di Gianmario Leone taranto-150x150

[Questo articolo è stato pubblicato sulla testata locale “TarantoOggi” e su quella on line Inchiostro Verde il 25 maggio]

È difficile mantenere la giusta lucidità quando tutt’intorno è un susseguirsi di eventi che rischiano di fagocitare l’esistente, perdendo di vista la realtà delle cose. Lasciandosi magari trasportare da un fiume di parole che distorcono la verità e spostano sempre un po’ più in là il raggiungimento di essa. È quello che come giornale abbiamo sempre evitato di fare. Ed anche questa volta non cambieremo atteggiamento e modo di lavorare. Perché al di là delle ultime operazioni della Procura di Taranto e di Milano, per vicende ed indagini del tutto diverse tra loro, il punto focale di tutto resta sempre lo stesso: capire quale sarà il futuro dell’Ilva e, insieme, quello di questa città. Per farlo, certamente non ci si può lanciare in facili ed irreali congetture. Ma bisogna restare ancorati saldamente alla realtà dei fatti per come li conosciamo, e da essi provare a dedurre ciò che sarà. Tutto il resto continua ad essere mero esercizio dialettico, cosa in cui in questa città molti “eccellono”, purtroppo.

 

Dunque, la domanda principe è la seguente: cosa sarà dello stabilimento siderurgico? La nostra posizione, da anni, è sempre la stessa. Ed in molti, che oggi paiono aver dimenticato troppo in fretta il passato, pian piano lo stanno intuendo “aiutati” dal susseguirsi degli eventi. Il futuro della grande fabbrica, almeno per noi, è segnato da tempo: l’Ilva, nel giro di qualche anno (ad essere larghi di vedute), cesserà la propria attività. Per volere del gruppo Riva, certo. Ma anche per “merito” di tutti coloro i quali oggi, istituzioni locali e sindacati in primis, si affannano a rilasciare dichiarazioni semplicemente ridicole, nelle quali sostengono di aver detto da tempo come il gruppo Riva non fosse affidabile e che comunque, vista la situazione, si dovrà iniziare a pensare ad un’Ilva gestita senza i Riva. Eppure, per anni e anni, non hanno mosso un dito per cambiare le cose, pur essendo in loro potere farlo. Hanno sostenuto, appoggiato e coperto chi oggi, almeno nelle carte dei vari provvedimenti giudiziari, vien definito nel peggiore dei modi possibili.

Ma è davvero realistico pensare ad un’Ilva senza i Riva? Per molti, sì. Perché ritengono che nella gestione del siderurgico debba entrare a piene mani lo Stato (ovvero colui il quale ha gestito quella fabbrica dal ’61 al ’95 con tutti i danni che ben conosciamo, ndr). E che lo si debba fare grazie ai soldi dei cittadini, come peraltro sta già avvenendo per la prima piccolissima parte delle bonifiche (Patto di Stabilità permettendo, ndr). In pratica questi “geni” della politica, del sindacalismo novecentesco e dell’imprenditoria italiana, vorrebbero rendere “eco-compatibile” l’Ilva attuando quei lavori che avrebbe dovuto fare un privato negli ultimi 18 anni (e non certo in appena 3, ndr). Che non ha agito proprio perché coperto da uomini che hanno rappresentano e rappresentano tuttora lo Stato. Sarà.

Intanto, si continua a non voler guardare la realtà per quello che è. Perché i Riva hanno abbandonato l’Ilva e i suoi lavoratori al proprio destino, da oltre un anno. Attraverso una serie di operazioni finanziarie che abbiamo provato a denunciare su queste colonne con grande difficoltà in tutti questi mesi, che hanno portato all’inizio di gennaio alla separazione dell’Ilva Spa dal gruppo Riva FIRE, oggi Riva Forni Elettrici. Non solo. Possibile che soltanto adesso si accendono pallide lampadine nella mente di istituzioni e sindacati, a fronte del fatto che l’Ilva non abbia mai approvato il piano di finanziamento a copertura degli interventi e dei lavori previsti da un’AIA rilasciata lo scorso ottobre? Nessun dubbio sul fatto che sin dallo scorso gennaio l’Ilva abbia iniziato a procrastinare nel tempo tutti i lavori immediati previsti dall’AIA, proprio perché nel testo dell’autorizzazione è previsto che possa farlo per esigenze di natura economica e per non avere intoppi nella prosecuzione dell’attività produttiva?

Nessun “dubbio” si è sollevato in merito alla non presentazione del piano industriale? Nessun dubbio sul fatto che abbiano atteso l’ok della Corte Costituzionale per ottenere il dissequestro dell’acciaio il cui provento, quasi un miliardo di euro, sarà messo a bilancio dell’anno domini 2012 (non è un caso se, il giorno dopo la decisione della Consulta, Ferrante dichiarò che il bilancio sarebbe stato “rivisto”, ndr)? Nessun dubbio sul fatto che sia stato nominato come amministratore delegato Enrico Bondi, top manager italiano, riconosciuto come il grande “liquidatore” e “risanatore” dei conti del gruppo industriale da cui è stato nominato? Sarà.

L’Ilva è una società autonoma che camminerà sulle sue gambe”, dichiararono tempo addietro Enrico Bondi e il presidente Ilva, Bruno Ferrante. Nessuno però, si è chiesto di chi siano realmente queste gambe. Non certo quelle del gruppo Riva, che in una disperata corsa contro il tempo rispetto ai piani previsti, se n’è liberata per tempo. Queste gambe, a ben vedere, sono molto corte. E poggiano, attualmente, su piedi d’argilla. Perché la “neonata” Ilva Spa non dispone assolutamente delle risorse economiche e finanziare per rispettare i tempi previsti dall’AIA o per abbozzare un piano industriale lontanamente credibile. Visto che, tra l’altro, ha ereditato dalla “bonaria” gestione dei Riva, debiti con le banche nell’ordine di 2,9 miliardi di euro (stando ai dati in nostro possesso risalenti al bilancio 2011, ndr). Né è plausibile, come invece sostengono alcune fonti del campo industriale e dell’alta finanza milanese, ipotizzare un aumento di capitale da parte dell’attuale Cda: da dove dovrebbero arrivare queste risorse da immettere nelle “gambe” dell’Ilva Spa per darle un futuro?

Alcuni sostengono, soprattutto coloro i quali traggono linfa vitale dalla produzione dell’acciaio dell’Ilva per le loro aziende, che sarà fondamentale il piano per la siderurgia europea che l’Ue si appresta a presentare nei prossimi giorni. Si parla di un insieme di azioni a tutto campo, che toccheranno i vari aspetti che hanno un impatto sulla produzione siderurgica, dalla riduzione dei prezzi energetici al cambiamento climatico, dall’accesso alle materie prime e all’utilizzo del rottame alle relazioni commerciali con i paesi terzi. “Si devono anticipare i cambiamenti strutturali e questo è fattibile se le aziende prendono misure correttive e se le autorità pubbliche aiutano a creare le condizioni giuste”, ha sostenuto il vicepresidente della Commissione Europea, Antonio Tajani. Ma davvero potrà bastare qualche agevolazione fiscale e qualche centinaia di milioni in prestito dall’Ue, per salvare la produzione dell’Ilva di Taranto? Noi ne dubitiamo fortemente.

Che fare, dunque? Primo, rassegnarsi all’idea che un’epoca è finita. Quello che resterà dell’acciaio italiano, sarà forse la produzione di “prodotti speciali”: il resto, nostro malgrado, sarà importato dall’estero. Quindi, sarebbe meglio pensare ad agevolare le aziende italiane con sgravi fiscali, piuttosto che illuderle che continueranno ad approvvigionarsi dell’acciaio dell’Ilva. Secondo, rassegnarsi all’idea che ci vorranno anni e anni perché questa città cambi davvero. Si può essere soltanto parte attiva del cambiamento: ma chi riscriverà la storia e la struttura di Taranto saranno coloro i quali sono appena nati o devono ancora vedere la luce del sole. Terzo, lasciare una buona volta che la giustizia faccia il suo corso. E smetterla, soprattutto, di santificare chi, da anni, sta semplicemente svolgendo il suo dovere di magistrato (ben consci che in questo Paese svolgere il proprio dovere vale quasi una candidatura al Nobel) a cui alla fine sarà detto un immenso grazie.

Ma passeranno anni prima che il processo contro i Riva si chiuda. Altrettanti prima che Taranto possa vedere un risarcimento economico per quanto subito. Piuttosto, sarebbe ora di fare una campagna seria, come fece questo giornale nel lontano 2010, per spingere il Comune a richiedere una volte e per tutte un risarcimento danni per la sentenza definitiva di condanna a Riva del 2005: quelli, forse, sono gli unici soldi che potremmo vedere a breve. Quarto, capire definitivamente che l’unica vera arma che ha la società civile ha è quella di unirsi in tutte le sue anime, per scrivere e proporre un’idea di città del tutto differente dall’attuale.

Fornendo proposte a decine sul come valorizzare le risorse infinite ed ancora oggi inespresse di questo territorio, costringendo in questo modo la politica ad agire togliendole ogni residuo alibi. Purtroppo, non è dato sapere se capiremo mai queste cose e se saremo mai in grado di attuarle. Resta in noi indelebile la certezza che questa città può e deve voltare pagina una volta e per tutte. Consci che questo costerà, ancora una volta, sacrifici immani. Ma, forse, se impareremo a supportarci e a dividerci il peso di queste sofferenze l’un l’altro, giorno dopo giorno, quel futuro che oggi in tanti sognano e che appare ancora infinitamente lontano, si rivelerà essere più a portata di mano. Per tutti. Nessuno escluso.