di Luca Baiada (da Il Ponte, LXVIII n. 7, luglio 2012)

Eternit.jpg[Si ringrazia la rivista Il Ponte per la gentile concessione.]

Scrivo ascoltando il movimento Aria per gli schiavi africani, dalle Indie Galanti di Rameau. Un buon accompagnamento, per la giustizia della globalizzazione.
Nel 2012, due decisioni importanti. All’Aia, la Corte internazionale di giustizia dà ragione alla Germania, sui crimini di guerra. A Torino, il Tribunale condanna l’Eternit.
Quando i crimini sono enormi, si pongono problemi di misura. I colpevoli sono quasi sempre persone piccine, che solo il sangue rende visibili. Oscuri burocrati, mediocri militari, figli di papà invecchiati. Nei crimini nazifascisti si sfogano aggressività messe in divisa dal peggio del Novecento, al servizio del tornaconto. Nell’Eternit gli autori più visibili sono i massimi beneficiari dell’arricchimento, possessori di fortune continentali: soprattutto lo svizzero Stephan Schmidheiny e il belga Louis De Cartier. Le vittime sono folla, che la storia e la giustizia faticano a individuare, col rischio di farne un mucchio senza nome. Quelle identificate sono oltre seimila, e la lettura del solo dispositivo, a Torino il 13 febbraio, richiede ore. Scena grande e inquietante. Tutti in piedi mentre scorrono brevemente articoli del codice, e poi per ore nomi, nomi e ancora nomi di persone e famiglie derubate di vite, di salute, di affetti. I fatti riprendono il loro posto. La scena ricorda gli eventi memoriali della Resistenza, per esempio quello del 24 marzo a Roma, alle Fosse Ardeatine. E il rischio di fare mucchio è stato evitato: la commozione e il calore di persone di ogni età hanno fatto sentire che quei nomi non sono soltanto parole.

La differenza di reclutamento dei giudici è abissale. Quelli dell’Aia beneficiano di un gradimento politico mediato dalla tecnica. Quelli di Torino hanno garanzie di indipendenza e radicamenti territoriali che si innervano con la storia italiana. Nella voce del presidente che ha letto il dispositivo, un accento meridionale trapiantato sulle Alpi, levigato da anni di lavoro, rintocca qualcosa di familiare. L’Italia «culla del diritto penale», parole benevole per dire che una penisola aggrappata all’Europa e ficcata nel Mediterraneo, povera di risorse e con un passato più brillante del presente, è piena di legulei, anche se non tutti in gamba come i magistrati del processo Eternit. La sentenza è il frutto di un lavoro eccezionale, pur se gli effetti si devono ancora vedere. Qualche tentativo di spostare il processo altrove ribadisce che il radicamento dei magistrati va protetto. Messo a confronto con l’Aia, questo conferma quanto sia asettica la giustizia internazionale.
Il coraggio di Torino sta nell’aver impostato i reati ambientali come dolosi e non colposi. La distinzione è nel codice penale: il delitto è doloso quando l’evento dannoso o pericoloso è preveduto e voluto come conseguenza della propria azione o omissione; è colposo quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, o per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline. Formula meccanica, apparentemente limpida, su cui si costruiscono distinguo, responsabilità, innocenza. La sostanza è profonda, e anche un bambino dice presto: «Non l’ho fatto apposta».
I reati fatti apposta costruiscono un’illegalità puntiforme; quelli colposi, una violenza diffusa, a macchia, che estende i danni per le vittime e i benefici per gli autori. La violazione sistematica di cautele, nel traffico, nella produzione, nel consumo, spande conseguenze nello spazio e nel tempo. Nello studio teorico ci si concentra sul delitto doloso, quello colposo è un campo minato. Il potere mediatico insiste su pochi delitti dolosi, gestibili, politicamente innocui o comodi come diversivo (specie omicidi morbosi a sfondo familiare). Soprattutto, la capacità di danno nel reato colposo cresce con la distanza fra l’autore e le vittime. Il vertice di un’impresa può fare cose atroci senza neppure vedere chi sta uccidendo, ma la sua responsabilità resta appesa a perizie, sillabe, sottintesi, stati d’animo.
Costruiti su misura per i reati fatti apposta, i più ficcanti istituti giuridici s’incastrano male con la colpa. Gli arnesi investigativi sono puntati sul dolo, e le telecamere che sorvegliano uno stadio o la sala di una banca non guardano la scrivania di un dirigente d’impresa. La scelta di Torino, cercare il dolo nell’Eternit, restituisce a una classe dirigente la violenza del suo sistema intellettuale. Guariniello riassume bene: «Un metodo nuovo che sta diventando giurisprudenza. Abbiamo scelto di contestare il dolo […] facendo leva su indagini condotte come se si trattasse di qualunque altro caso di quella che voi chiamate cronaca nera». Ancora Guariniello: «Le perquisizioni, in casi come questi, vanno fatte entrando nei consigli di amministrazione per capire cosa davvero è accaduto. Se otteniamo condanne per dolo eventuale, non solo per colpa, è perché siamo entrati nei computer dei dirigenti trovando scambi di mail con direttive per risparmiare sulla sicurezza negli stabilimenti di tutto il mondo». C’è da apprezzare, ma con gli occhi aperti, perché queste cose possono invitare a dure rese dei conti e avere risvolti imprevisti.
I crimini nazifascisti, e in particolare i crimini di stato commessi dalla Germania dal 1943 al 1945 contro gli italiani, sono dolosi. Dopo Stalingrado e la caduta del fronte d’Africa, la Germania si ritira lentamente, sperando invano che si spezzi il fronte antitedesco. Dentro questa scelta ci sono la fortificazione degli Appennini, le stragi, il terrorismo dell’occupante, le deportazioni, il lavoro forzato, la schiavizzazione degli italiani, il saccheggio. La guerra tende ad appiattire i distinguo, anche quelli fra dolo e colpa, e mentre la produzione bellica mostra il suo volto con la Todt, i treni carichi di deportati, i campi di lavoro, invece la produzione in tempo di pace non cattura persone, ma rovescia i suoi danni su tutti. I danni dell’Eternit riguardano intere province, e anche persone estranee alla produzione e al consumo. Guerra e pace si confondono, e il delitto colposo riemerge, come modalità di arricchimento e come porto sicuro per il colpevole. Perciò, la scelta di considerare i reati del caso Eternit come dolosi è un modo per stanare un assediante e un occupante. Se la guerriglia e la resistenza hanno un abito intellettuale, lo indossano in iniziative giuridiche coraggiose, che vanno oltre il latinorum e che fanno del giurista un cittadino.
Il processo Eternit è una Norimberga del tempo di pace. Il paragone con Norimberga non mi mette di buon umore: in concreto, i criminali economici a Norimberga furono trattati con mitezza, a paragone con altri. Se l’arricchimento illecito in guerra tende a sfuggire alla pena quando è processato come reato doloso, figurarsi quello in tempo di pace, processato come colposo. I giuristi dovrebbero reagire: per esempio estendere l’imprescrittibilità, nel solco dei principi di Norimberga, almeno ad alcuni reati più gravi contro l’ambiente, considerandolo parte e cifra dell’umanità. Meglio dei giuristi, si esprime l’arte. Una canzone degli Assalti frontali, Le merde fanno affari: «O partigiano, portami via / quel palo ripetitore / lì sul tetto maledetto / punta dritto alla mia camera da letto».
Proprio l’imprescrittibilità deve far ragionare su un altro aspetto, quello dell’impossibilità per il magistrato, introdotta qualche anno fa, di restare nello stesso incarico oltre un certo periodo. Ci sono danni senza tempo, ma i magistrati che crescono professionalmente scadono come il cacio. L’incongruenza striderà sempre più, man mano che la tutela contro i danni estesi si farà più seria. In casi come l’Eternit, l’idea che il materiale sia eterno persino nel nome, mentre il magistrato è a scadenza e la punibilità anche, è macabra.
La durata dei danni è tale che ne risentono le classificazioni scientifiche e le parole. Di mesotelioma si muore da che è in uso l’Eternit, ma il nome della malattia è arrivato dopo, e forse la medicina in futuro classificherà ancora diversamente. Come a Norimberga, le classificazioni e il diritto si formano durante e tramite il processo, mentre cambia il linguaggio. E anche nei grandi reati ambientali, prima con la violenza si detta l’ordine del discorso, e poi si invoca la difficoltà di classificazione come scusante. L’antidoto contro questo avvelenamento mentale è la formazione delle generazioni: solo la narrazione impedisce che il trascorrere del tempo renda illeggibile la realtà.
Ancora sul tempo, vediamo la sentenza dell’Aia, perché ci sono perle oscene.
Anzitutto. La Corte fonda la sua giurisdizione sulla Convenzione europea per il regolamento pacifico delle controversie (Strasburgo, 29 aprile 1957), entrata in vigore il 18 aprile 1961, che però all’art. 27 ha un limite: non si applica a fatti precedenti. Come supera l’ostacolo, la Corte? Considerando all’origine del contrasto italo-tedesco le decisioni dei giudici italiani sui risarcimenti, invece che l’occupazione, le stragi e le deportazioni. Ecco il tempo a senso unico: giova alla Germania. Non solo. Così la controversia comincia con la giustizia, non con l’ingiustizia: all’origine non c’è la Germania che massacra l’Italia, ma il giudice italiano che fa la bua ai tedeschi. Eppure, se fossero stati risarciti i danni fra il 1945 e il 1961, dopo non ci sarebbero stati i tentativi di ottenere giustizia.
E poi. Secondo la Corte, gli stati sono immuni della giurisdizione, secondo il diritto consuetudinario internazionale. Già, ma il diritto vigente fra il 1943 e il 1945, oppure oggi? Ovvio, per la Corte: quello attuale, perché non si stanno giudicando fatti tedeschi, ma atti dei giudici italiani, cioè processi. Attenzione. Se è passato troppo tempo, prima che l’Italia rimettesse in moto i processi, non è per caso. Lo scandalo dell’armadio della vergogna è dovuto anche alla Guerra fredda e alla divisione della Germania, cioè a fatti storici riconducibili alla storia tedesca. La Germania ha contribuito al trascorrere del tempo senza giustizia, e quel trascorrere determina il regime giuridico applicabile. Ancora il tempo a senso unico.
Di più. La Corte dice che uno stato è immune dalla giurisdizione per gli atti compiuti all’estero in guerra. Cita le decisioni dei giudici di Slovenia, Polonia, Belgio, Serbia, Brasile, in favore dell’immunità tedesca, e quelle della Grecia, che però si è pronunciata in un senso e nell’altro. Sono tutte pronunce successive alla fine della Guerra fredda; tre degli stati da cui provengono (Slovenia, Polonia, Serbia) hanno l’attuale posizione geopolitica anche per effetto della pressione tedesca, e due (Slovenia e Serbia), addirittura sono nati per effetto anche dell’influenza tedesca. Le guerre dei Balcani pagano, e c’è da dubitare che la Jugoslavia avrebbe mai prodotto sentenze filotedesche. Comunque, l’effetto combinato di Norimberga e dell’Aia è grave: a Norimberga per crimini contro l’umanità si giudicano le persone, non lo stato tedesco, che anzi in quel periodo è in una condizione larvale. All’Aia non si giudicano persone, lo stato tedesco è parte ma il fatto che siano stati commessi crimini contro l’umanità è irrilevante.
Sullo sfondo si vedono i veri termini della questione, che riguarda ogni conflitto. Dopo atrocità che sono anche affari, i colpevoli sono morti, invecchiati, o in fuga. Gli stati hanno beni, anche fuori del loro territorio. Se il tempo e il diritto operano diversamente per le persone e per gli stati, le vittime non hanno mai tutela. Ma gli stati ai loro patrimoni ci tengono: sono repellenti, le insistenze tedesche all’Aia per liberare villa Vigoni, sul Lago di Como, dall’ipoteca posta da greci per ottenere un risarcimento. Per quanto costosa, villa Vigoni non basterebbe certo a pagare i danni di guerra. Oggi Pasolini per girare un seguito di Salò sceglierebbe quella villa, e vi ambienterebbe una disputa giuridica tra scimmie e pappagalli in frac: Pornokolossal Pilato, il film sul giustizialismo che manca al cinema italiano.
Infine, sul tempo. Dopo il 1945, i deportati non hanno trovato ascolto, neppure in Germania, ma la Corte dell’Aia se la cava così. L’immunità esiste comunque, e la Corte considera con «sorpresa e rincrescimento» il modo in cui la Germania non paga. Degli stati d’animo i deportati non sanno che farsene, ovvio. E chissà con quali parolacce, chi era al lavoro forzato per i tedeschi fra il 1943 e il 1945, avrebbe accolto la promessa che nel secolo successivo qualcuno all’Aia avrebbe sospirato per lui. Fece bene mio nonno Arnaldo, a sfuggire per un soffio a un rastrellamento; altri non furono così pronti o fortunati. Per colmo di ipocrisia, la Corte nota che i deportati restano a mani vuote, e farfuglia: i risarcimenti «potrebbero essere oggetto di ulteriori negoziati fra i due paesi». Dopo tanto tempo, cosa si offre? Futuro, speranze, tempo. Uno scilinguagno che ricorda una canzone di Fabrizio De André: «Eine kleine Pinzimonie Wundermatrimonien Krauten und Erdbeeren, / und Patellen und Arsellen Fischen Zanzibar». Il finale è chiarissimo: «Und die Alka Seltzer für dimenticar».
La schiavitù resta una cifra della storia, con varie curvature. Nell’insieme, la differenza tra schiavi di guerra e schiavi di pace rende tutto più complesso. La schiavitù di guerra è difficile narrarla; quella di pace, persino percepirla. Ricordo nella mia famiglia i racconti di astuzie, di nascondigli, di terrore sotto l’occupazione. Storie di muri, di vigne e di orti, memorie di fame e di baracche nei boschi, in cui campeggiava l’orrore della deportazione dei maschi, strappati a famiglie che precipitavano nella miseria e nel caos. Invece è un fatto, che i pericoli dell’Eternit siano stati denunciati solo dalla parte più consapevole del mondo sindacale e politico. Altri rischi sono addirittura taciuti. Il lavoro retribuito, anche male, produce un consenso che il lavoro forzato non ha mai. Subito dopo la guerra, in cambio di carbone il governo italiano inviò in Belgio operai. Assunti volontariamente, furono trattati militarmente e alloggiarono nei campi di internamento già dei tedeschi. Vissero sorvegliati, nutriti ma in condizioni non molto diverse da quelle degli schiavi liberati poco tempo prima. Però inviavano a casa un salario, e questo bastava. Va tenuto conto che la percezione di avere alle spalle il calore di un villaggio può fare la differenza, e talvolta può essere alla base della rassegnazione e del silenzio.
Comunque, sul caso Eternit si sono formate solidarietà e fermezze degne di una lotta di popolo, purtroppo solo in alcune aree del paese. E anche su questo, si sente la latitanza di un nazionalismo di sinistra in Italia. Alla lunga, occorrerà tenere conto anche di dinamiche identitarie e memoriali, con cui politici e giuristi hanno poca dimestichezza. Gli schiavi di guerra e quelli di pace raccontano diversamente. Se la generazione successiva rimprovererà alla precedente l’inerzia, tenderà a giustificare. Solo l’impegno di chi si batterà per cambiare le cose eviterà il tradimento dei padri, un mito che fa accettare le catene ai figli.
Più complesso è l’aspetto del legame fra sviluppo economico tedesco nel nazismo e nel dopoguerra, e gruppi industriali nell’Europa del piano Marshall e della Nato. Quanto deve il capitalismo postbellico a quello bellico, a quello fascista, a quello nazista? C’è da dubitare che questo calcolo possa mai essere compiuto, e nessun potere ammetterà mai di galleggiare sul sangue.
In Italia, questo tema incontra anche un ostacolo inconfessabile: il papa è un tedesco che indossava una divisa nella Germania nazista. C’è da chiedersi se questo abbia anche altre conseguenze. Certamente in Italia il processo all’Aia è stato vissuto con un senso di rassegnazione, e dalla sentenza dell’Aia emergono brutti interrogativi. La stessa Corte ha notato che la difesa italiana è stata acquiescente su una questione concernente l’immunità degli stati nel diritto internazionale consuetudinario, ed esitante sul punto se questa immunità trovi eccezione a causa della gravità dei crimini.
Però, nel caso dell’Eternit c’è un legame diretto fra passato e presente: è stato denunciato che il gruppo industriale, attivo sin dall’inizio del Novecento, ha lavorato per la Germania sfruttando gli internati in un campo di concentramento, e in seguito per il regime del Sud Africa, e ancora per il Nicaragua di Somoza. Nello stesso tipo di produzione insomma ci sono persone, forse anche italiani, che hanno diritto al risarcimento per essere state internate nel campo di concentramento dell’Eternit in Germania. Schiavi di guerra. E ce ne sono altre che hanno diritto al risarcimento per aver lavorato, o per essere entrate in contatto, con l’Eternit in Italia. Schiavi di pace. Le offese sono diverse, ma l’esito dei processi, fra la Corte dell’Aia e il più coraggioso Tribunale di Torino, è a vantaggio del secondo.
A Torino, sulle provvisionali per le persone si sarebbe potuto fare di più? Dopo l’inquinamento da isocianato di metile a Bhopal, non ci fu una sentenza indiana sulla complessiva vicenda, perché con la Union Carbide si giunse a un accordo, attribuendo a ogni famiglia in media 2.200 dollari. A Torino sono stati attribuiti sino a 60.000 euro a ciascun parente di persona deceduta, anche per deceduti con più superstiti. D’altra parte l’accordo di Bhopal è di vent’anni fa, e il costo della vita in Italia è ben più alto che nell’India di allora. Il confronto è complesso, anche se certamente Torino ha tutelato meglio le vittime.
I magistrati non sono tutti uguali, e quelli di Torino meritano gratitudine. Scrive Alexandre Dumas su Garibaldi, durante l’impresa dei Mille: «Può darsi che dopo dieci o dodici anni i vostri nemici comincino ad apprezzarvi, ma ce ne vorrà almeno il doppio perché ciò accada con coloro ai quali avete reso un servigio». Si sbagliava, ancora ci sono italiani che parlano male di chi si è battuto per loro. E che i giudici possano dare fastidio, lo confermano le istruzioni di assassinio ai Contras del Nicaragua predisposte negli Usa, Psychological Operations in Guerrilla Warfare: «È possibile neutralizzare obiettivi accuratamente selezionati e pianificati, come magistrati».
Rameau è al termine, sta finendo la Ciaccona dei selvaggi. Adesso voglio ascoltare Luz y norte, del mio quasi omonimo Lucas Ruiz de Ribayaz, un altro musicista del tempo dei grandi imperi. Movimento Zarambeques, danza degli schiavi messicani.