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di Sandro Moiso

Venerdì 8 agosto 1969: otto bombe rudimentali a bassa potenza esplodono su 8 treni in movimento in diverse località d’Italia, provocando 12 feriti. E’ l’inizio della strategia della tensione. 

Nella settimana successiva muoiono in Vietnam 325 soldati americani, superando nettamente la media dei 200 militari statunitensi uccisi  a settimana che aveva caratterizzato fino ad allora quell’estate di sangue e di guerra.

Venerdì 15 agosto 1969: dopo tre giorni e tre notti di scontri furiosi intorno al quartiere di Bogside a Derry e nei quartieri cattolici di Belfast, tra militanti cattolici e protestanti, il Regno Unito decide di inviare nell’Ulster (Irlanda del Nord) un folto contingente di truppe per ristabilire l’ordine. A Bogside, per la prima volta sul territorio metropolitano del Regno Unito, la Royal Ulster Constabulary (RUC, nome assunto dalla polizia dell’Irlanda del Nord  dal 1922 al 2001) ha fatto uso di gas Cs contro i militanti cattolici indipendentisti che hanno respinto per due giorni, con pietre e molotov, i suoi assalti. A seguito di questi incidenti il movimento repubblicano irlandese vedrà la nascita della Provisional IRA che si separerà dall’Official IRA che non ha saputo reagire con più determinazione all’assalto protestante ai quartieri cattolici.

Venerdì 15 agosto 1969: sull’Atlantico si va formando l’uragano Camilla che colpirà la Costa Orientale degli Stati Uniti di lì a poche ore, mentre sui 600 acri (2,4 kmq) della fattoria di Max Yasgur, un allevatore della  contea di Ulster (Stato di New York, USA), per ironia della sorte stanno per avere inizio i tre giorni di Pace, amore e musica passati alla storia come Festival di Woodstock. Dove, fin dalla prima mattina, circa un milione di giovani sta cercando di convergere sull’area del festival. Solo il 40% di loro riuscirà a raggiungere la meta attraverso un ingorgo che si sviluppa per 15 miglia tutt’intorno alla cittadina.

Venerdì 15 agosto 1969, Woodstock: dovrebbe essere il giorno dei cantanti e gruppi folk e gli Sweetwater (una band jazz-rock-folk di Los Angeles) avrebbero dovuto aprire il concerto, ma sono rimasti imbottigliati, o forse hanno solo smarrito i loro strumenti, in mezzo al mare di persone e di auto.      

Ore 17:07: Richie Havens e i suoi due accompagnatori (Paul “Deano” Williams alla chitarra e Daniel Ben Zebulon alle percussioni) sono chiamati sul palco, in anticipo rispetto alla scaletta prevista, per sopperire ai ritardi del primo e degli altri gruppi. Dovrebbero suonare quattro pezzi, ma ne suoneranno molti di più.

Richie Havens, 28 anni, sale sul palco vestito con un dashiki arancione, comodi pantaloni chiari e sandali africani ai piedi. Il dashiki è l’abito tradizionale maschile dell’Africa Occidentale, una tunica che copre il corpo fin sotto le ginocchia. Si è diffuso rapidamente tra i militanti afro-americani fin dal 1967, con l’apertura ad Harlem, Manhattan, di due negozi della New Brees che li produce e vende negli sgargianti colori tradizionali.

L’abito in questo caso fa il monaco e lo stile percussivo con cui Havens accompagna le sue canzoni con la chitarra rimanda subito alla cultura africana rivendicata ed ostentata da migliaia di afro-americani nell’America bianca degli anni sessanta e settanta. La voce profonda del cantautore intona canzoni appartenenti alla musica ascoltata dalla stragrande maggioranza dei giovani bianchi presenti (Beatles  e folk), ma la chitarra percossa ossessivamente in accordatura aperta e il piede che batte ritmicamente sul legno del palco rinviano ad un’altra sfera culturale e ad un altro mondo.

Per chi guarda le immagini del film tratto dal festival ciò che colpisce di più in Havens, oltre che la voce e il sudore che cola copioso sul volto, sono le mani e il piede, inquadrati ripetutamente in un montaggio che rispetta l’accelerazione che l’esecutore impone alle due canzoni presenti nella pellicola: “Handsome Johnny” e “Freedom”. In realtà quest’ultima è una rielaborazione del tradizionale gospel “Motherless Child” che viene completamente stravolta dall’ipnotica ripetizione della parola Freedom aggiunta al testo da Richie come si trattasse di un’invocazione di libertà universale, l’urlo degli schiavi in rivolta, il lamento di un continente ancora colonizzato, la speranza degli oppressi.

La parola dashiki è di origine yoruba, un’etnia presente soprattutto in Nigeria, ma anche lo stile chitarristico di Havens rinvia allo stile ipnotico del chitarrismo nigeriano, una specie di ju-ju music, adatta al ballo e alla trance visionaria, di cui troviamo esempio nei dischi di King Sunny Ade.

In tutto, a Woodstock, il cantante afro-americano finirà con l’eseguire undici brani, ma sarà proprio l’ultimo “Freedom/Motherless Child”, letteralmente improvvisato per sopperire al tempo ancora da coprire, a colpire di più il pubblico con il suo incedere ipnotico, veloce, quasi disperato e a renderlo celebre a livello internazionale.

In realtà quando Havens sale sul palco di Woodstock ha già alle spalle cinque album, due per la Douglas Records e tre per la Verve, incisi tra il 1965 e il 1969. Originario di Brooklyn, dov’era nato il 21 gennaio 1941, Richie , dopo aver fatto parte di gruppi doo-woop, aveva iniziato a battere i locali del Greenwich Village, dove si stava sviluppando la rivoluzione folk che avrebbe avuto come protagonisti, tra gli altri, Fred Neil, Dave Van Ronk e Bob Dylan.

Mentre l’ultimo sarebbe diventato famoso come “il menestrello di Duluth”, per qualche anno , nel circuito del Greenwich Village, Richie ne avrebbe costituito l’alter ego in black: “il menestrello nero” appunto. Così, dopo la tradizionale ed interminabile gavetta la cui dieta sarebbe stata costituita principalmente dalla classica “fam da sonador”*, sarà notato, prima, da Fred Neil che gli farà da mentore per un primo contratto con la Douglas Records e, poi, da Albert Grossman, il manager di Bob Dylan, che lo porterà a firmare un contratto con la Verve Forecast.

 Il primo risultato su vinile, di questo secondo contratto, fu l’album “Mixed Bag” del 1967, che contiene alcune composizioni dello stesso Havens (tra i quali “Handsome Johnny” eseguita a Woodstock e scritta con Louis Gossett Jr.) e numerosi altri composti da Tuli Kupfrberg (Morning Morning), Bob Dylan (Just Like a Woman), Lennonn e Mc Cartney (Eleanor Rigby), John Mayall (Sandy) e Jesse Fuller (San Francisco Bay Blues), oltre che la bellisima “High Flying Bird” di Billy e Jane Wheeler, ripresa in quegli anni da gruppi folk-psichedelici come Illwind, Wizards from KansasIt’s a Beautiful Day e Jeffersonn Airplane.

Tra i musicisti che lo accompagnano, in quel primo disco per un’etichetta importante, ci sono Bruce Langhorne, Felix Pappalardi, Harvey Brooks e il fedelissimo Paul “Dino” Williams. Nei successivi due album si aggiungeranno, tra gli altri, Stephen Stills e Eddie Gomez. Lo schema rimarrà lo stesso: molte canzoni di autori “bianchi “ e pochi brani ad opera dello stesso Richie. Tra questi ultimi, brani come “The Klan” oppure “Stop Pulling and Pushing Me” riveleranno l’impegno militante del cantautore, mentre  “No Opportunity Necessary, No Experience Required”, sarà ripreso da altri , in particolare da Nina Simone che ne darà una straordinaria versione.

Somethin’ Else Again” (1968) e “Richard P. Havens, 1983” (1969) saranno i due album che lo consacreranno anche a livello di classifica. Havens continuerà a mescolare tra di loro una grande varietà di stili nella sua musica, pescando a piene mani nel folk, nel blues, nel rock, nel jazz, nel funk e nel soul alternandoli con elementi del country e del bluegrass filtrati tutti attraverso l’esperienza musicale newyorkese. Ma infondendo in essi sempre una carica musicale e ritmica che affonda le sue radici nel blues delle origini e nella memoria musicale africana, anche se nessuno dei suoi brani incisi in studio raggiungerà più l’intensità di “Freedom/Motherless Child“. Brano che, curiosamente, non comparirà in nessuno dei suoi album ufficiali, ma soltanto in quello antologico tratto dal festival del 1969.

Ancora nel 1971 scalerà le classifiche di Billboard con l’album “Alarm Clock” e il 45 giri “Here Comes The Sun”, tratto dallo stesso. Poi l’abbinamento tra afro-music, folk e Beatles perderà mordente e per molti anni Richard Havens si limiterà ad esibirsi dal vivo. Soltanto nel 1987 tornerà in classifica con l’album “Simple Things”. Mentre l’ultimo album, dal titolo “Nobody Left To Crown”, uscirà nel 2008. Da segnalare, come curiosità, che nel 1983 sarà pubblicato l’album “Common Ground”, prodotto da Pino Daniele, accompagnato dallo stesso Daniele e dal suo gruppo comprendente anche il sassofonista Mel Collins.

L’unico altro musicista dell’epoca a lui paragonabile rimane, forse, Terry Callier. Originario di Chicago, fin dai primi dischi accosterà folk, blues, funk e jazz in una miscela molto originale, ma decisamente più morbida di quella proposta da Havens. Mentre, oggi, l’unico musicista ad essere considerato dalla critica il vero e proprio erede di Richie è Ben Harper, soprattutto quello dei primi album.

Ma, per tornare alle origini, rimane senz’altro l’esibizione di Woodstock il fulcro dell’arte di Richie Havens. Ciò che più colpisce, rivedendo le immagini di allora, è il fatto che quel festival prevalentemente bianco, se si eccettua la presenza nella terza serata di Sly and the Family Stone, si aprì e chiuse con due esponenti della musica nera: Havens, appunto, e Jimi Hendrix, che suonerà alle nove del mattino del 18 agosto, mentre gran parte dei partecipanti sta già lasciando i prati della Yasgur’s Farm.

Due modi diversi di intendere la musica: acustica e folk-blues quella di Richie, lancinante e  distorta elettricamente quella di Jimi, che sembrano però riunire, con un arco immaginario che attraversa non solo i tre giorni del festival ma tutta l’esperienza musicale americana ed afro-americana, il ritmo del continente d’origine con quello delle metropoli attraversate dalle contraddizioni di classe, politiche e razziali degli anni sessanta e settanta.

In entrambi i casi non ci troviamo davanti ad un suono pulito e raffinato; i groove sono ossessivi e il funk ostinato. La musica nera non si è ancora arresa al gusto dei bianchi, così come il free jazz aveva già orgogliosamente dichiarato fin dai primi dischi di Ornette Coleman, ed esplora ogni soluzione possibile, cercando anche di superare i limiti di quello stesso blues da cui sembrava che tutto avesse avuto inizio. Prendendosi gioco, nel caso di Hendrix, anche del tradizionale inno americano (Star Spangled Banner), devastato e ridotto ad un cumulo di macerie sonore.

Jimi morì, l’anno seguente, il 18 settembre 1970, tre settimane dopo la sua esibizione al festival dell’isola di Wight, dove si era esibito anche Miles Davis con la sua electric band. Aveva 27 anni.

Richie Havens è morto il 22 aprile di quest’anno, a 72 anni.

* in piemontese “la fame del suonatore”, attribuita a coloro che girovagavano nelle città e nei paesi a caccia di un’elemosina o di un piatto di minestra in cambio dell’esecuzione di qualche canzone popolare e, più in generale, a tutti coloro che faticano a mettere insieme il pranzo con la cena soltanto con il frutto del proprio lavoro.

 

Discografia consigliata:

 Richie HavensMixed Bag

                             Somethin’Else Again

                             Richard P. Havens, 1983

Richie Havens e Jimi Hendrix sono presenti sul doppio cd antologico Woodstock 40, rispettivamente con Freedom e Star Spangled Banner/Purple Haze & Instrumental Solo.