di Mauro Baldrati

[Lo Spettro, Einaudi Stile Libero Big 2012, pag. 450 € 19,00]

jo-nesbo-lo-spettroC’è una premessa da fare: gli scrittori di thriller scandinavi si impegnano. Trasuda dalle pagine, tra le righe, l’accanimento col quale si sforzano di mostrare le loro città come enclaves tentacolari, messe a ferro e fuoco da bande criminali, da serial killer diabolici, dalla corruzione dei poteri. Ora, è facile scadere nella generalizzazione, ma chi ha visitato Oslo, Stoccolma, Copenaghen, benché da turista, in genere riporta un’impressione di città efficienti, pulite, tranquille e sicure. Certo non dei modelli perfetti, sappiamo che è molto diffuso l’alcol, e le ricerche sociali forniscono dati preoccupanti sui suicidi. Ma questa è un’altra storia, che interessa meno i noiristi scandinavi, i quali guardano piuttosto al crime americano duro.

Comunque sono bravi. All’inizio sono interessanti, oltre che efficienti nel loro genere letterario, anche perché riescono a inserire dettagli e racconti delle loro terre, senza essere didascalici o troppo descrittivi. Prendiamo il classico dei classici, Stieg Larsson. La sua trilogia Millennium, snobbata dai teorici della letteratura “alta” perché commerciale e “gialla”, rivela un talento narrativo coi fiocchi. E’ interessante viaggiare per Stoccolma, visitare gli interni, ascoltare i dialoghi. Non è crime americano, è un prodotto originale. E poi che ridere quando leggiamo che Blomkvist deve passare un periodo in carcere, per una questione di articoli di denuncia sociale che gli hanno causato una condanna. Ci si mette d’accordo col giudice: ora non posso, ho degli impegni urgenti. E il giudice: facciamo tra due mesi? Facciamo tre, và. Aggiudicato. Dopo tre mesi entra in “galera” dove legge, fa palestra, guarda film.

Jo Nesbø esordì con un personaggio intrigante e curioso, non il solito detective scafato e solitario, eroe errante emarginato dalla polizia, guardato con sospetto dai caporioni, interessati solo a prendersi i meriti senza muovere un dito e ad apparire in televisione, mentre lui rischia la vita. Michael Connelly, James Crumley e Raymond Chandler (con gli “occhi privati” C.W. Sughrue e Marlowe) sono dei maestri in questo. O meglio, anche sì: emarginato più che mai, evitato addirittura, per un motivo ben preciso: Harry Hole è un detective di Oslo alcolizzato cronico. Cioè, non un bevitore “sfondo” ma sempre lucido, come l’amerikano di Spillane per esempio; proprio sbronzo, con la scimmia sulla spalla. Arriva sulla scena dei crimini (quasi sempre il teatro d’azione dei soliti, infernali serial killer) barcollando, con l’alito pestilenziale. Mentre studia le tracce gli viene da vomitare, talvolta sviene. E ha enormi problemi familiari, una donna con la quale non riesce a stare insieme, perché al primo posto, nella sua scala dei valori, c’è sempre l’indagine, la lotta contro il crimine, contro tutti, i dirigenti della polizia, i politici, perché è solo, con la sua incapacità di vincere il male che si porta dentro. Ed è il migliore ovviamente, con lo stomaco sottosopra e la testa che gira riesce a cogliere dettagli importanti che sfuggono ai migliori specialisti della scientifica.

Poi, come spesso accade, il successo porta molti autori a serializzare il personaggio, a studiare nuove storie “forti”, nuovi intrighi, pressati dagli editori, e dai lettori, o forse per illudersi di mantenere l’originalità e la creatività ai massimi livelli. E tutto, lentamente, si standardizza, si normalizza, si appiattisce. Oppure si complica, si contorce, si incarta. Il personaggio perde vigore, si assottiglia, si scolorisce, mentre entrano una quantità di complicanze, l’eccesso di violenza, le storie intricate, talvolta inestricabili, perché sfuggono di mano al regista. Allora entrano in scena dei facili sotterfugi, delle soluzioni raffazzonate, come i classici incontri casuali con passanti o sconosciuti che, con quattro parole, gli risolvono il caso.

Lo spettro, considerato dalla prosopopea “forse il suo massimo capolavoro”, risente in parte di questi difetti. Intanto Harry Hole, dopo diversi romanzi, è uscito dal tunnel. Non è più alcolista, ma ha dovuto lasciare Oslo perché definitivamente emarginato dai capoccia della polizia. Sappiamo che vive a Hong Kong dove lavora come poliziotto privato. Ma un giorno torna per occuparsi del caso del suo figlio adottivo (non proprio adottivo, ma è il figlio della donna che ama da sempre, Rakel, con la quale non riesce a vivere per i motivi di cui sopra), accusato dell’omicidio di un tossico. Prende il via la storia, sulla scena di Oslo come Gotham City (la definizione è dello stesso Nesbø), sulle tracce di un misterioso criminale siberiano urka (e qui, c’è un omaggio leggermente imbarazzante a Lilin) che gestisce il colossale traffico di una nuova, potentissima droga, un’evoluzione dell’eroina, nel quale erano coinvolti sia il tossico ucciso, sia il “figliastro” di Harry.

L’indagine tuttavia è troppo lunga, e qua e là troppo complicata. Harry Hole va a trovare tutti i suoi ex nemici della polizia, gente che lo odiava, lo disprezzava, lo sabotava, e indovinate un po’ se gli rifiutano il loro aiuto. Glielo concedono così, incomprensibilmente, perché glielo chiede. Sono tutti dei mammasantissima iper-blindati in uffici inaccessibili, ma Harry in quattro e quattr’otto riesce sempre a superare gli sbarramenti, e tra smorfie di fastidio e battute pesanti ottiene le informazioni che cerca. E il lettore si chiede: ma perché diavolo quello ci sta? Semplice: perché senza il suo aiuto la storia sarebbe bloccata, piantata. Solo in un caso usa il ricatto, perché il suo interlocutore un giorno è stato pizzicato coi calzoni abbassati mentre si esibiva, ed è l’unico evento credibile, politicamente scorretto quanto basta per farci un po’ riprendere. Ma per il resto vale la regola: chiedi e ti sarà dato. Troppo comodo.

Il finale è di quelli difficili perché troppo prevedibile. Uno pensa: no, non può essere così. Ci deve essere una svolta. Perché se fosse così sarebbe pesante. E quindi assai scontato. E ci vuole del coraggio per un autore conclamato assumersi la responsabilità di un finale sgradevole e scontato. Invece è capace di assumersela, questa responsabilità. Per cui un finale scontato, viste le centinaia di pagine di indagini senza esito, risulta anche coraggioso, perché, in fondo, il banale, quasi disperato epilogo, è l’unica salvezza dall’impossibilità di inventarsi altro, e di uscire dal labirinto in cui si è cacciato.

Invece sono godibili certi brevi cenni sulla Norvegia, dove c’è “la classe operaia più pagata del mondo”, e “l’orario lavorativo più corto del mondo”. Noi italiani sorridiamo quando leggiamo queste cose. Noi, che abbiamo avuto un ministro, Damiano, che in televisione si è difeso strenuamente dall’accusa di non avere abbastanza allungato l’età pensionabile, in una delle innumerevoli puntate del massacro sociale scatenato alle spalle dei pensionati, precari ecc. Noi, che abbiamo avuto la Fornero, che ha creato gli esodati, oltre ad avere allungato di anni e anni la pensione a tutti gli altri (meno che alle pensioni d’oro, sempre tutelate).

Noi italiani sorridiamo (e che altro possiamo fare?) quando Larsson ci descrive una cellula “malata” del servizio segreto svedese. Noi che abbiamo avuto un servizio segreto che ha patrocinato, coperto, protetto terroristi fascisti che hanno fatto esplodere bombe tra le gente, sui treni, sterminando intere famiglie. E la “corruzione” raccontata da Nesbø, l’assistente di un assessore che civetta col racket. Noi che manteniamo la classe dirigente più corrotta, asservita, inetta e bugiarda di tutto il mondo occidentale. Ci sembra di avere a che fare con dei bambini che giocano ai soldatini.

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