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La teoria filosofica e politica di Hannah Arendt permane nel dibattito intellettuale contemporaneo, in quanto sempre capace di fornire chiavi interpretative della sfera politica e sociale attuale. La pensatrice è attenta al mondo in cui vive e cerca di comprenderlo, poiché essa crede che sia necessario mantenere un rapporto con il mondo se si vuole evitare la sua distruzione. L’interesse per le tematiche politiche è la stretta conseguenza della sua vita e della sua esperienza di ebrea, esiliata, pensatrice, in un cosmo intellettuale maschile, in tempi bui, in cui ogni individuo ha smarrito la propria capacità di agire ed essere nel mondo.
Tale inclinazione alla comprensione rende il suo pensiero di estrema attualità in quanto anche oggi è necessario interrogarsi sul mondo e sulle sue dinamiche politiche e sociali al fine di garantire la coesistenza di tutti gli individui nella sfera pubblica.

Tra le varie interpretazioni della teoria arendtiana risalta quella attuata dal pensiero di genere, che vede nella sua filosofia politica una base teorica per la rivendicazione dei diritti femminili. Interrogarsi sui termini donna, identità, esperienza ha portato ad un cambiamento nell’approccio al suo pensiero. Le rappresentanti del pensiero di genere si chiedono: «Dove sono collocate le donne nella sua teoria politica? Qual’è il loro ruolo, la loro responsabilità e quale valore è dato alle proprie uniche qualità, sfere, attività o punti di vista?» [1] Per non tradire il suo pensiero è necessario fare una distinzione tra le interpretazioni della Arendt nel pensiero femminile: se si cerca nel suo pensiero la questione femminista o se si applica la questione arendtiana al femminismo. Nel primo caso le teoriche del pensiero di genere credono che la distinzione tra pubblico e privato sia completamente maschilista e dunque accusano la Arendt di patteggiare con gli uomini, dimenticandosi del proprio corpo. Nel secondo caso si scontrano in maniera dinamica e mai esaustiva con la sua filosofia e cercano di smantellare la distinzione tra pubblico e privato. Spesso, però, queste due interpretazioni si influenzano in quanto non si mira a trovare la donna nella sua teoria, ma una ricostruzione simbolica della donna nei suoi ruoli, nelle sue predisposizioni, nelle sue esperienze.
Il suo esserci non ha nulla dell’autoaffermazione femminile, essa non appoggia il movimento femminista in quanto lo colloca tra tutti gli ismi che essa rifiuta. La sua presenza nel mondo, la sua posizione intermedia nel mondo comune, il suo cercare di comprendere manifestando il proprio esserci nel mondo apre lo spazio ad ogni singola donna che voglia agire e pensare, allo stesso modo in cui apre tale spazio ad ogni individuo. Il suo essere donna non è in opposizione all’esser maschile, ma come un pensiero differente che può contribuire a costruire un’oasi di salvezza in un mondo che ha perso i suoi cardini e che non può essere più compreso con i vecchi canoni interpretativi attraverso un pensiero che miri alla totalità.
Delineare il rapporto tra il pensiero di genere e Hannah Arendt è suscettibile di critiche poiché nulla è chiaramente scritto nelle sue opere sulla rivendicazione dei diritti femminili, se non una critica al femminismo in quanto movimento elitario che rivendica diritti propri senza attenzione alla pluralità, concentrandosi sui problemi psicologici. Sembrerebbe, dunque, che non si possa legare queste due teorie, ma rileggendo i suoi testi si ritrovano le coordinate per la rivendicazione dei diritti universali di ogni individuo. Seppure non parla di diritti delle donne, la Arendt apre lo spazio per una discussione sul ruolo di ogni essere umano sulla scena pubblica e sul compito della politica nel garantire uno spazio in cui tutti, indistintamente, possano affermare il proprio “chi”.

Politica: il mondo e l’affermazione del chi

Per poter definire la questione femminile in Hannah Arendt o la questione arendtiana nel pensiero femminile è necessario definire i concetti chiave della sua teoria politica.
arendt1.jpg«La politica si fonda sulla pluralità degli individui» [2]: a partire da questa tesi la Arendt delinea tutta la sua dottrina, scontrandosi con la filosofia tradizionale allo scopo di costruire una nuova teoria capace di garantire a tutti gli individui la presenza nel mondo.
Il suo è un pensiero della libertà, in cui prevalgono i diritti degli individui, proprio in quanto esseri umani. Essa non nega le differenze e lotta affinché vengano riconosciute ma si rifiuta di fissarsi in un’identità. Il chi, per la Arendt, assume tutte le possibili attribuzioni particolari senza nessuna e particolare posizione perché ogni identità si crea ex novo nel rapporto con gli altri.
La Arendt tenta di riabilitare la pratica politica, al fine di renderla effettiva nel mondo delle cose umane. La pensatrice crede opportuno ripensare la politica al di fuori degli schemi tradizionali, in quanto essa sostiene che questa non sia preesistente nell’uomo, ma è condizione essenziale per l’esistenza umana. Il mondo è lo stimolo principale per l’effettuarsi del pensiero ed è il luogo in cui uomini e donne cercano di affermarsi; esso è la dimora universale della comunità umana:

«Gli uomini possono esistere solo dove esiste il mondo e questo esiste solo dove la pluralità della razza umana è più della mera moltiplicazione di esemplari di una specie». [3]

Il mondo, come lo intende la Arendt, è un rimando di relazioni umane, nato dall’azione e dalla parola. La polis è la sfera in cui gli uomini si relazionano e convivono, in cui giocano la loro scena sul mondo attraverso le azioni e le parole. Solo presupponendo l’esistenza di esseri unici, che manifestano il proprio “chi” nelle relazioni, nelle azioni e nel discorso è possibile creare uno spazio pubblico. L’individuo può affermarsi come tale solo nella pluralità, nello spazio comune in cui tutti gli uomini manifestano la propria unicità nello stare insieme e nel confronto con l’altro. Hannah Arendt riconosce la specificità di ogni individuo proprio nell’essere zoon politikon logon echon. La parola e l’azione danno vita al nuovo e all’imprevedibile e il pensiero, con la sua capacità di irrompere nell’ordinario, ci allontana dal mondo delle apparenze, aprendo lo spazio alla comprensione. Nella polis, intesa come la sfera pubblica in cui gli uomini si relazionano e convivono, l’azione determina la presenza nel mondo, mentre il discorso permette la memoria degli atti compiuti. L’azione è la sola tra le dimensioni della condizione umana che si distingue per la sua costitutiva libertà, per la sua capacità di dare vita al nuovo, per essere imprevedibile e irreversibile, per essere legata alla pluralità. Nel corso della storia le fasi di predominio della vita activa o della vita contemplativa si sono alternate, portando, nell’età contemporanea, alla prevalenza assoluta della prima. Con il trionfo dell’homo faber «il processo di produzione diventa semplicemente il mezzo per un fine» [4] e s’innalza «il lavoro alla più elevata posizione nell’ordine gerarchico della vita activa» [5].
La contemplazione viene allontanata dal campo delle capacità umane e la fabbricazione perde il principio di utilità, al quale subentra quello della soddisfazione, ossia della «quantità di pena e piacere nella produzione o nel consumo delle cose» [6].
Con il progresso si sposta l’attenzione dall’individuo alla società:

«L’umanità socializzata è quello stato della società in cui prevale un unico interesse, e soggetto di questo interesse sono sia le classi sia il genere umano, ma mai l’uomo o gli uomini» [7].

Il risultato è la spoliticizzazione del fare e il trasferimento del gioco politico nelle mani di pochi, ma ciò non implica la sfiducia nelle possibilità di ripresa dell’uomo. Per quanto i nostri modi di pensare possano essere stati coinvolti dalla crisi del nostro secolo, la nostra capacità di pensare non è in discussione: siamo e rimaniamo esseri pensanti. Pensare ciò che facciamo è la massima sulla quale si fonda il pensiero della Arendt e la sua critica all’età contemporanea.
Pensare, volere, giudicare, sono le tre facoltà fondamentali della mente, dove, agostinianamente, il pensare è legato al presente, il volere al futuro e il giudicare al passato. Queste facoltà non sono connesse l’una con l’altra, ma tutte hanno in comune il ritirarsi dalle apparenze, da ciò che si presenta ai sensi. Tale ritirarsi non è definitivo, in quanto la mente può comunicare con l’esterno, con il mondo delle apparenze, tramite il linguaggio, la parola e la metafora. Affinché l’uomo possa vivere moralmente necessita di tali facoltà e dell’equilibrio tra theoria e praxis, frutto della facoltà di giudicare. Il giudizio si salva dall’impolicità, che è invece insita nella volontà, la quale prevede la singolarità, e nel pensiero, che nasce dal dialogo con sé stessi.
La perdita della capacità di pensare e l’essere fuori dal mondo sono una costante minaccia per la politica. Le esperienze del totalitarismo e lo sviluppo della tecnologia hanno portato alla perdita di significato della politica mentre gli uomini hanno perso la loro capacità di essere soggetti attivi.
Il progresso s’identifica, dunque, con la distruzione e lo sviluppo scientifico moderno. Esso porta ad una smisurata fiducia per la scienza e rende l’uomo passivo di fronte ad essa; la sua capacità di “pensare” viene annullata dal solipsismo moderno, ossia dalla preoccupazione per il benessere individuale e non per il mondo nella sua complessità. Il pensiero sarebbe l’unico antidoto contro l’infinito avanzare del progresso scientifico, ma la modernità è caratterizzata dallo slittamento dell’“infra”: l’uomo non vive più nella pluralità, nello spazio di condivisione dell’azione e delle parole.
Compito della politica è produrre situazioni che allarghino gli spazi della libertà, cioè essa deve produrre istituzioni e corpi politici che possano garantire alla libertà lo spazio in cui manifestarsi. Le finalità della politica, infatti, non si esauriscono nel trovare soluzioni a problemi materiali e contingenti, ma essa deve occuparsi di garantire la libera manifestazione delle capacità umane.

La politica, dunque, è possibile solo nel mondo, nello spazio delle azioni umane, nel quale la politica diventa arte e piacere di stare insieme e di scambiare pensieri e parole. Ogni individuo deve avere l’opportunità di manifestare il proprio esser-ci. Hannah Arendt riprende l’esserci della filosofia heideggeriana, ma, nonostante anch’essa ammetta la negatività della pubblicità, che in questi secoli bui ha declassato l’uomo allontanandolo dalla politica, salva uno spazio pubblico. La pensatrice non vuole ridurre il mondo ad un artificio umano, prodotto dalle mani dell’uomo, ma lo considera come lo spazio necessario alla manifestazione della pluralità, in cui gli individui possono distinguersi gli uni dagli altri. La contingenza del mondo lo rende bisognoso di cura, che è proprio ciò che permette di relazionarsi con l’altro, in quanto l’essere si prende cura di tutto ciò che gli sopravviene. Tale cura diventa per la pensatrice attenzione per la condizione umana, che ha alla sua origine la pluralità e non l’essere singolo. Se per il suo maestro Heidegger è l’ente nella sua totalità l’origine dell’essere, nella Arendt ogni origine è legata all’esserci, cioè all’individualità plurale. Questo è l’esserci di ogni essere umano che agisce nell’in-fra e si presenta di fronte agli altri, occupando il suo spazio nel mondo.
Il “chi” caratterizza l’individualità dell’uomo, la sua coscienza. Tale essere è palesato ad altri uomini, che a loro volta mostrano il loro chi nello spazio pubblico dell’azione. Ogni individuo è attore e spettatore, proprio perché esso mostra il proprio essere e guarda quello altrui. Hannah Arendt distingue tra il “cosa” e il “chi” si è. Il cosa caratterizza tutte le qualità esterne di una persona, è comune a tutti e mostra ciò che è evidente. Il chi, invece, è proprio di ogni uomo che rivela il proprio sé agendo e parlando.

«Discorso e azione rivelano questa unicità nella distinzione. Mediante essi gli uomini si distinguono anziché essere meramente distinti. Discorso e azione sono le modalità in cui gli esseri viventi appaiono gli uni agli altri non come oggetti e fisici, ma in quanto uomini» [8].

Solo nel dialogo reciproco è possibile riconoscere l’altro in quanto altro e mettersi in relazione con esso. La sfera del politico presuppone l’arte della parola e dell’ascolto e necessita del linguaggio per poter raggiungere un’intesa tra esseri diversi, assolutamente unici e singolari. La parola ci permette di apparire come vogliamo e di giocare il nostro ruolo di attori come meglio crediamo. Hannah Arendt ritrova il posto in cui collocare il “chi” e analizza il modo in cui l’esserci afferma la propria esistenza, ma la sua è soprattutto una denuncia del distacco dell’individuo dallo spazio pubblico e della mancanza di affermazione del proprio sé.

«L’uomo può essere in armonia con se stesso se esiste un accordo di due o più suoni; per essere uno egli ha bisogno degli altri. Solo nel rapporto con gli altri egli può vivere l’esperienza della libertà» [9].

Dall’inizio del secolo la mancanza di significato è stata accompagnata dalla perdita del senso comune, portando, col tempo, ad un’esasperante ricerca di esso ed al bisogno disperato di comprensione. Nel momento in cui il senso comune viene meno lo si sostituisce con la logica, riducendo la capacità di analisi e pensiero. Tale riduzione, o in casi estremi la totale distruzione di tale capacità, svuota l’uomo della propria unicità e individualità, in quanto la facoltà di pensiero rimane un bisogno primario «che può essere soddisfatto solo pensando» [10].
Il pensiero ha la capacità di interrompere ogni attività ordinaria: pensando si esce dal mondo delle apparenze, si desensibilizza l’oggetto, ci si estrania. Esso implica una riflessione che non è guidata da fini politici o pratici, non crea valori, bensì costituisce l’indispensabile condizione per decidere ciò che sarà e valutare ciò che non è più [11].
La mancanza di pensiero è tipica della società di massa, in cui gli esseri umani perdono la loro unicità, la loro capacità di giudizio, rispondendo solo alla cultura dell’effimero.
L’uomo, in realtà, non ha mai perso questa capacità e può compiere quel miracolo necessario per la salvezza, in quanto essendo esso stesso inizio può dare inizio a qualcosa agendo. Seppur nell’invisibilità, il pensiero rimane sempre riferito al mondo degli uomini e strettamente connesso all’azione. Esso deve mantenere l’obbligo verso gli altri, cioè deve vivere nel terreno della pluralità, della condivisione. L’uomo deve occuparsi e preoccuparsi per il mondo, allo scopo di fondarlo, cambiarlo, migliorarlo, conservarlo. L’individuo deve creare delle oasi, cioè ambiti di vita che esistono a prescindere dalle condizioni politiche che rendono possibile la vita anche in mezzo al deserto, frutto delle tempeste e delle catastrofi, che rendono tale territorio politicamente incolto.
L’isolamento e l’estraniazione sociale conducono alla distruzione della sfera politica, quella in cui gli uomini agiscono e interagiscono con gli altri. L’uomo viene privato della sua identità, del proprio io: è solo un numero tra gli altri.
Nell’epoca della globalizzazione gli uomini, invece di agire gli uni al cospetto degli altri, ora si comportano in maniera prevedibile, rispondendo alla logica conformistica della società di massa. Le uniche libertà rimaste in questa sfera dell’indeterminato e della fugacità sono il pensiero critico e il giudizio, che, secondo la Arendt sono le sole capacità che non possono essere cancellate, in quanto insite nell’uomo stesso, in quanto individuo.

La questione femminile e Hannah Arendt

arendt3.jpgLe opere della Arendt sono soggette a letture molto spesso parziali, che concentrano la loro attenzione su parole dalla risonanza femminile, come maternità, nascita, corpo. Le teoriche del pensiero di genere, come ad esempio Julia Kristeva, rivendicano il miracolo della maternità che la Arendt ci ha lasciato, insistendo sulla nascita come possibilità di libertà. Altre, come Linda Zerilli, forniscono un’analisi più vicina al suo pensiero. Essa sostiene che il corpo sia, cosi come dice la stessa Arendt, un fatto privato e non politico e che le letture femministe non leggono la connotazione pubblica, la carica di azione insita in ogni corpo.
Hannah Arendt non si domanda cosa significhi essere una pensatrice donna, non usa questi termini per valorizzare delle tematiche vicine al pensiero di genere, ma in queste parole si potrebbero ritrovare concetti basilari per esplicare al meglio la sua teoria politica, tutta fondata sulla pluralità e la condivisione di uno spazio pubblico.
La nascita è apertura ad una alterità mondana, che dispone di progettualità e libertà. Il miracolo della nascita sta proprio nella sua capacità di connettere la necessità con la libertà, ossia la contingenza di un atto del tutto umano e il suo estremo valore. La natalità ha una tale forza creativa, derivante dal fatto di essere messi al mondo da altri, da introdurre un cambiamento ed un potenziale innovativo da sfruttare nel mondo [12]. Ogni qualvolta nasce una nuova vita si ha un nuovo inizio, poiché si formano nuove coscienze, nuove volontà, modi differenti di vedere le cose; è come se ogni volta nascesse un nuovo mondo. Si creano, in tal modo, una pluralità di uomini diversi, e mai individui identici.
Ogni origine è legata all’esserci, cioè all’individualità plurale, nella quale si manifesta il “chi” come un’attualità dinamica che si manifesta nella vita terrena. In questo inizio la nascita si proietta verso il futuro, genera il tempo, si pone domande e supera il mondo stesso, abolendo il significato della fine [13].
Hannah Arendt attribuisce alla nascita un significato politico, riportandola alla sua stretta connessione con la maternità. Ad ogni nuovo nato, la donna dedica il proprio essere, si lega al suo bambino, con un amore profondo che non ha eguali. L’amore materno è l’aurora del legame con l’altro e, pertanto, tale esperienza potrebbe rendere le donne dei secoli futuri le guardiane della possibilità della vita stessa [14]. La nascita è «l’amore per il qualunque», per il prossimo, che può, attraverso l’amore, reinventare continuamente. Il legame con la madre permette il radicarsi, nel singolo, delle possibilità di aprire il presente all’impensabile.
La Arendt ci lascia in eredità un inno al “miracolo della nascita”: la pensatrice si chiede se è ancora possibile avere quel miracolo per la salvezza del mondo, in quanto la tecnica ha reso la vita sicura, uniformata, banalizzata. La nascita è speranza di un nuovo inizio: il mondo non può essere abbandonato a se stesso. La responsabilità dovrebbe essere il principio etico di ogni nascita e di ogni nuovo inizio.

Il riferimento alla nascita è, in ogni caso, da intendersi in un senso assolutamente irriducibile all’uno specifico, quindi la costruzione teorica di questo concetto è da riferirsi a tutto il genere umano, senza distinzioni di alcun tipo.
Il riferimento al corpo nella Arendt è strettamente connesso all’esserci, in quanto è proprio il corpo il veicolo della comunicazione e del rapporto con gli altri. Non lo considera assolutamente in un’accezione femminile, in quanto esso è una condizione universale del tutto naturale. Il suo corpo è un dato inconfutabile, una cosa ovvia, che porta alla diversità e alla pluralità. L’essere donna ha in se una differenza intrinseca e indispensabile che costituisce la pluralità di cui fa parte. Essa reinveste continuamente il senso infinito della vita tramite quel miracolo che è la nascita, possibilità di un nuovo inizio e di una nuova azione. Animata da spirito materno ama la vita ed è in grado di garantire la condizione di essere «individui nella pluralità».
Tra le varie interpreti del suo pensiero, Adriana Cavarero s’interessa dell’accezione politica della comunicazione, dell’importanza del parlare in cui emerge l’atto relazionale del comunicarsi tra esseri unici. L’autrice ha utilizzato i concetti di parola, narrazione, azione rimanendo fedele alla concezione arendtiana, ma li ha utilizzati anche per rivendicare l’essenza femminile. Altre studiose, tra cui Julia Kristeva, hanno prestato attenzione alle parole e alla narrazione, forme indispensabili in quanto necessarie per attuare una sorta di analisi su se stessi, cosi come aveva fatto la Arendt, che aveva utilizzato le sue opere come una catarsi della propria esistenza. Bonnie Honig guida, invece, il filone interpretativo che risalta il concetto di identità e l’importanza per la sua determinazione dell’azione libera e della parola, mentre Françoise Collin sottolinea l’importanza del pensare da sé in mezzo agli altri. Queste pensatrici hanno, pertanto, valorizzato solo alcuni aspetti teorici per poterli sfruttare sul piano di una rivendicazione pratica del ruolo delle donne nella società.

La politica arendtiana oggi

Nell’analisi arendtiana si ritrovano situazioni che sembrano simili a quelle che, più di cinquant’anni dopo, viviamo nella nostra sfera politica e sociale. La professionalizzazione della politica, ieri come oggi, ha dissolto lo spazio delle opinioni, annullando le motivazioni che spingevano il singolo all’agire politico. Il monopolio dei partiti sulla vita pubblica e l’avvicinarsi esaustivo di questa sfera con quella privata ha cancellato le caratteristiche tradizionali del fare politica. Il soggetto, il cittadino non esiste più come protagonista e diventa debole, possibile oggetto di dinamiche politiche incomprensibili: la mancanza di spazi atti alla manifestazione della libertà ha svuotato la politica dai suoi significati migliori, riducendola ad un mero esercizio di potere.
A un’etica del lavoro si sostituisce un’etica del consumo, che considera l’uomo solo secondo la sua capacità di consumare, di essere mezzo, strumento o materia da plasmare per realizzare dei progetti razionali. Il rischio che si corre è quello di cancellare l’individualità del singolo e di isolarlo per inserirlo in una macchina gigante, che annulla la dicotomia tra sfera pubblica e privata. L’uomo è continuamente stimolato e investe solo in progetti a breve termine, alimentando un’immagine del mondo che non è reale, ma è solo ciò che appare. La cultura moderna ha convinto che è possibile fare tutto, sperimentare tutto ed essere qualsiasi cosa, al punto che l’uomo crea e modifica tutto ciò che lo circonda dimenticandosi del proprio sé.
La pluralità viene costantemente minacciata dalle pretesa all’egualitarismo, dalla sostituzione del singolo con una comunità o massa, che accomuna indistintamente i differenti individui.
La politica è diventata un lavoro, una professione e non è più intesa come la sfera del contingente, delle cose che possono essere cambiate con le nostre azioni, capaci di dare inizio al nuovo. Hannah Arendt aveva denunciato questa deriva nelle sue opere e aveva visto nello sviluppo tecnologico, se sfruttato negativamente e se vissuto in maniera alienante, la possibile causa di spoliticizzazione del mondo. Credeva che il dissidio tra la mobilità umana e le forme politiche esistenti avrebbero potuto ledere alla democrazia, creando una cittadinanza dinamica sotto il controllo di una sovranità nazionale. La filosofa auspicava ad un cosmopolitismo senza cosmo, differente dall’acosmia, che invece criticava come assenza e perdita del mondo. Essa respinge l’ipotesi di un governo mondiale concepito come struttura federale dotata di forze di polizia, poiché ciò determinerebbe la fine della politica, che per esistere ha bisogno di spazi nei quali esprimere la libertà. L’unica risposta politica adeguata alle condizioni di un’organizzazione globale del mondo «consiste nella rivendicazione di un diritto ad avere diritti, uno spazio in cui esercitare il diritto all’azione e all’opinione» [15].

La Arendt ritrovava quella banalità del male che aveva colto in Eichmann durante il processo a Gerusalemme nella tendenza a parlare dell’uomo come di un’entità astratta, senza tener conto della singolarità di ognuno. Solo recuperando il giudizio morale individuale, cioè la capacitò di ognuno di discernere il bene dal male, rispettando le differenze sarebbe possibile creare una comunità di esseri unici:

«Ci siamo resi conto dell’esistenza di un diritto ad avere diritti (e ciò significa vivere in una struttura in cui si è giudicati per le proprie azioni evopinioni) solo quando sono comparsi milioni di individui che lo avevano perso e non potevano riacquistarlo a causa della nuova organizzazione globale del mondo» [16].

La Arendt sostiene che se gli uomini non fossero uguali non potrebbero comprendersi o fare dei progetti insieme, e se fossero tutti identici non avrebbero senso il discorso e l’azione umana: «Ognuno nasce come un essere unico e irriducibile a tutti gli altri». Essa riteneva che fosse doveroso evitare anche la situazione che fa degli uomini esseri diversi e incommensurabili sino ad arrivare ad una situazione di incomunicabilità.
In entrambi i casi gli individui non potrebbero manifestare il proprio chi nell’in-fra.

Rileggere Hannah Arendt nel pensiero di genere

Hannah Arendt si presenta come una figura a noi contemporanea, un’ancora di salvezza per il nostro mondo che ricalca gli errori del passato. Essa si impone come una pensatrice distaccata dal mondo, ma appartenente ad esso, come persona, come filosofa, teorica della politica, ebrea e donna. “Contaminare” il pensiero di genere con la filosofia politica di Hannah Arendt, potrebbe essere utile al fine di fornire al “femminismo” la base teorica dalla quale partire per rivendicare né l’uguaglianza né la differenza, bensì i diritti umani.
La pensatrice sostiene che il pensiero appartenga indistintamente a tutti gli individui, sia uomini che donne, e si fonda sull’interazione del maschile e del femminile per giungere alla totalità. Per questa ragione la Arendt potrebbe inserirsi nella storia del pensiero di genere, in quanto parlando, agendo e pensando insieme, nell’in-fra, è possibile riunire le differenze, accettandole come dato inconfutabile dell’esistenza. Tornare a rileggere Hannah Arendt non come teorica del pensiero di genere, né come una donna che si è imposta in un panorama intellettuale maschile, ma come una teorica politica potrebbe contribuire alla determinazione di nuove regole e chiavi di lettura per la problematica femminile.
L’accento posto dalla pensatrice sulla pluralità e sulla differenza come base della politica costituisce un nuovo approccio alla definizione del ruolo delle donne nella società. Seguendo la sua teoria politica, la sua vita, la sua critica alla società contemporanea è possibile giungere a una nuova forma di individualità. Valorizzando l’essenza dell’individuo si eviterebbe di portare all’esasperazione quelle caratteristiche che uguagliano le donne o le differenziano dal sesso opposto.
La politica, oggi, è diventa monopolio di gestione del potere e si allontana vertiginosamente dalla politica intesa come spazio pubblico, in cui tutti gli individui, con il loro “chi”, possono contribuire alla costruzione di una democrazia veritiera.
Nonostante la prontezza dell’informazione, che con la tecnologia ha ridotto e quasi annullato i concetti di spazio e tempo, sembra che la nostra capacità di pensiero non sia stimolata alla riflessione, ma che sia vittima del bombardamento sociale e culturale. Oggi viviamo nel villaggio planetario in cui la vita di ciascuno è alla mercé di tutti e la nostra visione della realtà è controllata dai mezzi di comunicazione di massa, è mediata ed è pertanto illusoria e virtuale. La Arendt aveva denunciato il predominio della vita activa nell’età contemporanea: perdendo ogni capacità di pensiero si rischia di giungere al paradossi della banalità e dell’assurdità del male.

Annullare lo spazio pubblico, dunque, potrebbe apportare conseguenze degeneranti? La mancanza del “chi” nell’in-fra, sarebbe sinonimo di assenza di pensiero? In tal modo ogni individuo perderebbe la sua carica innovativa ogni qual volta si affaccia sulla scena? Rivalutare i caratteri propri della politica, cioè la pluralità e l’imprevedibilità, l’originalità nel senso di inizio e nascita, la libertà, è importante per la politica moderna, per far rivivere il senso politico e promuovere l’alterità e la differenza. L’uomo è preoccupato del suo unico interesse personale, del suo benessere e non del mondo, del quale, invece, si dovrebbe avere cura, pena il rischio della sua totale distruzione. La pluralità è stata sostituita dalla persona, dalla frenesia, in cui il dialogo è diventato difficile e l’idea di maternità, intesa come la capacità di dare inizio al nuovo e amare qualsiasi cosa, si è ridotta ad una tappa non del tutto dovuta del percorso biologico dell’essere umano.
In questo contesto s’inserisce il pensiero di genere, come lettura femminile della realtà, capace di dare un punto di vista differente e non per questo contrapposto a quello maschile. Applicare la teoria politica di questa pensatrice al pensiero di genere, che negli anni ha dato importanza alla questione arendtiana nel femminismo o alla questione femminile nel pensiero della Arendt, può ridefinire il ruolo delle donne nella società odierna e nella storia del pensiero, evitando una lettura solo parziale della sua filosofia.
La donna nella storia e nel pensiero è sempre considerata come colei che è dedita a tessere e a filare, mentre il filo del logos è prerogativa dell’uomo, portatore della razionalità e del pensiero stesso. La politica e la filosofia nascono tra gli uomini e si manifestano nella relazione tra pensiero e ragione, nell’essere e nello stare insieme. Per questa ragione il genere deve essere una categoria relazionale, allo sopo di coordinare l’azione per realizzare il benessere e la qualità della vita di ogni singolo componente della società.

Constatare che la società è formata da persone è il primo atto necessario per adottare politiche di genere che mirino a valorizzare l’individuo nella sua unicità, irripetibilità e libertà. Parlare di diritti delle donne significa considerare il genere femminile come l’altra faccia della stessa medaglia, per fare in modo che le azioni positive promosse al fine di giungere all’uguaglianza, siano garanti dei diritti umani.
Il pensiero delle donne non parte da una tabula rasa che permetterebbe la costruzione di un sapere alternativo femminile, non è un sapere altro, ma un’alterazione del sapere. Annullare la molteplicità degli individui nella loro unicità significa cancellare le differenze. Avvalorando l’importanza dell’alterità e della differenza si può esigere lo stesso trattamento di tutti gli individui. Si potrebbero evitare quelli che oggi vengono considerati “crimini contro l’umanità”, perché si darebbe valore al singolo uomo in quanto tale, possessore di diritti in quanto essere umano e non solo in quanto cittadino. Rifondare il pensiero della Arendt, oggi, significa reinventare la sfera pubblica oltre i confini dello stato-nazione, creare forme di cittadinanza che vadano oltre lo stato, per garantire la cittadinanza e la rappresentanza democratica della pluralità.
Lo spazio politico esiste proprio perché persone con valori diversi e linguaggi diversi si possano incontrare per creare uno spazio comune e un linguaggio comune. L’uomo è possessore di diritti umani e se manca un posto nel mondo in cui si dia peso alle opinioni e alle azioni un effetto, si rischia di calpestare dei diritti inalienabili. Questi devono essere tutelati anche in un’epoca in cui sembra che le distanze e i tempi siano accorciati, in cui le differenze vengono omologate, in cui si parla di globalità e si rischia di dimenticare quello che è il vero senso del termine “individuo”, il suo essere singolare nella vasta pluralità degli esseri umani.

Conclusione

Il pensiero della Arendt può essere, dunque, utilizzato nella rivendicazione dei diritti di genere per cancellare la posizione della donna come “disabile”, per fare in modo che la donna non sia più considerata come manchevole di qualcosa, ma da considerarsi come un soggetto con pieni diritti e doveri.
Nonostante le lotte per l’emancipazione e l’affermarsi di un pensiero femminile che rivendica il riconoscimento della posizione delle donne nello spazio pubblico, per accettare che la donna possa godere degli stessi diritti dell’uomo e occupare posizioni rilevanti, è necessario cancellare l’idea di donna come angelo del focolare, oggetto di piacere per l’altro sesso. Le donne, spesso, devono sacrificare la propria individualità, i loro bisogni, i loro diritti e l’autonomia economica sia se esse scelgono di rimanere a casa che se occupano un posto di lavoro. Questo, solitamente, è per le donne sinonimo di precariato, poiché esse scelgono il part-time per poter legare il lavoro ufficiale con quello di cura, accettando uno stipendio più basso e l’impossibilità di avanzare nella carriera. Se invece occupano un posto di rilievo, esse devono sopportare critiche molto pesanti, vedendo sempre minacciate le loro posizioni, faticosamente raggiunte. Nonostante le donne, di diritto, possono svolgere le stesse mansioni, gli stessi lavori, avere cariche prestigiose e persino intraprendere professioni considerate tradizionalmente maschili, sono ancora molto poche quelle che raggiungono risultati significativi.
Le donne sembrano come mancanti di qualche caratteristica e, pertanto, è doveroso tutelarle assicurando loro dei posti. Facendo ciò non si rispettano, però, le dinamiche meritocratiche che premierebbero un uomo o una donna indipendentemente dal sesso ma solo per il loro “chi”, allo stesso modo in cui dovrebbe essere tutelato ogni individuo indipendentemente dalla razza, dal sesso, dal colore. L’attenzione del diritto internazionale ai diritti delle donne è una conquista importante per l’emisfero femminile ma la politica, intesa come amministrazione del potere e gestione amministrativa, deve attuarsi al fine di cancellare le disuguaglianze tra uomini e donne. La relazione di potere tra uomo e donna non si può misurare solo con la presenza delle donne in parlamento o con la preoccupazione per le violenze che possono subire. La concezione strumentale dell’azione politica, tipica della cultura maschile, tende a reificare i valori e i desideri di cambiamento sociale, trasformandoli in qualcosa di esterno, oggettivo e quantificabile.
Riappropiarsi dei caratteri politici che la filosofia di Hannah Arendt aveva valorizzato, cioè la pluralità, l’alterità, la libertà, il rispetto del diverso, ci aiuterebbe per riconoscere la centralità delle relazioni nella polis. Ciò porterebbe solo a valorizzare saperi e competenze tradizionalmente femminili, ma permetterebbe anche di arrivare a concepire più facilmente un tipo di azione politica, basata sull’idea e sulla pratica della mediazione nelle relazioni, piuttosto che sul potere e su un agire strumentale.
La teoria politica di Hannah Arendt, riletta alla luce delle nuove politiche di genere, possiede ancora una carica innovativa. A distanza di anni le sue parole possono aiutarci a creare delle “oasi di salvezza”, in cui ogni individuo, nella propria unicità, può giocare il suo ruolo nel mondo, in quello spazio pubblico, la cui esistenza è garantita solo dalla presenza di esseri umani che pensano, vogliono, giudicano, e dunque parlano, agiscono, raccontano.

Note

[1] Honig B., Feminist interpretation of Hannah Arendt, The Pennsylvania State University Press, 1995, p. 3.
[2] Arendt H., Che cos’è la politica?, Milano, Edizioni di Comunità, 1995, p. 5.
[3] Ivi, p.70.
[4] Arendt H., Vita activa, a cura di S. Finzi, Bompiani, Milano, 2008., p. 220-221.
[5] Ivi, p. 228.
[6] Ivi, p. 230.
[7] Ivi, p. 239.
[8] Ivi, p. 118.
[9] Arendt H., Verità e politica, Bollati Boringhieri, 2004, p.670.
[10] Arendt H., “Comprensione e politica”, in «La disobbedienza civile ed altri saggi», a cura di T. Serra, Milano, Giuffrè Editore, 1995, p. 97.
[11] Arendt H., La vita della mente, a cura di A. Dal Lago, Bologna, Il mulino, 1987, p. 308.
[12] Cfr. Durst M., La forza della fragilità. La nascita in Hannah Arendt, in “Fenomenologia e società”, n. 3/2001.
[13] Arendt H., Il concetto d’amore in Agostino. Saggio di interpretazione filosofica, a cura di L. Boella, Milano, SE, 1992, p. 90.
[14] Cfr. Kristeva J., Hannah Arendt. La vita, le parole, tr. it. di M. Guerra, Donzelli Editore, Roma, 2005.
[15] Arendt H., Le origini del totalitarismo, a cura di A. Guadagni, Edizioni di Comunità, Milano, 1978, p. 379-380.
[16] Ivi, p. 410.