di Sandro Moiso

quipu.jpgSiamo tutti libri di sangue

Siamo tutti libri di sangue.
Libri fatti di carne, di ossa, di sudore, di odio e di amore.
Ma siamo anche archivi di memorie, di dolore, di sconfitte, di gioie e di vittorie.
Siamo stati rivoluzionari e, poiché non avremmo potuto essere altro, siamo ancora libri, scritti con linguaggi dimenticati, che non hanno mai potuto essere realmente riciclati, anche perché non abbiamo mai chiesto scusa per i nostri peccati.

Oggi nel conservare la memoria degli anni, di quelli direttamente vissuti e di quelli vissuti da altri, siamo come i quipu degli Inca. Cordicelle annodate che costituivano gli archivi, le memorie e il sistema di calcolo di quella antica e gloriosa società andina. E che oggi più nessuno sa interpretare appieno. I conquistadores e i padres distrussero e bruciarono gran parte dei quipu allora esistenti per sottomettere convertire le popolazioni all’unico Rey e all’unico Dio.

Dovevano essere opera del demonio ed indemoniati e stregoni dovevano essere coloro che li sapevano leggere e realizzare. Fu così che furono distrutti e bruciati anche loro.
Anche noi siamo pieni di nodi, nell’anima e nei ricordi. Siamo sempre corde tese in un slancio mai interrotto e, in un mondo di demagogiche giornate della memoria, siamo ancora noi a dover raccontare la storia.

E’ una storia diversa da quella narrata dal potere e benedetta dalla Chiesa e gli inquisitori di ogni colore la vorrebbero far sparire seppellendola nella menzogna.
Come ha fatto Piero Fassino a Torino il primo maggio scorso.
Come fa il giudice Caselli quando accusa e torna ad imprigionare quelli che per le loro colpe hanno già pagato e quelli che colpe proprio non ne hanno.

lazagna.jpgCome nel caso di Giambattista Lazagna, comandante partigiano e medaglia d’argento al valor militare, arrestato nell’ottobre del 1974 e accusato dallo stesso giudice di essere il capo delle Brigate Rosse. Qual’era la colpa di Lazagna? Aver combattuto e sconfitto, armi in pugno i nazifascisti in più di una battaglia? Oppure quella di aver condannato nel 1956 l’intervento sovietico in Ungheria?

Cosa c’era nel suo curricolo da renderlo tanto sospetto? L’aver collaborato alla fondazione della Federazione Italiana dei Lavoratori del Mare e alla riforma del Codice di Navigazione per la tutela del lavoro marittimo nel 1958? Oppure l’aver costituito nel 1960 un comitato di avvocati per la difesa degli arrestati per gli scontri con la polizia di Tambroni nel 1960?
No, solo le menzogne di frate Girotto, cadute poi tutte nel corso dei dibattimenti.

In precedenza Lazagna era già stato arrestato con l’accusa di aver fatto parte dei GAP di Feltrinelli e poi ancora per il suo contributo al Soccorso Rosso degli anni settanta.
Ogni volta le accuse sarebbero alla fine cadute, ma l’accanimento nei suoi confronti fu davvero memorabile. Era forse un quipu anche lui, con i suoi libri di memorie sulla Resistenza e la lotta armata contro i fascisti?

cretino.jpgMa torniamo al protagonista della giornata di cariche poliziesche che ha segnato il primo maggio di quest’anno a Torino: Piero Fassino.

Non so se quelli che lo fischiavano in Piazza San Carlo erano, come il sindaco torinese ha affermato durante il suo più che contestato comizio, gli stessi che avevano cacciato Bonanni dal palco o che avevano preso a bullonate Trentin negli anni precedenti.
Certo è lui sempre lo stesso: terrorizzato oggi dai precari, dai borsisti e dai centri sociali in lotta o dagli operai di Mirafiori che, per la prima volta in trent’anni, sono tornati a scioperare autonomamente proprio pochi giorni prima della ricorrenza del primo maggio, così come lo era dagli indiani metropolitani del ’77.

Ancora il 1977

Ancora il 1977. Un anno che torna spesso a far parlare di sé, un altro nodo di un quipu che si vorrebbe bruciare, annullare, dimenticare oppure, più classicamente, criminalizzare una volta per tutte.
Eppure ce lo ricordiamo il 18 febbraio di quell’anno,il giorno successivo alla cacciata di Lama e dei servizi d’ordine del PCI dall’Università di Roma.
Lo ricordiamo a fianco di Giuliano Ferrara, a capo del numeroso servizio d’ordine del partito, con i suoi membri, armati di manici di piccone, venuti per liberare Palazzo Nuovo dai pericolosissimi indiani metropolitani.

ferrara e fassino.jpgE li deve ricordare anche lui quegli schiaffi e quelle sediate con cui un manipolo di occupanti li fece ritornare precipitosamente sui loro passi, giù per l e scalinate del più brutto palazzo universitario d’Italia. Ma cercavano la vendetta per lo smacco romano e tornarono a caricare insieme ai carabinieri, protetti dal lancio dei candelotti lacrimogeni.
Non occuparono l’università da vincitori, ma solo perché gli indiani metropolitani rifiutarono di immolarsi sull’altare che era stato predisposto per loro e si ritirarono per portare la battaglia nei viali vicini.

Come a Roma, chi si opponeva alla politica dei sacrifici e alla normalizzazione capitalistica in atto fu chiamato fascista e provocatore, ma oggi più nessuno lo ricorda. Mentre lo slogan coniato quel giorno per un giovane dirigente della FGCI, che in seguito sarebbe diventato anche segretario dei DS, è ancora comparso il primo maggio a Torino su qualche cartello portato dalle maestre d’asilo in lotta per il posto di lavoro.

E ce lo ricordiamo ancora, nel 1980, nei giorni delle ultime grandi lotte alla FIAT, in uno dei più lunghi ed autonomi confronti tra la classe operaia di fabbrica e il capitalismo famigliare degli Agnelli, in particolare, e con quello nazionale più in generale.
Accanto a Berlinguer, nel momento della svendita definitiva di quella lotta, iniziata con 61 licenziati un anno prima e proseguita con migliaia di licenziati nei mesi e negli anni seguiti alla fine della lotta.

berlinguer ferrarara fassi.jpgOggi qualcuno vorrebbe farci credere che occorrono sacrifici e compromessi per salvare il lavoro, la FIAT, Torino. Balle, come al solito.
La FIAT chiuse allora i suoi stabilimenti, che all’epoca contavano ancora centomila operai nell’area torinese. “I centomila” si intitolava il giornale di fabbrica Fiom, ma sindacati svenduti e dirigenza politica avevano già sposato la causa dei quarantamila da tempo e non sarebbero mai più tornati indietro.

Con la FIAT poco a poco scomparve un intero indotto: Carello, Abarth, mille altre medie e piccole aziende che erano state l’orgoglio della classe operaia degli anni settanta.
Una classe operaia che aveva combattuto e vinto e che per questo fu letteralmente smobilitata, ma questa è storia vecchia e risaputa.
Lo spauracchio agitato allora come oggi è sempre lo stesso: attenti all’estremismo! Attenti alle mele marce che producono antagonismo!

Oggi Torino è altra cosa.
Negli stabilimenti di Mirafiori sono rimaste poche migliaia di dipendenti.
Sulle ceneri delle lotte operaie veglia, però, ancora Fassino.
Ma, nonostante scongiuri ed esorcismi, per poco tempo sul suo palazzo comunale è tornata a sventolare, un’altra volta, la bandiera della rivolta.

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(2 – continua)