di Franco Ricciardiello

littell

Quando ho avuto fra le mani le recensioni ottenute da Le Benevole di Jonathan Littell, mi sono domandato se i critici lo abbiano letto veramente o piuttosto si siano basati sulle dichiarazioni apparentemente “revisioniste” rilasciate dall’autore, probabilmente interessato alla facile pubblicità dello scandalo: intorno a questa colossale opera (quasi) d’esordio, scritta in francese da un autore americano, si è infatti costruita una fama di libro maledetto che rischia di sminuirne l’importanza.

Questa incomprensione ha due origini: innanzitutto il fatto che il protagonista Maximilien Aue sia un ufficiale superiore delle SS che fa parte delle unità incaricate dell’Endlösung, la “soluzione finale” della questione ebraica in Europa; in secondo luogo, le enfatiche e provocatorie dichiarazioni di Littell che paragonano la psicologia dei soldati della Wehrmacht a quella di israeliani o statunitensi nei paesi occupati. Naturale quindi che parecchi lettori abbiano storto il naso (e che molti altri si siano al contrario avvicinati per la medesima ragione). Se questo ha in qualche modo allontanato i potenziali lettori di sinistra è davvero un peccato, perché Littell non è nel modo più assoluto un revisionista né un giustificazionista; al contrario, il suo è un romanzo terribile che apre una breccia nella lunga serie di luoghi comuni e pregiudizi che circonda l’industria di morte del Terzo Reich.

Lo scrittore francese Claude Lanzmann, autore del libro “Shoah”, rimprovera Littell di tirare fuori un demone che rischia di esercitare un fascino perverso sul lettore, che sarebbe indotto a accettarlo in quanto eccessivamente simile a noi, come se la barriera che separa il morale dal malvagio fosse infrangibile per semplice volontà di emulazione. Per la verità non sono riuscito a trovare nessuna indulgenza di Littell verso il suo personaggio, che anzi si ritrova caricato non solo dell’infinito delitto collettivo della Germania, ma anche di una serie di comportamenti devianti: è vero, Aue è moralmente recalcitrante dei confronti della distruzione fisica degli ebrei, ma si abbandona senza resistenza alle proprie perversioni, prima fra tutte l’incesto; e come se non bastasse, si porta sulle spalle per tutta la narrazione il segreto del matricidio. Difficile che il lettore possa essere suggestionato da un principio di imitazione, tutto rimane nella willingly suspension of disbelief. La fascinazione è soltanto letteraria: quei recensori che da destra hanno applaudito la novità del romanzo avrebbero fatto bene a leggerlo prima. Tra l’altro, la famiglia di Littell è di origine ebraica (i nonni sono emigrati russi), e questo dovrebbe fugare molti dubbi.

Piuttosto, è vero che il romanzo si dimostra “politicamente scorretto” a proposito di luoghi comuni che con il tempo hanno creato un’idea statica, imbalsamata dell’orrore nazista. Ecco i principali:

1. Lo spaventoso genocidio che gli ebrei chiamano Shoah è avvenuto nei lager. Non è vero: dai campi di sterminio è transitata solo una minoranza degli ebrei assassinati (“distrutti” è il freddo vocabolo usato nel libro dalle SS, che parlano di oggetti e non di vite), in particolare i deportati dai paesi occidentali, Francia, Belgio, Olanda, Germania, e più tardi Ungheria e Grecia; invece i cittadini ebrei di Polonia e URSS sono stati eliminati quasi subito sul  posto, nei primi mesi o nelle settimane dopo l’occupazione, e sepolti in fosse comuni nelle foreste o in luoghi scarsamente accessibili, fuori dai confini del Reich per non turbare la coscienza dei cittadini tedeschi. In questo modo sbrigativo e terribile, solo in URSS si sono assassinati 1.500.000 ebrei.

2. Esecutori del genocidio sono le SS. Non è esatto: le Waffen-SS inquadravano Einsatzgruppen composti da truppe di varia origine, specialmente fascisti locali ai quali venivano demandate le esecuzioni. Una terrificante testimonianza di prima mano, tratta dai documenti dell’epoca, è il “Libro Nero” di Grossman e Ehrenburg, che nell’immediato dopoguerra compilano un allucinante catalogo degli orrori dello sterminio e dello zelo antisemita dimostrato dai nazionalisti lituani, ucraini etc. inquadrati dagli Einsatzgruppen. Questo è molto evidente nella prima parte di “Le Benevole”, quando gli ufficiali considerano disonorevole fucilare i civili, e le SS ricorrono agli antisemiti ucraini. “Sono giunto alla conclusione” dice un ufficiale a pag. 603 dell’edizione tascabile (“Le Benevole”, Einaudi 2008, trad. di Margherita Botto), “che la guardia delle SS non diventa violenta o sadica perché pensa che il detenuto non sia un essere umano; anzi, la sua rabbia aumenta e si trasforma in sadismo quando si accorge che il detenuto, lungi dall’essere una creatura inferiore come gli hanno insegnato, dopotutto è proprio un uomo […] quindi la guardia lo picchia per per tentare di far scomparire la loro comune umanità. Ovviamente non funziona: più la guardia picchia, e più è costretta a constatare che il detenuto rifiuta di riconoscersi come non umano.”

3. La maggior parte delle vittime del deliberato sterminio sono ebrei. Anche questo non è vero: i caduti civili sovietici, per esempio, sono 12 milioni (di cui 1,5 milioni ebrei), tutti gli iscritti al Partito comunista vengono fucilati immediatamente dopo l’occupazione; come dice il protagonista a pag. 647 : “Si vogliono imputare tutte le nostre colpe soltanto all’antisemitismo – un grottesco errore, a mio parere, ma da cui molti si sono fatti sedurre –, non bisognerebbe forse riconoscere che, alla vigilia della Grande guerra, la Francia si comportava ben peggio di noi in questo campo (per non parlare della Russia dei pogrom!)? Spero peraltro che non vi sorprenda troppo sentirmi svalutare tanto l’antisemitismo come causa fondamentale del massacro degli ebrei: sarebbe dimenticare che le nostre politiche di sterminio aveano ben altra portata. Al momento della sconfitta – e lungi dal voler riscrivere la Storia, sarei il primo ad ammetterlo – oltre agli ebrei avevamo già portato a termine la distruzione di tutti gli handicappati tedeschi incurabili, fisici e mentali, della maggior parte degli zingari, e di milioni di russi e di polacchi. E i progetti, è ben noto, erano ancora più ambiziosi: per i russi, la necessaria ‘riduzione naturale’, secondo gli esperti del Piano quadriennale e dell’RSHA, doveva toccare i 30 milioni, se non attestarsi addirittura tra i 46 e i 51 milioni.”

Anche questo aspetto che potrebbe sembrare ambiguo, tuttavia, non si può ascrivere al negazionismo, perché il genocidio ebraico è comunque il fulcro del romanzo di Littell, che non nasconde nessun atrocità: anzi c’è chi ha giustamente sottolineato di rischio di una desensibilizzazione del lettore per eccesso di orrore.

Il protagonista Maximilien Aue, criminale di guerra che si nasconde sotto falso nome in Francia, in età avanzata decide di scrivere le proprie memorie. Questo ‘apocrifo’ è il romanzo stesso, una lunga cavalcata attraverso i momenti più significativi della guerra nazista sul fronte orientale: inizia il 22 giugno del ’41, con l’attacco all’URSS, e termina nell’aprile del ’45 quando Berlino cade nelle mani dell’Armata Rossa. In mezzo fra questi due poli, Aue vive l’esperienza di una serie di passaggi cruciali del nazismo durante la guerra: lo sfondamento della prima linea sovietica e la rapida avanzata nell’estate del ’41, l’avvio delle esecuzioni di massa, la sensazione di invincibilità quando le armate corazzate arrivano al Caucaso, l’assedio di Stalingrado, i lager di sterminio e il tentativo di sfruttare il lavoro dei prigionieri per la produzione di guerra, infine l’invasione della Germania e gli ultimi momenti nel bunker di Hitler. Quasi sempre Aue si trova a fare il “lavoro sporco” sugli ebrei, che tra l’altro considera un errore e al quale si sottomette di malavoglia; inoltre, quando sarà assegnato alla logistica dello sterminio (fianco a fianco con Eichmann per intendersi) farà di tutto per dirottare i prigionieri dalle camere a gas alle fabbriche. Perché Littell abbia scelto il fronte orientale risulta evidente non solo dal fatto che questo aspetto dell’olocausto è rimasto in ombra, ma sopratutto per il carattere di guerra totale che gli conferiscono i nazisti. Pag. 685: “Ve li immaginate gli yankees, con il loro corned-beef e il loro chewing-gum, a subire un decimo delle perdite russe? Un centesimo? Farebbero i bagagli e se ne tornerebbero a casa, e che l’Europa vada a farsi benedire.”

È evidente che il romanzo di Littell ignora nella maniera più assoluta alcune categorie ideali alle quali siamo abituati; il “politicamente corretto” non ha senso nel momento in cui si sceglie di mostrare dall’interno la psicologia dei ‘volenterosi carnefici di Hitler’. Aue non è simpatico, ma nell’orrenda anarchia del terrore che il nazismo scatena sull’Europa (le Eumenidi, furie benevole della mitologia) possiamo sempre identificarci almeno con i suoi dubbi. Littell ci mette in guardia già dal prologo, appesantito dalla fredda enumerazione dei morti sul fronte orientale: quanti milioni all’anno, quante migliaia al giorno e poi al minuto e al secondo, per ricordarci che ogni giornata del diario di Aue significa guerra e fucilazioni, fucilazioni e fucilazioni. Chi vuole continuare è avvertito. L’unico che alla fine rimarrà desensibilizzato però è il protagonista: perché per farci l’abitudine non basta la sospensione dell’incredulità. In questo, Littell è più avanti dei suoi lettori, perché ha compiuto la via crucis della guerra come volontario dei corpi di pace per nove anni nei Balcani, in Africa, Afghanistan e in Caucaso; la parte ambientata qui in Caucaso è forse la più bella, senz’altro per la documentazione di prima mano raccolta sul posto. Ferito in maniera lieve in Cecenia nel 2001, decide di lasciare l’incarico per scrivere il suo libro. In precedenza ha già pubblicato un modesto romanzo di fantascienza; si getta a capofitto in una scrittura  totalizzante, eccessiva, le cui divagazioni vanno molto oltre le esigenze dell’ambientazione, fino a far pensare che il senso sia tutto lì, in qualche episodio a chiave che potrebbe forse permettere di risolvere questa furia insensata. Perché quello di Maximilien Aue non è un percorso di salvazione: c’è la consapevolezza dell’orrore, ma è quasi ridotta a una considerazione estetica, come nel geniale episodio Adolf Hitler, uno dei momenti migliori della narrazione. Nel finale Aue si conferma ancora più colpevole con un ultimo atto gratuito, insensato, che in fondo però, dopo tanto orrore, non è altro che una goccia in un oceano.