di Filippo Casaccia

srv01The sky is crying,
Look at the tears roll down the street

Non so bene se questo sia un omaggio o cosa. Di solito è tempo di commemorazioni quando gli anni passati fanno cifra tonda o è un quarto di secolo, ma il pezzo m’è venuto così, ora, e ve lo servo pari pari, senza stare a girarci troppo intorno.
Dunque, la prendo larga: tra amanti del blues ci si sente membri di una piccola setta. Quelli che guardano gli altri con un po’ di superiorità, perché NOI, a differenza vostra, sappiamo da dove veniamo. Questa musica che impasta dolore e gioia, che è la radice di tutto e che da tutto prende, è una febbre da cui non si guarisce.
Quando si parla di musica, ci riconosciamo subito, come se avessimo un odore particolare. Basta un cenno, un nome, specificare che quella Stratocaster è del periodo pre CBS o che il tale ha suonato con John Mayall… Quando non c’era la Rete queste quisquilie erano gli unici modi per mandarsi segnali in codice.
E una volta stabilito il contatto, si passava alla logorrea, consigliandosi dischi e artisti e non di rado prestandosi proprio i supporti, avendo fede, perché uno che ama il blues non può arrecartelo. Magari si teneva i tuoi dischi troppo a lungo, ma per amore. Però poi te li rendeva, potevi starne certo, proponendoti le sue scoperte.
Un artista che si scambiava poco – perché più o meno tutti lo avevano – era Stevie Ray Vaughan. Prima della sua morte, nel 1990, però, dopo essere stato un segreto per iniziati, era diventato anche fonte di grosse discussioni.
Si parlava di lui e gli integralisti sbraitavano: suona commerciale. È imposto dalle case discografiche. Vuole vendere. Quante sonore cazzate! Come se i dischi si producessero per tenerli sugli scaffali.
Il texano col cappellaccio, vestito con kimono sgargianti, era inviso a molti che lo vedevano come un pagliaccetto. Il motivo è il solito in cui cascano i saputelli, e noi bluesofili – come s’è detto – siamo i saputelli peggiori e ci piace far parte di quella carboneria che adora l’oscuro bluesman, sconosciuto, non inquinato dal mercato. Perché – assioma immortale, anche adesso che la discografia è alla canna del gas – se uno ha successo, allora significa che ha accettato compromessi o s’è venduto. Figuriamoci se è bianco, poi.
Invece in USA, dove non si fan troppe seghe mentali e il blues lo conoscono eccome e i poseurs li sgamano a distanza, il chitarrista nato a Dallas ma cresciuto artisticamente ad Austin ha rappresentato un fenomeno clamoroso e, praticamente da solo, ha fatto rinascere un genere. Aveva l’immagine, certo (e MTV se n’era resa conto), ma sapeva anche suonare. E di brutto.
Un’intera generazione ha ripreso in mano la chitarra, ispirata da quel tizio scatenato, e ascoltando i suoi dischi ha scoperto gente come Albert e Freddie King, Buddy Guy, Otis Rush, Albert Collins o semplicemente Jimi Hendrix: tutti progenitori del Little Brother Stevie. Tutti con carriere rivitalizzate e tranquille vecchiaie assicurate dal risorgere della loro musica d’elezione.
Io, che sono un sempliciotto molto meat n’ potatoes, Vaughan l’ho adorato subito, proprio perché ero un ignorante, senza filtri, e grazie a lui ho allargato a dismisura i miei orizzonti.
Però, poi, scoprendo gli originali e assuefatto alla produzione pulita e (giustamente) “contemporanea” di Stevie, anche a me negli anni Novanta è venuta una crisi di rigetto e all’erede postmoderno che tutto ricombinava preferivo la crudezza dei maestri classici.
Il problema non era tanto SRV ma la sua sovraesposizione. Era morto, un cadavere squisito perfetto per la necrofilia di fine millennio: il fratello Jimmie, già nei notevoli Fabulous Thunderbirds, curava uscite di inediti e live, con l’affetto fraterno e la cura del musicologo, certo, ma aiutando la Sony a intasare un mercato che già aveva avuto il meglio del musicista di Austin.
E fedelmente si acquistava, finché non è subentrata un po’ di noia. Non si trattava del tremendo sfruttamento di Hendrix – certo – senza alcuno a curarlo filologicamente (fino a pochi anni fa, ma è un’altra storia), però il troppo stroppia, sempre. E mi è servito aspettare alcuni anni per tornare ad assaporare Stevie, depurato dalle scorie mediatiche e anche dotato di consapevolezza da guru bacucco, ormai maturo e distaccato dalle mode.
srv02E ora che le cose le vedo con la giusta distanza, con la saggezza di chi tutto ha assaggiato e con l’equilibrio che l’età impone, posso dire serenamente che Stevie Ray Vaughan era uno STRACAZZO DI INCREDIBILE MAESTRO, uno che merita il posto nel Pantheon a fianco dei Grandi, unico nella sintesi e nella riproposizione, la cui importanza non è solo nell’aver convertito masse di biancuzzi a quel suono e a quella storia, ma anche perché ha scritto brani splendidi (non tantissimi, ma è anche morto presto) e ha messo in scena una tecnica chitarristica paurosa, alzando l’asticella ed emarginando tanti cialtroni, che pensavano bastasse schitarrare una pentatonica e cantare di cotone raccolto e donne infide ed eravamo tutti bluesmen.
E no, cari. Serve altro.
Serve essere cresciuti in uno stato come il Texas, eccedendo nel cicchetto fin da ragazzino, con tantissimi amici neri da cui imparare. Mangiando polvere nei peggio locali fino a un insperato contratto discografico con John Hammond Sr., quello che già aveva scoperto Dylan, Aretha e Bruce.
Dopo tanto parlare di questo prodigio, la créme musicale lo vede esibirsi a Montreux nell’estate del 1982. È un caso più unico che raro: una band senza contratto, ma Claude Nobs, il geniale patron svizzero che organizza il festival, ha capito che qui c’è qualcosa di unico. David Bowie e i Rolling Stones rimangono scioccati dalla performance ed è il primo a cogliere la palla al balzo: Stevie libera la sua chitarra su Let’s Dance, ma rifiuta di partire in tour perché non si mollano così i compagni di strada, i Double Trouble, dopo tanti anni di gavetta assieme.
Anche Jackson Browne ha visto l’incendiario concerto estivo e mette a disposizione gratuitamente il suo studio a Los Angeles dove il travolgente Texas Flood viene partorito in poco tempo. La ricetta, in studio e live, è deflagrante: boogie, shuffle, rock n’roll, lenti in maggiore e minore, scorribande strumentali virtuosistiche, escursioni jazzate e cover che omaggiano la Storia del genere. Le mani enormi e fortissime di Vaughan non hanno limiti: suona scordato di mezzo tono come faceva Jimi e con un incordatura col Mi cantino da 0.13, praticamente un cavo d’acciaio, e lo piega fino a 4 semitoni. Se suonate la chitarra sapete cosa intendo, se non lo sapete, invece, fidatevi. È roba tosta, con un tono, un attacco e un sustain unici, aiutato da poca effettistica e da tantissimo feeling e da una conoscenza enciclopedica del repertorio e del vocabolario del blues.
Arrivano il successo, i piazzamenti nella classifica di Billboard, e dai saloon si passa alle arene in pochissimo tempo. Aumenta anche il consumo di droga e alcol e i dischi sono belli, sì, ma, dopo l’esordio aspettato per dieci anni, un po’ appannati, non così rivoluzionari. Senza quel fenomenale tiro live.
Fino al collasso per consunzione prima di salire su un palco tedesco nel 1986 e il ricovero, la disintossicazione e la rinascita.
In Step del 1989 è un album bello, moderno e classico allo stesso tempo, dove il blues si sposa col funky e col rock. Rilancia il profilo del chitarrista: nuovi concerti e ritrovati status artistico e salute, combattendo giorno per giorno, passo dopo passo, la battaglia contro l’alcol.
Finché dopo una jam con Eric Clapton, tra le montagne di East Troy, in Wisconsin, il 27 agosto 1990, si prende l’elicottero sbagliato e si muore a soli 36 anni. Nella nebbia, tra gli amici increduli.
Postumo esce l’album Family Style, realizzato col fratello Jimmie sotto il geniale sguardo paterno di Nile Rodgers (altra bella storia: Black Panther, chitarrista per tanti bluesman e leader degli Chic). E va altissimo in classifica, vince un Grammy e sbanca, perché quando sei morto tutti ti vogliono bene e vogliono ascoltarti ancora una volta e piangerti e perché il singolo Tick Tock sembra prodotto apposta per far divampare l’incendio emozionale. Perché in fondo era una semplice bella canzone, tra le tante altre.
E se avete dubbi sulla sua tecnica, ascoltatevi la monumentale rilettura di Little Wing: si passa dalla diteggiatura di Hendrix alle ottave di Montgomery, mettendoci in mezzo tutto lo scibile chitarristico, urlando e sussurrando.
Ecco, Stevie Ray Vaughan è stato il primo musicista che ho amato, morto mentre lo stavo apprezzando. Negli anni dopo, molti (e io tra di loro) sarebbero rimasti orfani di Freddie Mercury, Kurt Cobain o Jeff Buckley, ma quello è stato il mio primo vero lutto musicale.
Ero in vacanza con gli amici di sempre e la notizia appresa alla radio ci lasciò senza parole. Avevo con me solo una cassetta di Texas Flood, che cominciò ad andare in loop sul portatile, mentre ascoltavamo attoniti e orfani.
Per la prima volta capivo veramente cosa fosse il blues.

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Da ascoltare
Stevie Ray Vaughan and Double Trouble: Texas Flood (1983)
Stevie Ray Vaughan and Double Trouble: In Step (1989)
The Vaughan Brothers: Family Style (1990)
Stevie Ray Vaughan and Double Trouble: The Sky is Crying (1991, postumo)
Da leggere
Stevie Ray Vaughan: Caught in the Crossfire di Nick Patoski e Bill Crawford (1994)
Stevie Ray Vaughan: Day by Day, Night After Night di Craig Hopkins (2010)
Da vedere
Live at the El Mocambo (concerto del 1983; 1991)
Live At Montreux: 1982 & 1985 (2004)