.pdf

Performing borders: the Transnational video, by Ursula Biemann, http://piseagrama.org/artigo/original/142/performing-borders-the-transnational-video/

Alice Driver, Representations of Feminicide in Ciudad Juarez in Performing the Border. An Interview with Ursula Biemann, http://alicelaureldriver.files.wordpress.com/2013/01/biemann-interview.pdf