di Marilù Oliva

DantePeg.jpgProponiamo la seconda parte del capitolo tratto dal libro Il codice Dante. Cruces della “Commedia” e intertestualità novecentesche di Daniele Maria Pegorari, il punto conclusivo di anni di ricerca intorno alla Commedia come codice di un complesso sistema semiotico nutrito di citazioni dirette o allusioni nascoste che si struttura su tre differenti livelli: il primo è quello delle fonti attraverso le quali Danti instaura un affascinante rapporto con tutta la tradizione letteraria occidentale (pagana, cristiana e medievale), costruendo il Poema come una summa della cultura del suo tempo; il secondo livello è quello delle relazioni intratestuali che s’instaurano fra le singole parti della Commedia e fra questa e le altre opere del Fiorentino; il terzo livello si concentra sul Poema come codice ‘genetico’ della letteratura italiana e occidentale, con particolare riferimento a quel fenomeno che in età contemporanea abbiamo preso a chiamare ‘dantismo’, per il quale numerosi autori non hanno saputo sottrarsi al magistero di Dante. A dimostrazione di quest’ipotesi convergono i sei corposi saggi su Marx, Gramsci, Gozzano, Montale, Pasolini, Luzi e Loi, che consentono di dimostrare come i singoli prestiti siano indispensabili per il commento delle rispettive filosofie e poetiche.

Il codice Dante: Marx e Gramsci o della solitudine dell’eresiarca (parte II)

Data la formazione letteraria, prima che politica, del personaggio, sorprenderà di meno scorgere un’analoga traccia autobiografica nel più importante seguace italiano di Marx, Antonio Gramsci, i cui Quaderni del carcere scritti, come si sa, dal 1926 al 1937 durante la prigionia cui il pensatore viene sottoposto dalla dittatura fascista, contengono, quale unico affondo squisitamente letterario e non immediatamente legato all’articolazione della sua dottrina politica, una riflessione di esegesi dantesca: si tratta degli appunti sul canto X dell’Inferno redatti nel Quaderno 4, sulla scia di un’antica curiosità non appagata durante i corsi universitari torinesi di Letteratura italiana e Storia dell’arte, rispettivamente tenuti da Umberto Cosmo e Pietro Toesca (1), come confermerà la Lettera 253 del 20 settembre 1931, in cui Gramsci trasmette alla cognata lo schema degli appunti stesi, al fine di sottoporli proprio al giudizio del prof. Cosmo (2) . La lettera è da considerarsi il terminus ante quem di gran parte delle note su Inf. X (Quaderno 4, 78-85) (3), stante l’abitudine, altrove documentata (cfr. Lettera 286 a Tania, 22 febbraio 1932), di inviare ai propri interlocutori un sommario razionale, solo dopo aver riversato sulle pagine dei Quaderni le proprie riflessioni, con tempi e modi generalmente discontinui. La richiesta di poter avere in carcere «una Divina Commedia di pochi soldi» compare addirittura nella famosa Lettera 1 dell’autunno 1926, indirizzata alla «Gentilissima signora» Clara Passarge, sua padrona di casa a Roma a partire dalla primavera del 1924: un’epistola mai recapitata, poiché sequestrata dalla polizia e allegata agli atti processuali presso il Tribunale Speciale. Ma quando finalmente la cognata Tatiana potrà cominciare a fargli consegnare i libri e le riviste di cui l’intellettuale sentiva il bisogno per sottrarsi all’abbrutimento e per tenersi pronto alla rinnovata battaglia ideologica che auspicava per il futuro, ecco che nella sua cella entrerà «il Dante minuscolo hoepliano» (è ancora la Lettera 253 a testimoniarlo), insieme con i volumi di Benedetto Croce La poesia di Dante (1921) e Poesia e non poesia (1923), entrambi editi da Laterza.
Essi fanno parte, insieme con il Dante, Farinata, Cavalcanti del giornalista Vincenzo Morello, detto Rastignac (A. Mondadori, Milano 1927), di una serie di opere richieste a Tania nella Lettera 134 da Turi del 17 dicembre 1928, il che dimostra che l’intenzione di rovesciare la ben nota distinzione crociana fra ‘poesia’ e ‘struttura’, funzionale per Gramsci alla maturazione del suo pensiero filosofico-politico e alla messa a punto di una strumentazione critico-analitica finalizzata all’esercizio della guida politica, sin da principio nasce con un preciso riferimento applicativo al canto degli eretici, e che essa è ben formata nella mente di Gramsci molto prima del 1930, anno a cui si possono far risalire le prime pagine del Quaderno 4. Già il 26 agosto 1929 (Lettera 161), ricordando a Tatiana di fargli tenere il saggio di Morello (nella speranza ch’esso possa informarlo sul più recente dibattito critico), le annuncia di aver «fatto una piccola scoperta che […] verrebbe a correggere in parte una tesi troppo assoluta di B. Croce sulla Divina Commedia»; il nucleo di questa intui-zione vi è già compendiato nel confronto fra l’espressione della dannazione nell’episodio degli eretici e l’estetica classica del dolore, così com’è attestata nel ciclo delle pitture pompeiane. I rimanenti appunti (Quaderno 4, 86-88) sono, invece, da considerarsi successivi e risalenti probabilmente al marzo 1932, quando G. viene raggiunto dalla risposta di Cosmo (ricopiata al § 86) e mostra di non aver intenzione di proseguire nello sforzo esegetico (come, invece, gli suggeriva il vecchio professore) e di ritenere più funzionale al proprio ruolo di rappresentante «di un gruppo sociale subalterno» la dimostrazione di saper «far le fiche» (caso eccellente di metatestualità, visto che l’espressione è dantesca, da Inf. XXV, 2) al tipo di intellettuale ‘ruffiano’ del potere, incarnato da Morello.
Uno dei più squisiti intenti ermeneutico-letterari dell’opera gramsciana si è così rapidamente risolto sul piano più consueto della contesa politica e dell’affilamento delle armi dialettiche. Tuttavia le note sul canto di Farinata e Cavalcanti, vergate, dunque, tra il 1930 e l’estate del ’31, non appaiono affatto prive d’interesse se contestualizzate nell’ambito degli studi dantologici fra le due guerre e rapportate alla consuetudine di considerare Inf. X come il ‘canto di Farinata’, riservando al microepisodio di Cavalcante (4) un ruolo marginale e persino d’intralcio narrativo alla compattezza poetica’ della rappresentazione dell’«altro magnanimo»: la parentesi cavalcantiana, anzi, obbligherebbe la parabola di Farinata a subire una deviazione ‘strutturale’, piegandola alle ragioni ‘didascaliche’ delle delucidazioni sulla preveggenza e l’ignoranza degli eretici. Gramsci riesce, invece, a dimostrare persuasivamente come la scissione fra struttura e poesia renda inefficace la lettura di questo canto e eluda la necessaria cooperazione dell’una e dell’altra categoria al pieno dispiegamento del senso.
Capovolgendo la gerarchia tradizionale fra i due personaggi del canto, Gramsci fa di Cavalcante il vero cuore dell’episodio, in quanto nell’ottenebramento del suo intelletto e nella indescrivibilità del suo dolore risiede la vera natura del contrappasso riservato agli epicurei («Cavalcante è il punito del girone. Nessuno ha osservato che se non si tien conto del dram-ma di Cavalcante, in quel girone non si vede in atto il tormento del dannato», Quaderno 4, 78), laddove la presenza di Farinata riveste quasi la funzione di cornice, non certo accessoria, ma destinata, semmai, dapprima a far risaltare ‘drammaturgicamente’, con la sua imperturbabilità, la passione dolorosa del padre di Guido e poi a dare l’indispensabile giustificazione teorica all’equivoco nel quale era caduto il compagno di pena. Senza l’improvvisa sortita di Cavalcante e il suo riferimento all’«altezza d’ingegno», infatti, non coglieremmo in atto lo stato dell’eretico dannato, costretto a veder punita la cieca fiducia riposta nel materialismo razionale, attraverso il supplizio di una mente resa capace di leggere il lontano futuro, ma espropriata delle più comuni facoltà di conoscenza del presente o di previsione del futuro prossimo. Così l’anima è costretta a vivere «in un cono d’ombra» (Lettera 253 e Quader-no 4, 86), in cui la dolorosa memoria del passato e la chiara preveggenza del futuro — ben esemplificate da Farinata — sono significativamente compensate da quell’ignoranza del presente che, scolpita nella maschera di Cavalcante, riduce lo stato degli eretici a una condizione men che umana.
Culmine tragico di questa cecità intellettuale è lo sgomento determinato dall’uso del tempo remoto nella celebre risposta di Dante («colui ch’attende là, per qui mi mena / forse cui Guido vostro ebbe a disdegno», vv. 62-63): per Gramsci «su “ebbe” cade l’accento ‘estetico’ e ‘drammatico’ del verso ed esso è l’origine del dramma di Cavalcante, interpretato nelle didascalie di Farinata» (Quaderno 4, 80), in quanto è la definitiva manifestazione d’inferiorità dell’«ingegno» eretico, attestata dall’equivoco linguistico. Avendo creduto che la risposta contenesse la notizia della perdita del figlio, Cavalcante tace e improvvisamente si eclissa alla vista del pellegrino. Se si tien conto che, per questioni cronologiche, Gramsci non poteva conoscere la lucida osservazione di Erich Auerbach (Dante als Dichter der irdischen Welt, 1929) intorno a quel silenzio come perfetta espressione dell’atteggiamento eretico — di una mente, cioè, che non credendo all’immortalità dell’anima, non solo giunge a negare l’evidenza stessa del proprio essere anima, ma pure non avverte il bisogno di chiedere informazioni circa il destino oltremondano del figlio —, risalta allora tutta l’acutezza delle note del Quaderno 4, in riferimento al capovolgimento della «razionalità» in «passione», e in una passione luttuosa che, come già nell’arte classica (gli esempi addotti sono quelli dell’iconografia di Agamen-none e di Medea, entrambi uccisori dei figli), non può essere rappresentabile. Vi sarebbe, così, una retorica delle «rinunzie descrittive» (come le definiva Luigi Russo sul «Leonardo» dell’agosto 1927) non esclusiva dell’ineffabile paradisiaco, ma caratteristica anche dei luoghi dell’estremo dolore nell’Inferno.
Dante, secondo Gramsci, metterebbe in risalto l’inaccettabilità del dolore più grande, quello per la perdita del figlio, proprio troncando di netto il cuore poetico del canto e contrapponendovi l’indifferenza di Farinata, espressione complementare del materialismo epicureo: quanto ciecamente passionale è la condizione del padre di Guido, altrettanto ciecamente impassibile è quella del suocero di questi. Di qui ha origine la sarcastica contestazione della lectura di Morello che, invece, tentava di rintracciare le ragioni del distacco di Farinata in presunte intenzioni collocate oltre la «portata della espressione letterale» concretamente realizzata, secondo «la mentalità dell’uomo del po-polo», che integra il racconto dato con amplificazioni psicologiche e congetture storiche tutt’altro che essenziali e ampiamente arbitrarie (Quaderno 4, 83). Al contrario, restando ancorato al testo, Gramsci sottolinea la necessità ‘poetica’ dell’atteggiamento di Farinata degli Uberti e del suo sussiego esplicativo nei vv. 100-108, l’uno e l’altro legati all’episodio di Cavalcante come le «didascalie» alla scrittura teatrale: se alle battute è affidata l’intensità poetica del dramma, la didascalia nel teatro moderno ha «un’importanza essenziale, in quanto limita l’arbitrio dell’attore e del direttore», inglobando parzialmente la funzione dei monologhi in uso nel passato (Lettera 253). Notò giustamente Cosmo, nelle sue considerazioni epistolari spedite da Torino il 29 dicembre 1931 (ma giunte a Gramsci circa tre mesi dopo, come testimonierebbe il confronto fra una lettera di Tatiana del 16 febbraio 1932 e la Lettera 293 del 21 marzo 1932, con un ritardo che sarebbe addebitabile a Piero Sraffa, incaricato della mediazione epistolare), che l’interpretazione di Gramsci, nonostante riesca a dimostrare che «anche la struttura dell’opera ha valore di poesia», è in qualche modo figlia essa stessa della lezione crociana, dal momento che non abroga, ma rifunzionalizza la dicotomia fra poesia e struttura: cosa che non è sfuggita alla critica gramsciana più avveduta (5).
È passato inosservato, invece, che, mentre nelle Lettere e nei Quaderni 10-29, successivi al 1932, i riferimenti a Dante non mancano, ma sono sempre più sporadici e d’interesse marginale, i Quaderni 5-9, coevi o di poco succes-sivi alle note su Inf. X, rivelano una messe di presenze dantesche, quasi che le riflessioni esegetiche fin qui ricordate e la consuetudine con la lettura della Commedia (e in parte anche delle opere minori) avessero fatto di Dante un punto d’interrogazione costante per il pensatore sardo. Illuminante è in Quaderno 5, 85 l’accostamento del poeta a Machiavelli, in quanto promotore di quella corrente laica della letteratura politica italiana che culmina nella visione — propria del Segretario fiorentino, ma ancorata a un «linguaggio medioevale» — «della Chiesa come problema nazionale negativo»; in Quaderno 6, 85, invece, si fa più esplicita l’affermazione di una distanza fra il «nuovo ghibel-linismo» di Dante, utopia di «un vinto della guerra delle classi», e il Principe di Machiavelli, prima formulazione autonoma delle questioni statuali poste dal-la modernità.
Il carattere ancipite della funzione intellettuale rappresentata da Dante si annoda ancora una volta a una riflessione di Croce a proposito di quella estenuazione dei motivi letterari, che si produce quando si pretenda di generare, come per «partenogenesi» (B. Croce, Troppa filosofia, in «La Critica», XXI, 1923, pp. 61-64: 63), la poesia dalla poesia, senza «l’intervento della parte maschile, di ciò che è reale, passionale, pratico, morale». In Quaderno 6, 64 Gramsci traduce la questione nei termini classici del materialismo storico: le «superstrutture» artistiche, infatti, non possono generarsi da sole, se non come forme epigoniche di una cultura conservativa, mentre al contatto con l’elemento vivo della «storia» esse producono quei capolavori dell’arte a cui si consegnano i nuovi rapporti sociali. La Commedia, a questo proposito, assume il carattere straordinario di opera di transizione, a cavallo fra «vecchio» e «nuovo uomo», sintesi suprema di un sistema culturale appartenente al passato e messo in crisi dall’anarchia comunale («canto del cigno medievale») e anticipazione di una nuova funzione intellettuale di tipo umanistico.
Questa intuizione è sviluppata, poi, in Quaderno 7, 68, in margine alla re-censione di Arezio al saggio di Toffanin, Che cosa fu l’Umanesimo (Firenze, Sansoni, 1929), apparsa sulla «Nuova Antologia» del 1° luglio 1930. Partendo dal rovesciamento dell’equazione burckhardtiana fra Umanesimo e laicità, Gramsci distingue, all’interno di una nozione più comprensiva di Rinascimento (che, sia pure con variabili geografiche, interessa l’Europa dalla fine dell’XI al XVI secolo: cfr. Quaderno 5, 123), una fase comunale, coincidente in Italia con i secc. XII-XIII e connotata da un’istanza rivoluzionaria, borghese e antifeudale, da una fase umanistico-latina, caratteristica dei secc. XIV-XV, in cui la reazione alla crisi delle istituzioni comunali assume una direzione neoaristocratica, sia nelle forme statuali che nel rapporto fra intellettuali e masse. I Comuni vengono qui visti come forza progressiva e costitutivamente «eretica», poiché portatori, sul piano politico, di una scompaginazione, insieme, dell’unità imperiale e dell’egemonia pontificia e, sul piano culturale, dell’indipendenza dal classicismo e della promozione letteraria della lingua volgare; al contrario, l’Umanesimo accompagna la trasformazione dell’alta borghesia imprenditoriale in proprietà agraria e l’irrigidimento delle spinte democratiche entro le forme della signoria, attraverso una cultura educata al rispetto dell’auctoritas letteraria e religiosa che presenta «una non superficiale affinità con la Scolastica».
Ora, appare particolarmente interessante notare che Gramsci individua in Guido Cavalcanti l’esponente massimo di quell’intellettualità comunale ‘eretica’ che aveva posto l’esigenza dell’abbandono di Virgilio e dei «liberali studi», secondo una linea di sviluppo della civiltà che sarà ripresa solo da Machiavelli e dalla Riforma; al contrario dell’amico Guido, Dante compare in quella stessa pagina nella consueta collocazione di uomo della crisi, da un lato fondatore di quel volgare illustre che diverrà il primo fondamento dell’identità nazionale italiana (tema sul quale convergono anche le pagine di Quaderno 6, 78 e più tardi, nel 1935, anche quelle di Quaderno 29, 7), dall’altro teorico di una soluzione politicamente autoritaria e culturalmente elitaria, per la quale probabilmente Gramsci aveva in mente soprattutto la Monarchia e il Paradiso. Non può sfuggire, a questo punto, la suggestione offerta al nostro autore proprio da quel canto X dell’Inferno nella cui lettura era allora immerso e, in particolare, da una possibile interpretazione del celebre v. 63 («forse cui Guido vostro ebbe a disdegno»): in Quaderno 4, 82, infatti, Gramsci non aveva mostrato alcuna incertezza nell’identificare il «cui» con Virgilio (ipotesi oggi molto meno accreditata, rispetto a quella che vuole si riferisca a Dio o, soprattutto, a Beatrice), accogliendo la nota esplicativa che trovava nella modesta ma praticissima edizione tascabile hoepliana della Commedia, ma rielaborando in chiave storico-culturale la spiegazione morale ivi fornita da Raffaello Fornaciari. Il disdegno di Guido per Virgilio non sarebbe stato quello dell’epicureo strettamente inteso per «la ragione naturale soggetta alla fede», ma l’espressione di una volontà di «discontinuità storica» (Quaderno 7, 68) rispetto al mondo classico, il cui soccorso (morale, politico, stilistico) è invece invocato da Dante.
Data la complessità e il numero dei riferimenti a Dante, non credo sia ragionevole dubitare della congruità e della pertinenza di questo interesse storico-letterario, sia pur all’interno di una costruzione ‘editoriale’ così ambiziosa da prevedere che l’argomentazione di un’organica storia sociale degli intellettuali e l’elaborazione di una filosofia della prassi sia immediatamente legata e finalizzata a un programma politico progressista, attraverso la critica sistematica ai totalitarismi. È, dunque, indubitabile che pressoché ogni passaggio della scrittura gramsciana (dalla critica dell’estetica crociana alle riflessioni sul machiavellismo, dalla storia del Risorgimento alla questione della lingua) abbia un ‘movente’ politico, nel senso più alto e lato del termine, cioè serva a porre argomenti per la costruzione di un pensiero antagonista fondato sui metodi della conoscenza storica (cosa che fa di Gramsci un critico e un filosofo ‘militante’); ma non mi pare plausibile ricavarne l’ipotesi che la lettura del canto X dell’Inferno e persino l’intera critica della filosofia di Benedetto Croce siano addirittura un messaggio in «codice», come recentemente hanno sostenuto alcuni pur autorevoli studiosi di Gramsci, impegnati, però, più sul fronte della politologia che su quello dell’italianistica, per i quali Gramsci in queste pagine «maschera la volontà di comunicare qualcosa di più attuale» alla direzione del Partito, rimasto nelle mani di Togliatti, aggirando così la censura fascista (6). L’ipotesi è suggestiva solo per gli amanti dei gialli, ma certo vedrebbe un’opera di alcune migliaia di pagine (fra Quaderni e Lettere) ridotta a un’elefantiaca finzione enigmistica, e il suo autore, che in carcere organizzava persino corsi e seminari per resistere alla mortificazione delle coscienze e tener deste le menti in vista di una sicura liberazione, ne risulterebbe solo un dirigente bisognoso di manifestare ai suoi compagni il proprio dissenso per essere stato tagliato fuori da ogni comunicazione circa lo stato presente del Partito. Ciò lo avrebbe fatto sentire vicino a Cavalcante (il padre preoccupato e afflitto) piuttosto che a Farinata (l’eroe che si appaga del proprio «dispetto», lo sdegno nei confronti dell’inferno nel quale è relegato, ma nulla può fare per la sorte propria e altrui).
L’ipotesi del messaggio cifrato non mi persuade, eppure credo che ci sia del vero nell’individuazione di un certo transfert autobiografico per il quale alla simpatia ideologica per l’eretico e ‘rivoluzionario’ Guido (secondo la lettura antifeudale e borghese di Quaderno 7, di cui si è poc’anzi detto) si sovrappone la simpatia umana per il padre Cavalcante condannato al più atroce supplizio del «cieco / carcere», il quale per colui che nega l’immortalità dell’anima non coincide con l’impossibilità di vedere Dio, bensì con quella di conoscere la sorte dell’amato figlio: nella sua coazione fra la previsione scientifica e ideologica del futuro e l’ignoranza del presente, il teorico comunista vedeva probabilmente riflessa la propria stessa vicenda di uomo violentemente sottratto alla cura dei figli (dei quali ripetutamente chiedeva notizie nelle coeve Lettere) e di filosofo della praxis che dalla reclusione si vedeva negata quella vita di Partito che per lui significava l’unica verifica attendibile della propria giustezza. E dunque più che mai per Gramsci la prigione fascista, con la sua esclusione dalla illuminazione della realtà, equivaleva a un «cieco / carcere».

NOTE
1. La miglior contestualizzazione delle riflessioni gramsciane all’interno del dibattito dantologico torinese si ha in C. CORDIÉ, Il canto X dell’Inferno nella critica di Umberto Calosso e di Antonio Gramsci, in AA. VV., Miscellanea di Studi Danteschi in memoria di Silvio Pasquazi, Fede-rico & Ardia, Napoli 1993, vol. I, pp. 277-287.
2. L’edizione delle Lettere dal carcere considerata è quella curata da A.A. Santucci, Sellerio, Pa-lermo 1996.
3. Ancorché sia largamente in uso l’edizione ‘tematica’ dei Quaderni del carcere (6 voll., Editori Riuniti, Roma 1991; Il canto decimo dell’Inferno vi compare nel volume Letteratura e vita nazionale, pp. 38-52), certamente più leggibile e funzionale alla comprensione della vastità dell’impresa progettata da Antonio Gramsci, è d’obbligo attingere le citazioni e i riferimenti numerici all’intramontabile edizione critica a cura di V. Gerratana (Einaudi, Torino 19772, preferita a quella del 1975 perché emendata).
4. A vantaggio del lettore ritengo utile riportare integralmente il passaggio di Inf. X, 52-75: «Allor surse a la vista scoperchiata / un’ombra, lungo questa, infino al mento: / credo che s’era in ginocchie levata. / Dintorno mi guardò, come talento / avesse di veder s’altri era meco; / e poi che ‘l sospecciar fu tutto spento, / piangendo disse: “Se per questo cieco / carcere vai per altezza d’ingegno, / mio figlio ov’è? e perché non è teco?” / E io a lui: “Da me stesso non vegno: / colui ch’attende là, per qui mi mena / forse cui Guido vostro ebbe a disdegno”. /Le sue parole e ‘l modo de la pena / m’avean di costui già letto il nome; / però fu la risposta così piena. / Di subito drizzato gridò: “Come? / dicesti ‘elli ebbe’? non viv’elli ancora? / non fiere li occhi suoi lo dolce lume?” / Quando s’accorse d’alcuna dimora / ch’io facea dinanzi a la risposta, / supin ricadde e più non parve fora. / Ma quell’altro magnanimo, a cui posta / restato m’era, non mutò aspetto, / né mosse collo, né piegò sua costa».
5. Le voci più autorevoli sulle relazioni fra Gramsci e Croce a proposito delle pagine dantesche dei Quaderni del carcere sono le seguenti: B. ANGLANI, La revisione gramsciana di Croce e il concetto di ‘struttura’ nelle note sul canto decimo dell’“Inferno”, in AA.VV., Gramsci e la cultura contempora-nea, vol. II, Editori Riuniti, Roma 1970, pp. 339-346; ID., Egemonia e poesia. Gramsci: l’arte, la letteratura, Manni, Lecce 1999, pp. 139-147; R. DEL SASSO, Il rapporto struttura-poesia nelle note di Gramsci sul decimo canto dell’Inferno, in AA.VV., Studi gramsciani, Editori Riuniti, Roma 1958, pp. 123-142; C. GARBOLI, Struttura e poesia nella critica dantesca contemporanea, in «Società», VIII, 1952, pp. 34-35; L. MARTINELLI, Gramsci, in Enciclopedia dantesca, vol. III, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1970, p. 265; EAD., Dante. Storia della critica, Palumbo, Palermo 1966.
6. La tesi è contenuta in A. ROSSI, G. VACCA, Gramsci tra Mussolini e Stalin, Fazi, Roma 2007, in part. nel paragrafo Dante corriere segreto fra Gramsci e Togliatti, pp. 38-46.