di Dziga Cacace

Don’t start me talking or I’ll tell you everything I know.
Sonny Boy Williamson

ddv3801.jpg403 — A letto con Madonna, pensate che emozione, del servo Alek Keshishian, USA 1991

Mi mancava solo questo: un documentario della Madonna. La signora Ciccone (che detta così fa molto burina, in effetti) è la provocazione continua, individualista, perfettamente orchestrata e realizzata, che va a colpire tutti i punti nevralgici del perbenismo statunitense e lo fa in maniera spettacolare, producendo profitto. Personalmente la sua musica — se mi consentite l’accento rosa — mi ha sempre fatto cagare a spruzzo, dal pop di plastica di metà Ottanta fino alle sperimentazioni (o invenzioni futuribili) del nuovo millennio in corso. Ma ho sempre ammirato la perversa adesione al modello di icona postmoderna che mastica, trita e risputa i miti spettacolari che l’hanno preceduta, per presentarsi come un condensato di tutte quelle suggestioni: è la nuova Marylin ma anche il nuovo Charlot (certi video orrendissimi in cui gioca con cappello, bastone e pantaloni alla zuava). E poi: è Evita, Dita Parlo, Jane Mansfield, una post punk, una regina del sado-maso, una baldracca, una vergine immacolata, una dominatrice, una vittima in cerca di redenzione. E non solo: questa Madonna è sesso puro anche se ha la caviglia grossa, il polpaccio da terzino e la faccia suina. Anzi, è sesso puro per questo, perché è la ragazzaccia della porta accanto, ma determinata come un cobra, una che se vuole ti prende e ti succhia come un’ostrica. E a partire dal nome c’è poi l’attacco continuo alla religione: Madonna esibisce sfacciatamente la sua fede (i crocifissi e i rosari come elementi di look) ma rivendica la sua indipendenza da ogni chiesa, perché in realtà crede solo in se stessa. Tra l’altro, durante la visione del film, mi chiedevo: ma se — vista l’ossessione per il sesso ai limiti della ninfomania — se Madonna, dicevo, la si definisce porca, secondo voi si configura la bestemmia?

Vabbeh: comunque, il cinema è l’ultima frontiera da superare; Madonna a oggi non ha mai sbagliato con la musica (e annessi: show, moda, immagine e video). Con il cinema spessissimo. A parte Cercasi Susan disperatamente, che ha contribuito ad affermarla, tutti i tentativi successivi hanno sortito risultati mediocri (Evita, gradevole nonostante lei, è posteriore al 1991). Finché non si è arrivati alla provocazione massima, quella che avrebbe dovuto affermare la showgirl come artista totale, capace di vendere se stessa, la sua vita, la sua filosofia. A letto con Madonna, titolo ovviamente blasfemo per un film sul tour del 1990, risulterà il documentario più visto di tutti i tempi al cinema (battuto solo oggi da Bowling For Columbine).
E a conferma dell’intento globale dell’operazione venne pubblicato quasi contemporaneamente un libro, Sex, corredato di fotografie zozze e per niente allusive, firmate da un artista come Steven Meisel (coinvolte amicizie illustri — Naomi Campbell, Isabella Rossellini — nel dispiegamento di un campionario di fantasie niente male, per la verità).
Ma vediamoci un po’ ‘sto film. Si parte con la depressione da fine tournée e Madonna che rassetta casa (Madonna benedetta dell’Incoroneta di Foggia, ma chi ci crede, sù!); il personaggio — perché questo è — si presenta subito: cazzosa, prepotente, sboccata e il documentario che vedremo sarà un trip d’ego micidiale, di cui il regista Keshishian è sicuramente meno autore della protagonista. Le cineprese sono molto invasive, una presenza ossessiva, ma del resto, come dice Warren Beatty, Madonna prende vita solo se ci sono spettatori a guardarla.
Ripercorriamo le tappe della tournée, tra alti e bassi, nella celebrazione del gusto post-modern degli anni Ottanta, qui al suo apice prima del tramonto. Il Blonde Ambition Tour (gioco di parole con “ambizione cieca”) è un grandioso show teatrale, dispendioso, faticosissimo, elaborato, ricco di costumi e coreografie, ma soprattutto di continue allusioni erotiche: movimenti pelvici, amplessi mimati, ambiguità di genere, sadomasochismo e la mano sempre lì, a pastrugnarsi la patata come se avesse le zecche. E ovviamente c’è anche la continua provocazione religiosa. La musica c’è, ma non si vede mai chi suona: l’importante è lo show, la rappresentazione, non se sia vero, vivo.
Madonna fa da pigmaliona ai suoi ballerini caricaturalmente affrociati (tutti urletti, mossette e squittii, tutti schiavi volenterosi della Diva). Ne è padrona e mamma, ma non riesce a esserne amante, curioso squarcio di verità chissà quanto addomesticata, quasi a darsi uno spessore, un lato debole per convincere il pubblico della propria umanità. Madonna ha l’ossessione di controllare tutto e finge (o crede) di fare veramente tutto lei. Lo vuole dimostrare e sottolinea sempre (da vera mentecatta): “se non ci pensassi io!”.
È egoista, capricciosa, isterica; compiaciuta da chi si complimenta con lei, sprezzante con chi non sia meno che entusiasta del suo spettacolo. È la dirty woman pubblica e la puttana santa, gioca con le due identità, tra finzione e realtà, tra farci ed esserci, e Warren Beatty – all’epoca fidanzato – osserva attonito (e di lui Madonna dice: “Non ha neanche un nome falso!”). A tratti è infantile (come quando declama un componimento sulle virtù delle scoregge, che neanche Bombolo), a tratti è zoccolissima (quando pratica una sapiente fellatio a una bottiglietta).
A Toronto accade che la polizia locale diffidi la cantante (…) dal tenere lo show. Accusa? Timore di atti osceni in luogo pubblico, censura preventiva ottimamente funzionale per ottenere pubblicità gratis. Altro che Jim Morrison: qui tutto gira a meraviglia. Madonna si appella al quinto emendamento quando è in pericolo la sua libera espressione, non importa al servizio di quale pensiero. È una proletaria, difende le ragazze madri, le unioni interrazziali, rappresenta l’americana di provincia che ce l’ha fatta e ha piegato il business alle sue mire. È una burattinaia e il mondo è ai suoi piedi: il complotto mediatico è ordito alla perfezione e non importa che Madonna, quando vuole motivare il senso della sua provocazione, non sia proprio capace, s’impasti in frasi fatte banalissime e si appropri di luoghi comuni senza alcuna profondità.
Madonna è l’Amerika più deteriore, l’immagine che diventa realtà tangibile, frequentabile. A letto con Madonna è molto interessante, talvolta lungo e noiosetto, agiografico e con lo scandalo precotto in agguato, ma anche con qualche lampo di verità: la megalomania, la volontà di potenza, l’ambizione sfrenata, la lotta per imporsi; anche il talento (criminale, ma c’è). Comunque il senso di tutta l’operazione è evidente dai credits: produttore esecutivo: Madonna.
L’edizione italiana è sciagurata, con un doppiaggio tremendo, recitato, costretto a inseguire gli sproloqui della protagonista, come se fosse un’attrice. E forse è vero, ma il direttore del doppiaggio non ci ha pensato di certo, figuratevi. Però — come si dice sempre — noi abbiamo i migliori doppiatori del mondo! Anche se sarei curioso di sapere chi ha fatto le verifiche, magari con i doppiatori hindi. Lasciamo perdere, dài. E dopo il film RaiTre ci regala Umberto Tozzi in concerto, giuro, e una mano che lavora piano. E, non so come, ma lo perdo, per la Madonna! (Vhs da RaiTre; 18/7/03)

A ME ME PIACE ‘O BLUES
Robert Plant, Pistoia Blues Festival e la porchetta di Giotto

ddv3802.jpgVenerdì 11, Milano — Chiavari
Chiedere un autografo, se ci pensi bene, è una cazzata.
Ma io son duro di comprendonio e mentre preparo i bagagli per partire alla volta di Pistoia ho una brillante pensata: siccome al festival è facile incontrare gli artisti, perché non portarsi dietro qualche booklet di CD? Del resto nel 1996 mi son fatto autografare The End of the Game da Peter Green, grazie al povero Cozy Powell che s’era incaricato della cosa (dico “povero” perché c’è rimasto secco 5 anni fa, in macchina, dopo aver sopportato caratterini come Ritchie Blackmore, Jeff Beck e Michael Schenker). Comunque ci sarà Robert Plant e butto nello zaino qualche titolo dei Led Zeppelin, chissà mai.
Esco di casa: parto col mio passo da Bikila sotto anfetamine e a due metri dal mio portone incrocio alcune persone. La spinta propulsiva si arresta: quel signore in bermuda è qualcuno che ho già visto. Realizzo: quello è Robert Plant. Vado in corto circuito motorio intellettuale: cosa fa, lui, qui?
Faccio dietrofront pensando a come attaccare discorso, mentre le mani per volontà propria vanno allo zaino e sfoderano il libretto di un CD. Accerchio il Dio del rock e con la faccia come il culo gli chiedo se mi può fare una firmetta. Ora: Plant si sarà anche chiesto come mai gli italiani girino per strada con i CD degli Zeppelin in borsa, però non fa una piega, firma e comincia, by the way, a chiacchierare.
Siccome sono un tipo affabile anch’io, si discorre amabilmente per la strada, ci mancano giusto un tè e i biscottini, e il boccoluto panzone, in un inglese da camera dei Lord, mi chiede come raggiungere Pistoia, lui; poi mi parla con entusiasmo del festival e io ricordo una vecchia intervista per Videomusic in cui dichiarava il suo amore per l’arte italiana, ma anche per la ribollita e l’aglio. E in effetti si sente, anche adesso. La sfiatella mi sveglia dal torpore estatico del fan e riaffiora il pratico realismo del materialista storico: quale valore di rarità possiede l’autografo di un tizio che ne ha già firmati decine di migliaia rispetto, chessò, alla firma — anche stentata — di un contadino di Montoggio cui nessuno l’ha mai chiesta? La mia parte animale respinge quella intellettuale e per un attimo penso di invitare Plant a casa mia: potrebbe firmarmi tutto il vinile, farsi fotografare, riprendere e anche cantarmi qualcosa per un bootleg unico: il mio, l’introvabile Cacace’s Montevideo Tape.
Riemergo da questi pensieri incoerenti e realizzo che sto perdendo il treno per la Toscana. Stringo la mano al vecchio leone e lo mollo lì, tenendo per me un ultimo grande dubbio esistenziale: ma che cosa faceva Robert Plant sotto casa mia a Milano? Boh!
Il treno per Genova è zeppo di gente scoglionata, ha 20 minuti di ritardo e l’aria condizionata è rotta. Da vero pappone mi son concesso la prima classe, ma sembra di essere in Bangladesh, coi passeggeri appollaiati ovunque perché quasi nessuno (quasi, io sì) ha prenotato. È il caos. C’è aria da giustizia sommaria e ‘sti vigliacchi delle Ferrovie mica lo chiedono il biglietto, no, si cagano addosso, ché ne avranno venduti di più di quelli a disposizione.
E poi: chi è l’imbecille che ha disegnato le poltrone dei nuovi treni? È impossibile dormire perché il poggiatesta — giuro — è aggettante rispetto allo schienale: praticamente stai seduto dentro una “C” e o sei ricurvo come Andreotti oppure non puoi dormire, ma devi puntellarti per non cadere facciabocconi a ogni frenata del cazzo di treno. Ma si può essere più imbecilli? Mah.
Anche se il festival comincia stasera, rinuncio volentieri ai Jethro Tull: Ian Anderson è un noto fascistone e la loro musica, tolti giusto due o tre pezzi, è un accurato sminuzzamento di minchia (dicesi “giudizio ponderato”). Per cui vado a trovare zia Luisa a Chiavari. Arrivo con un ritardo di quaranta minuti su poco più di due ore di viaggio. Non abbastanza per chiedere il rimborso perché loro han deciso che se il ritardo non è superiore all’ora, non vale. Anche se è il 40% in più di tempo, non si può. E l’han deciso loro, capito? Come se io facessi il ristoratore e ti dessi da mangiare avariato, ma ti rimborso solo se hai almeno cagotto e vomito, se no non mi riguarda. Forse non è il paragone adatto. Boh, ma mi sembra tutto folle. A partire dai poggiatesta.
Zia Luisa mi aspetta in stazione. Gironzoliamo per Chiavari parlando di tutto quello che succede: al mondo, alla nostra vita, a quella dei familiari. Poi andiamo a casa sua e mi fa vedere il campo di concentramento di Coreglia, dove nell’ultimo conflitto (perlomeno mondiale) erano raccolti dei prigionieri inglesi. A casa cerchiamo invano di capire quando la Rai metterà in onda Harold e Maude e poi finiamo sui soliti argomenti: la tivù, la politica, Fame chimica, il futuro mio e il passato suo. Ma non vuole che la intervisti con la videocamera, neanche coi baffoni di Groucho Marx. Peccato. Causa presenza gatti mi bombo con un antistaminico e dormo come un angioletto.

ddv3803.jpgSabato 12, Chiavari – Pisa – Lucca – Pistoia
Parto presto. Il treno è vuoto e arrivo a Pisa verso le 11. È pieno di stranieri e studenti e c’è una bella arietta, in tutti i sensi. Vedo quello che posso correndo come un invasato: la chiesa di Santa Maria della Spina, un gioiellino gotico, la piazza dei Miracoli che nulla ha di pasoliniano così gremita di turisti e poi, con un panino nel gargarozzo, passo pure dalla Normale sperando di respirare un po’ di genio. Il tempo è tiranno e perdo il murale Tuttomondo di Keith Haring.
Con un localaccio molto western mi sposto fino a Lucca, che visito senza negarmi alcunché. Alle 17 si sposa un’amica di lettera, Samanta, e io mi presento in Comune in bermuda e Lacoste sudata. Ma a lei non importa. È contenta che sia lì e mi coccola nella curiosità generale dei parenti e dello sposo: ci siamo scritti la prima volta nel 1989, quando nella rubrica “Personalmente” di Linus apparve il mio fantozziano appello per trovare un’anima gemella scopo “turbinosa relazione guevarista/sentimentale”. Non scherzo (vabbeh: avrete fatto anche voi delle vaccate a 19 anni, no?).
Mi avevano risposto in tre. Una era un’autentica cretina di Genova che ho subito incontrato, dovendomi poi inventare – circa un quarto d’ora dopo la prima stretta di mano — una scusa per scappare. Un’altra mi ha scritto pensieri che definire lugubri è un eufemismo, pregandomi inoltre di non risponderle perché era in un momento buio e aveva propositi suicidi, giuro. E infine mi ha scritto Samanta, che non solo era normale, era proprio eccezionale. E con lei ci siamo scambiati lettere per anni, finché con l’avvento della mail non ci siamo persi. Per ritrovarci oggi: ci raccontiamo il pezzo di vita che ci mancava e poi son di nuovo in treno: il festival chiama!
Arrivo in albergo, mollo i bagagli e sono subito nella piazza che ospita i concerti, bello vicino al palco. Presenta Eddie, quello di Videomusic, e tocca al ruvido Otis Taylor con Eric Bibb alla chitarra. Un moderno talkin’ blues, autentico e viscerale, ma proprio divertente no, dài: avrebbe bisogno di un ascolto raccolto. Invece i Dr. Feelgood trascinano la folla con un pub rock coinvolgente: tengono il palco da dio e fanno ballare tutti. Poi è il turno del mio antico idolo Johnny Winter, quell’autentico bocconcino. Lo scheletrico bluesman texano albino è semicieco e malandato, si muove a fatica: è evidente che non vede una mazza ma è erratico anche il modo in cui suona diversi classici, privi del fuoco che lo hanno reso famoso. Come con Peter Green 7 anni fa, il momento tanto atteso è una delusione.
Arriva il piatto forte: il mio amico Robert Plant, by Jove! Mi godo il concerto ridendo come un matto e muoio dalla voglia di fermare tutti per dire che Robert e io, giusto ieri, ci siamo fatti una bella chiacchierata, pensa tu. Nel suo set ci sono omaggi sparsi (Gallows Pole, Ramble On, Girl from the North Country, Going to California, Babe I’m gonna Leave You). Canta bene, fa le mossette, è aristocratico. Il finale esplosivo è affidato a una dinamica Whole Lotta Love dove nessuno si azzarda a suonare assoli di chitarra. Gran bel concerto con folla di giovinastri in delirio. Attraverso la cittadina che sembra sia stata bombardata e vado a dormire distrutto dalla giornata ma molto soddisfatto.

ddv3804.jpgDomenica 13, Pistoia
Alle otto ho già fatto colazione, doccia e cacca e son pronto per visitare la città, che è bellissima. Alle 9 fa fresco, per terra è già tutto pulito e ci sono tanti che dormono nei sacchi a pelo o buttati sulle scalinate delle chiese. A me questo gotico romanico a strisce fa godere. Nel palazzo del comune si trova il Museo Civico, splendido, e anche il Centro Documentazione Giovanni Michelucci, l’architetto della famosa Chiesa dell’Autostrada del Sole.
Quando esco dal museo seguo il soundcheck di Ike Turner, quello che trattava Tina come una bistecca un macellaio. Non ispira grande simpatia, Tina Turner o meno. Sceso dal palco, salgono il bluesman locale Nick Becattini, lo stratosferico chitarrista Andrea Braido e il gigantesco bassista Carvin Jones: una jam fantastica, letteralmente. Siccome è gratis e siamo un popolo di fessi, c’è pochissima gente a godersi lo spettacolo.
Sazio di musica e arte, m’infilo nel ristorante San Jacopo e do un’accelerata al PIL pistoiese. Quindi dormicchio brillo e satollo in albergo e arrivo nella piazza del festival più tardi, tanto che perdo gli act preliminari. Mi becco invece tale Ray Wilson, cantante una tantum dei Genesis e povero cialtrone: si accompagna alla chitarra pensando di aver chissà quale voce. Non ce l’ha.
I Twin Dragons sono invece Braido e Jones (quelli visti a mezzogiorno) impegnati in un hard rock fracassone senza alcuna raffinatezza: rispetto alla jam con Becattini una vera spremuta di palle. Li segue Tolo Marton, un chitarrista trevigiano bravissimo ma che non è aiutato dallo spazio dispersivo della piazza: qui, le cose di valore, raffinate, si perdono un po’.
Poi tocca ai Ten Years After, col nuovo chitarrista che, secondo il batterista Ric Lee, deve indossare “big bloody boots”. Infatti: è un giovane esuberante cui non potrei insegnare nulla, ma il pubblico non fa altro che mugugnare rimpiangendo — a ragione — Alvin Lee. Versioni così cosà dei classici e chiusura prevedibile e inflazionata con I’m Going Home. Però non siamo a Woodstock e, senza Alvin Lee e l’anguria, è come se avessimo ascoltato una cover band. Ecco, immaginatevi di sentire il quintetto di Miles Davis senza Miles Davis: io capisco che la vita è dura e bisogna portare a casa la pagnotta, però c’è un limite, dài. Comunque i tre membri storici rimasti — gli orfani sfigati, insomma — dopo il concerto si concedono per firmare i dischi portati dal pubblico. Già chiedere gli autografi è da mentecatti, offrirsi per farli è veramente squalificante. E io ho dimenticato i miei CD in albergo, maledizione!
E vabbeh: la firma che conta è quella di Alvin Lee e la prenderò un’altra volta. Sale sul palco tale Eric Sardinas, uno conciato come Slash dei Guns N’ Roses, con una chitarra dobro e il cappellaccio calcato in testa. Tutti pensano (e molti dicono): e chi è ‘sto pagliaccio? Parte la musica e si tratta di un blues maligno che vince ogni resistenza: dopo un quarto d’ora siamo conquistati dal cowboy cacirro che si agita come un ossesso e che chiude l’esibizione dando fuoco alla sua National Steel Guitar, continuando a suonarla in fiamme (del resto è di metallo e non brucia, anche se sarà un po’ caldina). Dopo il finale flambée è il “momento relax” col blues jazzato e morbido del vecchio Brian Auger.
Io approfitto e mi concedo un panino succulento dal “Giotto della porchetta”, un’artista anche lui, non c’è che dire. Kenny Neal e Billy Branch intanto offrono uno urban blues elegante e compìto. Poi si esibisce Mick Taylor, il leggendario chitarrista dei Rolling Stones, quello che ha dato gas a Honky Tonk Women, lo Stones timido che non ha retto la vita folle dei suoi compagni di band, il chitarrista stiloso in mezzo a quella manica di drogati… ed è un fesso, signori miei, un fesso: suona quattro pezzi estenuanti, con assoli pizzicati senza nerbo e senza alcuna dinamica, li infarcisce di errori e non mostra la minima simpatia per il pubblico disposto a osannarlo in nome della nostalgia canaglia.
A quel punto si continua in famiglia con il gruppo dell’ex bassista degli Stones, i Bill Wyman’s Rhythm Kings, che fanno il minimo necessario: divertenti, ma niente più. Infine sale sul palco, mostruosamente scocciato per il ritardo, Ike Turner con i suoi Kings of Rhythm (abbonda la fantasia nella denominazione delle band, eh?). Professionale e scazzato: non suona un minuto più di quello che è dovuto dal contratto e fa eloquenti “no no” con il ditone nero agli organizzatori. Fine, un po’ sottotono. Torno in albergo tra effluvi di erbe aromatiche e infatti dormo come un ciocco.

Lunedì 14, Pistoia — Firenze — Milano
Sono bello mattiniero e prendo il primo treno per Firenze. Siccome voglio sfruttare al top questo week end da Paura e delirio a Pistoia, mi faccio, con la consueta precisione chirurgica, un ripassino dei monumenti intorno alla stazione. Mi son rotto di elencarvi tutto, anche perché a Firenze c’è bellezza in ogni dove (e son pronto ad ammettere che Firenze si gioca con Genova un posto nel ranking delle più belle città del mondo).
E comunque le cappelle medicee valgono una visita. Bella forza, direte. Sì, ma tanto poi non ci va mai nessuno, eh. Alle tre del pomeriggio prendo il Pendolino e sono a casa in tempo per guardarmi un vecchio Fuori Orario spaparanzato sul divano di casa. Ah, la vita sregolata di noi artisti.

ddv3805.jpg404 — Forza Italia! di un puerile Roberto Faenza, Italia 1978

Film militante di fine anni Settanta che subì un destino commerciale infame, a causa del rapimento di Moro che ne accelerò il ritiro dalle sale. Roberto Faenza seleziona materiale d’archivio e ci racconta la storia d’Italia dal dopoguerra in poi, cioè la sistematica gestione del potere da parte della Democrazia Cristiana. Ma non si tratta di un documentario: i materiali (di varia qualità) sono commentati ironicamente con rumori e doppiaggi e risultano interessanti solo quando l’umorismo di patata degli autori non si mette al lavoro. Infatti il livello è quello di Striscia la notizia (che oggi, quegli intellettuali degli autori, sbeffeggeranno a ogni piè sospinto, perché è televisione, non cinema) ma per un’ora e mezza, con l’aggravante della militanza politica: battutacce, scoreggine, voci dialettali, pernacchie, vaffanculo assortiti.
Tra i responsabili di cotanta cazzata ci sono Antonio Padellaro (oggi ancora a sinistra, mah!) e Carlo Rossella (oggi a destra, perlopiù a Miami a prendere il sole) e collaborano pure Marco Bocca e Marco Tullio Giordana. Bravi, applausi. In un regime democratico come dico io, questi andrebbero frustati sulla pubblica piazza per l’occasione persa. Politicamente il film ha valore discontinuo perché la forma è atroce e la forma potrebbe/dovrebbe essere contenuto. Il montaggio di Silvano Agosti asseconda il materiale e non imprime un particolare ritmo alla narrazione. Ne risulta una confettura di maroni come poche, che denuncia cose risapute, compiace il pubblico amico con punture di spillo, spesso annoia e porta avanti tesi abbastanza prevedibili. Il finale con la “nuova” DC non fa altro che riproporre le solite facce di palta. Bella scoperta. Il titolo era profetico, anche se di fronte alla Forza Italia di oggi c’è quasi da rimpiangere questi ladri di galline. Il film, inserito in una nottata di Fuori Orario, è preceduto da un bel montaggio di immagini dell’attentato in via Fani, dei commenti a caldo di Cossiga (fiducioso) e Zaccagnini (pietrificato), della seduta in Senato in diretta televisiva coi fascisti a far casino e Ingrao a urlare come un ossesso per mantenere l’ordine.
Poi le immagini del funerale di Moro, le facce terree dei farisei e alcuni estratti televisivi dei processi che seguirono e che, ancora oggi, non hanno dato una versione accettata con serenità. Poi, in sequenza, si vede l’ingloriosa fine dei DC, con Di Pietro che inchioda Fanfani (e la sua famosa bava agli angoli della bocca) e Martinazzoli che dice (marzo 1994) che Berlusconi è un bugiardo cronico e che da Fini comprerebbe giusto un gelato (una macchina no e non gliela venderebbe neppure, perché non gli verrebbe pagata). Sembra già un secolo fa. Nella presentazione Enrico Ghezzi critica aspramente il compiacimento della platea di sinistra e la mancanza di approfondimento del film di Faenza: e io che ho detto? Sul Morandini invece si rileva il valore antropologico del documento e in effetti i DC erano e sono orrendi (sbaglio o si diceva Piccoli, Storti e Malfatti?). (Vhs da RaiTre; 18/7/03)

Qui le altre puntate di Divine Divane Visioni

(Continua — 38)