di Danilo Arona

DeFilippiLaPaziente.jpgQual è il significato del nome Lucifero?
Portatore di luce.
E qual è la materia dell’universo?
L’energia.
E qual è la forma più comune di energia?
La luce.
Appunto.

(William Peter Blatty, Gemini Killer)

Il perché della citazione in apertura lo spiego subito. Perché nei thriller manicomiali a sfondo gotico i poveri pazienti rinchiusi si comportano quasi sempre come un unicum, un solo cervello collettivo. Se danno in escandescenze o tacciono, lo fanno sempre tutti assieme nel medesimo istante. Si contagiano a vicenda e in modo fulmineo. Una Luce Oscura si trasmette dall’uno all’altro.

“La paziente n° 9”, altra perla dell’universo narrativo di Alessandro Defilippi, sembra giusto la figlia, inconsapevole, del Paziente X del Georgetown General Hospital del romanzo (e film) “Gemini Killer” di William Peter Blatty, entità maligna che, senza mai uscire dalla propria stanza chiusa dall’esterno, influenza le menti di altri pazienti al di fuori fino a spingerle all’omicidio. C’è tutto un mondo in sottotraccia, un immaginario che coinvolge titoli filmici quali “Shock Corridor” di Samuel Fuller, “La lama nel corpo” di Scardamaglia, “La morte dietro il cancello” di Roy Ward Baker, “Gothika” di Kassowitz, “Shutter Island” di Scorsese. Nonché l’Arkham Asylum di Grant Morrison e Dave Morrison, autori di una cupissima avventura di Batman in cui il Joker viene appunto rinchiuso in detto manicomio. Come ricorda lo stesso Defilppi nell’esemplare nota finale all’opera di Tim Lucas “Il libro di Renfield” (Gargoyle Books, 2011), il fittizio Arkham Asylum pare essere il contaltare di altri luoghi reali che hanno profondamente influenzato la sensibilità romantica e post-romantica. I più rappresentativi, il londinese Betlam, ovvero il Bethlem Royal Hospital, il più antico ospedale psichiatrico del mondo essendo stato fondato nel 1330, e la parigina Salpêtrière, nata all’origine come fabbrica di polvere da sparo e già definita alla fine del ‘600 “mosaico infernale della miseria umana”. Luoghi che divennero da subito incubatoi del fantastico e le cui vicende ebbero a intrecciarsi con l’evoluzione della psichiatria, la nascita della psicoanalisi, la letteratura gotica e la scoperta dell’inconscio.
Il manicomio di Pratozanino, sulle alture di Genova nell’anno 1942, discende da questi luoghi. Perché serpeggia nell’aria qualcosa di sbagliato. Perché pazienti e personale medico, a malapena distinguibili, si comportano in modo a dir poco strano. Perché qualcuna vi trova la morte in modo cruento e rituale. E perché infine c’è un padiglione che persino in quel contesto è un “luogo proibito” nel quale si ha paura a entrare. Attorno la guerra, i bombardamenti, i nazifascisti. Ma c’è ancora dell’altro. Che cosa?
Al di là dell’inevitabile scioglimento del mistero in chiave gialla tutt’altro che prevedibile, quell’altro che percorre le pagine è proprio il contagio psichico, che si appalesa come forza maligna e incontrovertibile della Storia. Quel contagio che già devastò in forma di psicosi di massa il manicomio di Collegno nel precedente romanzo di Defilippi “Angeli”, pubblicato nel 2002 da Passigli, che con Le perdute tracce degli Dei e “La paziente n° 9” forma un trittico di rara suggestione nel panorama italiano.
Sarebbe facile scivolare sul terreno del contagio psichico. All’apparenza un concetto sfuggente, poco scientifico, quasi magico. Eppure la Storia rigurgita di esempi quasi perfetti, dalla caccia alle streghe (esemplare quella di Salem) alle paranoie registratesi in Europa dal secolo XIV al XVIII, narrate minuziosamente da Jean Delumeau in “La paura in Occidente”; i pogrom, i linciaggi, il nazismo… Ma è in epoca molto recente che possiamo riscontrare casistiche, non ancora esauritesi, di contagi mentali di massa dai risvolti sociali a dir poco devastanti. E’ del 1983 il famosissimo caso americano della Mc Martin School che personalmente conobbi, e in seguito approfondii, grazie a un documentato articolo di Furio Colombo pubblicato sul giornale La Stampa. S’intitolava “Il mistero dei bambini accusatori” e così si leggeva sotto il titolo: “Centinaia di scolari hanno raccontato riti di sangue e abusi aberranti — Da New York a San Francisco giovani maestre sono state condannate o assolte senza prove concrete a parte le testimonianze di scolaresche unanimi — Giudici, psichiatri e investigatori sono ossessionati da una domanda: i bambini come hanno potuto inventare quei fatti? Cos’hanno visto e sentito? E da chi?”
Pareva già evidente dalla semplice enunciazione dei “sottotitoli” che di “contagio”, per quanto strano e inquietante, si trattava. Eppure il caso McMartin, oggetto di un’imperdibile libro-inchiesta di Luther Blissett, “Lasciate che i bimbi- Pedofilia, un pretesto per la caccia alle streghe”, e di un discreto TV movie di Mick Jackson, per quanto conclusosi con l’assoluzione piena degli imputati, non ha visto affatto il cosiddetto “trionfo della giustizia”. Persone innocenti rimasero in galera per cinque anni, qualcuno si suicidò, altri persero il lavoro e la scuola di Manhattan Beach, prima cellula dell’isteria di massa, venne rasa al suolo. Quel che poi accadde in seguito, purtroppo, è che il caso McMartin ha fornito un modello per altre decine di casi-fotocopia in tutto il mondo. Anche in Italia, alle porte di Roma. Il proliferare di eventi sovrapponibili, se andiamo ad analizzare circostanze e individui scatenanti, ci porta inevitabilmente alla definizione di paranoia, che può essere vista come una lucida sospettosità, una diffidenza pervasiva, un timore degli altri, che vengono percepiti come minacciosi e aggressivi.
Il più lucido studioso di riferimento, l’analista junghiano Luigi Zoja, autore del libro “Paranoia — La follia che fa la storia”, scrive con un occhio rivolto alle dinamiche dell’adesione di massa al nazifascismo che “il contagio mentale di massa ha funzionato spesso come un gigantesco moltiplicatore degli atteggiamenti paranoici”. Un fattore moltiplicatore legato a una sindrome di accerchiamento e all’uso di una comunicazione di massa orientata in tale senso. Nel corso della Storia abbiamo visto più volte la costruzione di un nemico esterno (ad esempio, il popolo ebraico) per distogliere l’attenzione dal nemico interno (ad esempio le crisi sociali). A ciò, servendosi delle categorie junghiane, si connette un “ambiente paranoico”, legato a “una perturbazione tempestosa della psiche collettiva”. L’esistenza, secondo Jung, di un inconscio collettivo potrebbe da solo spiegare le psicosi di massa, come quella che lo stesso Defilippi ha descritto in “Angeli”, ambientandola a Collegno, sede del grande manicomio torinese.
Leggendo il libro di Zoja emerge tutto il fascino perverso ma anche la potenza del contagio psichico pandemico, lucida follia in grado di schizzare fuori dalla patologia individuale per lanciarsi alla conquista della massa. In tale processo sono sempre presenti degli individui particolari, i cosiddetti “paranoici di successo” (Hitler e Stalin i più rappresentativi, ma ognuno di noi potrebbe produrre un elenco sorprendente…), carismatici, convincenti, aizzatori di folle deprivate, gente in cui il delirio non è direttamente riconoscibile. Tipologie di leader che sempre si ritrovano a gestire le “infezioni” psichiche, al punto da lasciare il proprio segno sull’olocausto dei nativi americani, la Grande Guerra, i pogrom, i totalitarismi del Novecento per arrivare alle recenti guerre preventive alla caccia di “armi di distruzione di massa”.
Recentemente intervistato al riguardo, Zoja ha detto: «Esiste invece una connessione tra potere carismatico politico, filosofico e paranoia. A volte tanto più sei paranoico tanto più riesci ad avere successo. Anche perché nella paranoia l’intelligenza rimane lucida. L’esempio più clamoroso è quello di Hitler che trovò negli ebrei il capro espiatorio in una Germania in crisi e devastata dall’inflazione. La paranoia funziona di più nella modernità perché lavora in sincrono con i mass-media. Questi, proprio come la paranoia, si basano sulla semplificazione del messaggio, sulla ricerca a tutti i costi di un responsabile. Anche se il media cerca di essere di buona qualità, quasi sempre aiuta la paranoia. Sudhir Kakar è uno psicoanalista indiano affermato e mi trovavo con lui a un convegno. Si è parlato con lui dei progrom che avvengono in India dai tempi dell’indipendenza, quasi sempre contro la minoranza mussulmana, che è una minoranza per modo di dire, di 130 milioni di persone. Ogni anno ci sono delle fasi quasi stagionali di lotta che nascono da leggende tipo “Un mercante mussulmano ha trattato male una mucca (che per gli Indù è sacra)”. Storie che iniziano come una leggenda, ma quando non c’era la televisione tutto rimaneva tutto più circoscritto e anche se la “voce” arrivava in un altro luogo lo faceva più lentamente così che la polizia potesse prepararsi. Oggi, tramite la televisione lo sanno tutti istantaneamente e anche se quella di stato manda messaggi pacificatori tentando di stemperare dicendo che le forze dell’ordine sono intervenute subito in difesa della minoranza, la rivolta scoppia lo stesso perché il messaggio esplicito è la violenza. Il contagio psichico esiste e si basa sulla paranoia, che è un fenomeno storico. Spesso il leader più paranoico ha avuto più successo e la paranoia è contagiosa, è collettiva. Purtroppo le persone semplici sono anche quelle che ascoltano troppa televisione e si fanno contagiare.»
Nel 1985, in piena sindrome McMartin, in America si creò il Violence Epidemiology Branch (Sezione di Epidemiologia della Violenza) presso il Centro Federale del controllo delle malattie (CDC) di Atlanta, allo scopo di prevenire morti premature e inutili. Atto istitutivo che aveva convinto un bel numero di addetti ai lavori e operatori della sanità pubblica ad accostarsi al problema come se si fosse trattato di un virus. I dati parlavano chiaro: soprattutto tra i più giovani gli omicidi, ma spesso anche i suicidi, si susseguivano a “grappoli imitativi”. Fatti ai quali non risultava estranea l’influenza mediatica, anche se non si capisce ancora oggi come si possa impedire a giornali e a televisioni di divulgare le notizie. Al di là di comprensibili dibattiti pro o contro, la contraddizione degli anni Ottanta si manifestava in tutta la sua evidenza, ovvero si poteva respingere a fini puramente strumentali l’ipotesi del contagio psichico in sede processuale per il caso dei bambini accusatori, ma la si accettava in toto nientepopodimeno che al CDC di Atlanta per altre motivazioni. Quel che di certo emerge, oggi ancora più di ieri, è che il contagio psichico sembra proprio essere uno dei motori della Storia contemporanea. Chi governa il mondo ben lo sa, come sa che da persona a persona si trasmette energia di qualsiasi tipo, un’influenza invisibile mille volte amplificata dalla Rete e dai social network. Senza tirare in ballo al momento Bilberderg Club o cupole massoniche (ma lo faremo…), l’utilizzo manipolato del contagio psichico da parte di alcuni centri di potere allo scopo di diffondere inquietudine e instabilità pare una certezza, soprattutto se analizziamo a dovere quanto accade in Borsa dopo certi annunci che colpiscono alla cieca la mente collettiva alla stregua di qualche super-virus.
Se diventa impossibile non ricordare a questo punto il concetto di contagio memetico introdotto negli anni Settanta da Richard Dawkins (il “Meme egoista” tenderebbe a propagarsi usando il cervello degli individui infettati per trasmettersi ad altri soggetti), ci piace in conclusione ritornare sul libro di Defilippi per rilevare come, sul terreno predisposto nel plot del contagio psichico collettivo, lo scrittore torinese — che è pure, non lo si dimentichi, analista junghiano — si soffermi anche su un’altra forma del medesimo, la cosiddetta folie à deux, termine oggi non più ufficialmente adoperato ma certo esplicativo, al quale si potrebbe preferire la definizione di Pietro Sarteschi, che nel suo “Manuale di Psichiatria”, parla di psicosi indotta, descrivendola come “la trasmissione di idee deliranti da una persona affetta da una psicosi a un’altra più debole e ricettiva generalmente legata alla prima da un rapporto di dipendenza e talora di parentela”.
Gli esempi non mancano. Si può ricordare la strage commessa da Rosa Bazzi e Olindo Romano, avvenuta a Erba l’11 dicembre 2006. Con un brano esplicativo di un articolo pubblicato da La Provincia di Como il 16 marzo 2010: «Olindo e Rosa, autori di una confessione poi ritrattata, tentano il tutto per tutto. I giudici della corte d’Assise d’appello milanese devono pronunciarsi sulle richieste che il collegio di avvocati che li assiste, Fabio Schembri, Luisa Bordeaux e Nico D’Ascola, avanzerà formalmente oggi. In cima alla lista c’è un’istanza di perizia psichiatrica: Schembri e soci vorrebbero che i loro assistiti fossero nuovamente esaminati, anche alla luce di una consulenza, allegata alla loro richiesta, in cui si ipotizza che Rosa sia affetta da un “disturbo delirante” mentre Olindo da una “psicosi indotta” al punto “da poter pensare a una cosiddetta folie a deux”, ovvero una pazzia a due “in cui Olindo è l’elemento debole e inducibile della coppia”». Ma ancora: gli omicidi di “Luwig” (Abel e Furlan) il caso pugliese di Castelluccio dei Sauri (l’omicidio della giovane Nadia Roccia da parte di due amiche) e l’indimenticata strage di Novi Ligure. I più famosi tra decine di casi, giusto limitandosi alla casistica nazionale.
Insomma, quando dietro un solo libro si agita una mole tale di argomentazioni, non possiamo che consigliarne la lettura.