di Alberto Prunetti

[Propongo ai lettori due testi pubblicati dall’editrice Agenzia X che in maniera distinta hanno a che fare con la presa di parola in contesti discriminatori] A. P.

rapropos.jpgLuca Gricinella,Rapropos, il rap racconta la Francia, Milano, Agenzia X, 2012, 13 euro

Luca Gricinella si occupa da tempo di musica e società, di come queste due sfere interagiscano tra loro e si riproducano. Seguo spesso i suoi articoli sul supplemento Alias de Il Manifesto, mentre sul web mi sta molto a cuore la sua rassegna stampa sull’Argentina. Per l’appunto gli interessi di Gricinella si dividono su due linee geopolitiche e musicali, l’Argentina (in particolare il rock nacional) e la Francia (con un occhio di riguardo verso l’hip hop). Nel primo caso mi colpì il suo articolo sul rockero argentino (di origini italiane) Luca Prodan, uno dei miei miti musicali, poi integrato da una notevole intervista al fratello di Luca, l’attore Andrea Prodan. Gricinella infatti è uno dei pochi italiani che con me condividono una passione per i Sumo, la band post-punk anni Ottanta di Buenos Aires, e questa passione comune ci ha messo in contatto. Quando ho scoperto che Gricinella aveva pubblicato un libro sull’hip hop francese sono rimasto subito incuriosito, perché conoscevo la meticolosità con cui aveva lavorato nel contesto argentino.

Leggendo Repropos (il titolo gioca alla maniera del verlan parigino con l’espressione “a propos”) mi è parso subito chiaro, a partire dal sottotitolo, che Gricinella non è rimasto chiuso nel recinto tecnico delle faccende musicali ma ha utilizzato il rap per raccontare la Francia contemporanea a cominciare dal protagonismo musicale e dalla rabbia delle periferie parigine. E lo ha fatto riflettendo in maniera critica sul film L’odio, che in Italia ha reso familiare le banlieu a chi a Parigi andava solo a vedere il Quinto arrondissement, o triangolando tra calcio, nazionale e multiculturalismo, o interrogandosi tra i diversi sviluppi del rap italiano degli anni Novanta e del rap francese (in molti si ricorderanno il palco mediatico offerto al rap italiano e il rapido recupero spettacolare di questa corrente a metà degli anni Novanta). Ovviamente Gricinella si interroga sui rapporti tra rap e emigrazione (non per forza africana): uno dei migliori rap marsigliesi è Akhenaton, di origini napoletane; tra rap e islam (lo stesso Akhenaton si è convertito all’islam controllare se mi sbaglio); tra rap, omofobia e sessismo. Ne emergono figure interessanti, come la rapper Diam’s, e altre meno intriganti, come Doc Gynéco, da poco balzato sul carrozzone elettorale di Sarkozy. Il risultato è un’intrigante istantanea della Francia contemporanea, raccontata attraverso il diaframma del rap in maniera ineccepibile dalla penna di Luca Gricinella.

Andrea Staid, Le nostre braccia, meticciato e antropologia delle nuove schiavitù, Milano, Agenzia x, 2011, Agenzia x.

Le nostre braccia è un saggio di Andrea Staid che si inserisce a pieno titolo in una corrente di riflessione che si sta scavando degli spazi molto proficui nel campo teorico libertario, quella dell’antropologia radicale. Staid si muove sulla linea delle ricerche di sociologia e antropologia delle migrazioni, incrociando questi ambiti con le analisi sugli eccessi identitari e culturologici (Aime) e le riflessioni antropologiche su meticciato e schiavitù. Quest’ultima è utilizzata come un concetto analitico e viene ricondotta fuori dall’ambito storico, in un contesto contemporaneo, a indicare la riduzione a merce del lavoro e delle vite dei lavoratori migranti attraverso meccanismi e pratiche sociali e governative volte alla loro precarizzazione estrema, cioè alla loro clandestinità, con uno sguardo focalizzato sul contesto italiano (con una gamma che va dallo sfruttamento dei lavoratori punjabi nelle aziende agricole lombarde fino ai raccoglitori di pomodori africani in puglia, passando attraverso le vicende delle badanti nordeuropee e le donne delle pulizie di origine latinoamericana). Lavoratori che spesso non hanno modo di far sentire la propria voce: non a caso nell’ultima sezione del libro di Staid a prendere la parola sono gli stessi migranti. Ne riportiamo un esempio emblematico, quello di Marcelo:

La storia di Marcelo:
Sono partito a 19 anni nel 1989 dall’Argentina , mai mi sarei immaginato di dover andare via dal mio paese, pensavo di morire dove sono nato. Poi inizia quella che io chiamo l’ora dell’esilio, l’attività politica in argentina era controllata dalla “polizia democratica”.
Sono andato in Brasile, dopo tre mesi non avevo trovato il mio contatto ed ero senza documenti e quindi decido di andare in Uruguay e li ho preso coscienza della mia situazione legale che in Argentina era compromessa, e alora ho fatto richiesta alle nazioni unite per lo stato di rifugiato politico, dopo tre mesi mi è stato concesso
In Uruguay ho fatto quattro anni da rifugiato, ma nel 1994 mi è stato tolto perché l’Argentina era diventa democraticamente credibile non era più una dittatura da 10 anni e quindi non ero più sulla carta un rifugiato politico.
Voglio ricordare che in questa transizione democratica ci sono ben ventimila giovani ammazzati dalla polizia, erano giovani ribelli dai 13 a 19 anni, a cui lo stato voleva far imparare bene quello che voleva dire democrazia. Gli stessi quadri della dittatura erano quelli che poi passano la democrazia, hanno continuato a sparare per inerzia.
Una volta che mi hanno tolto lo stato di rifugiato ha permesso all’Argentina di venirmi a prendere in Uruguay, ma mi hanno fatto un salvo condotta e sono stato aiutato ad andare di nuovo verso il Brasile. Ho passato cinque anni in Uruguay uno solo in clandestinità e poi cinque in Brasile quattro da clandestino uno con il permesso.
In Brasile sono arrivato via terra a San paolo l’unico modo di non essere controllato nel confine. Per fortuna avevo un contatto che era la persona che non avevo incontrato cinque anni prima. Riesco a incontrarla quasi subito e mi aiuterà a trovare lavoro e alloggio. Sono riuscito ad integrami abbastanza velocemente. La cosa che mi ha aiutato è stata quella di studiare la storia del paese dove sono arrivato, poi l’ho fatto anche una volta che sono arrivato in Italia, scavare nella storia contemporanea per capire come funzionava.
Ho lavorato in una scuola agro ecologica vicino a San Paolo, un progetto che ho portato avanti per tre anni, dopo tanti anni fuori dall’Argentina avevo capito che avevo troppi problemi per tornare con il passaporto Argentino e allora ho cercato una patria sostituta e mi è venuta in mente di chiedere la cittadinanza italiana. Lo avevano fatto anche i miei genitori, perché i miei nonni erano italiani.. La richiesta l’ho fatta dal Brasile, mentre aspettavo la risposta sono andato via terra in Venezuela in autostop verso Caracas con altri due amici, quattro mesi di viaggio, li ho lavorato nella manutenzione di una scuola in un paese dell’interno del Venezuela, volevo stare con la della gente ero curioso di conoscere il processo Chavez.
In Venezuela ho deciso che non volevo aspettare i tempi della burocrazia italiana e ho deciso di venire in Europa. Prima tappa Spagna, conoscevo la lingua era più semplice, la mia famiglia invece in tutti questi anni era rimasta tutta in Argentina.
Mi sono trasferito in Andalucia, è stato un bel momento, sono arrivato con un visto turistico e poi sono ritornato clandestino. La questione della cittadinanza italiana era un mio diritto e non poteva essermi negato. A parte i procedimenti lunghi della burocrazia esisteva un fai da te e quindi decido dia andare nel comune dì residenza dei miei nonni e mi sono fatto in 24 ore la cittadinanza. Per arrivare in Italia ho dovuto fare la strada senza documenti, ma sono stato fortunato perché con il cognome italiano e il fatto che stavo andando a fare la cittadinanza non ho avuto grossi problemi ad arrivare in Italia. Poi il razzismo è irrazionale , se sei sud americano o meglio ancora argentino sei per la polizia un gradino in più in su rispetto ad un africano, è incredibile ma mi sono sentito un migrante privilegiato in più occasioni.. Il comune dove ho fatto la cittadinanza è in Calabria. Avuto le carte in regola non sono rimasto in Calabria, sono tornato in Spagna ma finalmente con i documenti in regola.
Lavoravo nell’estrazione del marmo ma era troppo faticoso, guadagnavo poco e allora volevo arrivare a Milano per me era il nord Europa ricco.
Arrivo Milano nel 2002 e in una settimana ho trovato il lavoro nelle cooperative, Mi hanno chiamato in tanti. Le cooperative non pagavano molto ma c’era tanto lavoro. Io non parlavo la lingua e al’inizio anche sul lavoro è stato difficile, per esempio non capivo la differenza fra su e giù il problema linguistico non è stato da poco lavoravo in una ditta di traslochi e facevo fatica a capire tutti i discorsi.
Lavorando in una cooperativa mi capita una cosa particolare che mi ha segnato. Mi chiamano in una ditta a Lainate, un’azienda piccola di logistica, magazzinieri lavoravano 6 persone fisse 5 italiane e un marocchino. Io entravo come unico lavoratore esternalizzato cioè lavoravo per la cooperativa. Il primo giorno mi blindano subito gli operai negli spogliatoi e mi dicono: ci devi dire quanto guadagni! erano 800 euro al mese. Questi mi hanno portato dal direttore della azienda e gli hanno detto che non gli permettevano di pagarmi meno di loro, gli dicono stesso lavoro stesso stipendio non permettiamo che qualcuno guadagni meno per lo stesso impiego .
Sapevano che rischiavano che se entravano io pagato meno poi ne sarebbero arrivati due di Marcelo e in due giorni mi hanno aumentato del 33% lo stipendio e mi hanno dato il buono mensa che non sapevo neanche cosa fosse. Si è creato subito da parte mia il massimo rispetto per i miei colleghi . In più gli chiedevano di non cambiare ogni tre mesi il personale precario ma di tenere una persona se lavora bene e mandarla via solo se lavora male. Un passaggio per me importante, questo serve anche per capire il tema dell’immigrazione siamo noi operai che ci freghiamo da soli quando lasciamo che un migrante clandestino lavori per 3 euro l’ora, quando alzano la testa noi non li appoggiamo e loro non possono esporsi da soli, stesso lavoro stesso stipendio un livello per cominciare fondamentale.
Li ho lavorato 9 mesi dopo sono andato a vivere a Varese in un magazzino, inseguivo il posto fisso, li ho lavorato un anno.
Poi ho trovato il lavoro alla Carlo Colombo a Agrate Brianza, mi sono trasferito ho preso una casa in affitto ed è arrivata anche mia madre dall’Argentina. E’ stato un momento di stabilità, in questa azienda facevamo trafileria in rame.
Anche qui trovo un gruppo di persone simpatiche, c’era un abitudine in fabbrica fantastica, tutti insieme andavamo a comprarci da mangiare alla sette di mattina per farci i panini e per prenderci la bottiglia di vino. Questa piccola abitudine creava unità, io questo lo chiamavo il filo che unisce l’Italia il filo del salame… li non c’erano capi, Argentini Siciliani o lombardi eravamo tutti uguali, questa unità è stata importante anche per il dopo fabbrica, la relazione umana diventava più importante di quella politica.
Ma a un certo punto la situazione e diventata critica, arriva nuovo direttore che faceva gli stessi discorsi che sentivo in Argentina “dobbiamo tagliare i rami secchi, stiamo andando incontro a una crisi”,….qualcosa non andava stava iniziando il gioco della speculazione.
Nel 2008 il treno arriva al capolinea e si deve chiudere la fabbrica e ci ritroviamo tutti in strada, la gente ha fatto resistenza per non perdere il lavoro e iniziano i primi passi di una lotta .
Volevamo difendere il nostro posto di lavoro. Tramite le altre esperienze degli altri operai abbiamo deciso di non aspettare le decisione dei sindacati o dei padroni e siamo passati all’azione per la rivendicazione dei nostri diritti
Abbiamo bloccato per 14 giorni le merci in entrata e in uscita davanti ai cancelli. L’azienda è stata quindi costretta a sottoscrivere un accordo che, tra le altre cose, prevedeva la ricollocazione di 38 lavoratori nell’arco di due anni, durante i quali i dipendenti sarebbero stati coperti dalla cassa integrazione straordinaria. Nel gennaio 2009 siamo entrati in cassa, ma ad oggi la ricollocazione è rimasta lettera morta. Vista l’immobilità del sindacato e la sua incapacità di dare risposte chiare si è formato un Comitato Lavoratori Colombo, che ha dato vita ad una manifestazione davanti agli uffici di Milano dell’azienda, a seguito della quale la proprietà ha accettato di anticipare anche il secondo anno di cassa
Nel gennaio abbiamo cominciato a svolgere una serie di iniziative: assemblee settimanali autoconvocate, presidi davanti alla sede di Confindustria, occupazione per 6 ore degli uffici dell’azienda da parte di 35 lavoratori… è stata una sorta di “scuola” che ci è servita non solo a consolidare il gruppo di lavoratori, ma anche a capire i limiti di queste forme di lotta. Si è infatti arrivati ad una situazione di stallo in cui i tavoli di trattativa non portavano a nulla di concreto e i lavoratori sono spontaneamente giunti alla conclusione che occupare il vecchio stabilimento di Agrate era l’unico modo per fare un salto di qualità. Mentre in 8 saliamo sul tetto, tutti gli altri hanno dato vita ad un presidio permanente davanti alla fabbrica. L’occupazione ha fatto venire meno tutte le divergenze tra i lavoratori e ha rafforzato lo spirito più combattivo. Anche i più scettici si sono riavvicinati alla lotta e si sono trovati in prima linea, cosa che non era stata possibile con le altre forme di lotta più limitate. Inoltre il sostegno popolare degli altri lavoratori, a partire dagli abitanti di Agrate, è stato davvero eccezionale. E infine ci tengo a sottolineare che l’azione si è svolta mentre ancora era in corso la riunione con i rappresentanti dell’azienda e in questo modo il tavolo di trattativa è stato completamente ribaltato. Non c’è più stato solo il monologo della proprietà, ma le istituzioni sono state costrette dalla pressione politica e sociale a schierarsi pubblicamente dalla parte degli operai, il che ha sicuramente alzato il nostro morale. Abbiamo chiamato quello che è successo “effetto Vodafone”, perché “tutto ruota intorno a noi”. In quel momento politici e giornalisti che prima non ci avevano considerato sono venuti davanti alla fabbrica. Prima eravamo noi ad andare a cercarli per avere un po’ della loro attenzione, ma dopo che noi lavoratori abbiamo alzato la testa sono state le istituzioni a correrci dietro.
Questa lotta si è conclusa bene perché ci hanno riconosciuto 2 anni di stipendio, la casa e poi la mobilità quindi abbiamo ottenuto quasi quattro anni di tranquillità economica per trovarci un altro lavoro.
Finita questa lotta dopo una vacanza ho cominciato a frequentare più attivamente il movimento dei migranti contro la sanatoria truffa.
Ci ho messo tutte le mie energie anche se io oramai ero tranquillo con i documenti, la logica che ho spinto al’interno delle assemblee era questa; se ho un diritto me lo devo prendere con un atto politico dobbiamo sbloccare la situazione della sanatoria truffa. I migranti avevano sganciato i soldi e se non gli danno il permesso io politicamente faccio delle azioni che mi fanno avere quello che mi spetta. Il prefetto ci ha subito detto che non poteva fare nulla e noi abbiamo deciso di metterlo nelle condizioni di poterlo fare. Ci voleva la forza per fare questo. Dovevamo mettere le forze in campo, era chiaro che l’epoca della grandi manifestazioni era passata, del presidio passata perché non ci cagavano era arrivata l’ora delle azioni di forza.
Tramite l’esperienza della fabbrica l’idea è stata cerchiamo una gru e la occupiamo, non erano tutti d’accordo, principalmente i partiti e le associazioni.
In quei giorni a Brescia avevano iniziato con un presidio permanete che durava da 20 giorni davanti alla prefettura. Allora decidiamo con un amico egiziano di andare a parlare con quelli di Brescia e gli abbiamo dato l’idea di occupare una gru per sbloccare questa passività e indifferenza che c’era sul problema della sanatoria truffa, un azione pacifica ma determinata. I ragazzi di Brescia decidono di farla l’occupazione, parliamo in un ora neanche sapevamo i nomi ma abbiamo fatto un accordo se voi salite noi saliamo a Milano. Eravamo determinati, loro hanno cercato la gru e sono saliti, ma non avevano il necessario e l’hanno pagato con freddo e fame. Dopo di loro siamo saliti noi ma abbiamo capito che la gru era troppo esposta al clima e abbiamo trovato una torre che era più difendibile e meno esposta alle intemperie.. Abbiamo preparato il comunicato i viveri e siamo saliti anche noi Eravamo in 5 a organizzare l’occupazione della torre, cani sciolti di vari e parti del mondo, volevamo rompere la dinamica dell’attesa.
Quindi il 5 di novembre con alcuni cittadini immigrati che vivono a Milano, dopo un presidio convocato in p.le Maciachini, siamo saliti sulla Torre della ex Carlo Erba in via Imbonati, alta circa 40 metri. Nell’anno precedente si erano svolti presidi e manifestazioni per rivendicare dignità e diritti per gli immigrati. E’ a partire dalla nostra condizione di vita quotidiana, che peggiora sempre di più anche a causa della crisi economica, che ci ha spinto a tentare qualcosa di più. Tanto, dicevamo tra noi, cosa abbiamo da perdere più di quello che non abbiamo?. Tanti soprattutto italiani ci dicevano che la nostra idea era rischiosa, che la fase politica era avversa, che faceva freddo… insomma, che si trattava di una forzatura che non avrebbe portato a nulla. Forzatura: mai parola è stata più azzeccata! Infatti ci dà l’idea di un’azione per aprire qualcosa di ben chiuso, con la forza appunto, quando i mezzi normali non bastano. Esattamente quello che è la situazione giuridico-sociale degli immigrati in questo paese di emigranti: una situazione bloccata, con una legge studiata apposta per creare la cosiddetta clandestinità, per avere a disposizione una massa di semi-schiavi ricattabili cui far svolgere i lavori più umili alle peggiori condizioni Sia i governi di centro-destra che quelli di centro-sinistra hanno finora governato il fenomeno migratorio con il bastone e a unico beneficio degli imprenditori, piccoli e grandi, regolari o irregolari, di questo paese, senza nessuno scrupolo per la nostre vite. Oggi a maggior ragione, con il partito razzista Lega al governo, la situazione è insostenibile e assolutamente scevra di una via di uscita Cosa dovremmo dunque fare, noi immigrati, starcene in silenzio a masticare amaro e spezzarci la schiena in attesa che qualche genio della politica faccia nascere una vera opposizione che si degni di rappresentare anche noi? Questo ci siamo chiesti per mesi, ma poi i nostri fratelli a Rosarno hanno alzato la testa, ricordandoci che si può anche non avere nulla, ma almeno bisogna conservare la dignità di uomini….. la nostra è stata una forzatura, e ne siamo stati consapevoli fin dall’inizio, ma non potevamo agire diversamente. Eravamo e siamo convinti che questa realtà che ci riguarda non la cambieremo grazie a preghiere, attese di governi amici o speranze che la fasi politica cambi. Noi viviamo qui e ora, ed è qui e ora che dobbiamo agire, perché ci spinge a farlo l’insopportabilità della nostra condizione di vita. Quando i giornalisti ci chiedevano come facevamo a resistere al freddo e alle intemperie, il mio amico egiziano sulla Torre rispondeva che quello era un hotel di lusso, lo chiamavamo l’Hilton, in confronto al viaggio in gommone durato 5 giorni in mezzo a gente che moriva di stenti o affogata. Se non si capisce che l’aver determinato queste condizioni di vita spinge e spingerà sempre più immigrati a lottare, non ci si può dire davvero “amici degli immigrati”. La strada “istituzionale” del “cambiamento” si dimostra essere un terreno perdente perché è solo peggiorativa. Questa, di per se stessa molto limitata per noi immigrati visto che siamo sottoposti ad una legislazione speciale, è già stata sperimentata e battuta, anche da noi in prima persona, e si è rivelata senza sbocco.
Abbiamo la consapevolezza che solo la via della lotta è capace, tra tutte le altre, di accelerare e far maturare condizioni che le altre vie, da sole, non riescono.
Dovevamo dare un segnale, forzare l’immobilismo della realtà e quello di tanti “amici” che sembrano spaventati più da chi prende l’iniziativa come noi che dal nemico. Il segnale lo abbiamo dato ed è arrivato forte e chiaro. I media hanno dato ampio risalto alla protesta e soprattutto alle nostre motivazioni. Finalmente abbiamo potuto far ascoltare le nostre ragioni anche a chi guarda solo la tv. In parlamento si sono scomodati a parlare. Insomma, rispetto al silenzio omertoso che regna sulla nostra condizione, almeno è diventato uno dei problemi più discussi. La visibilità delle nostre ragioni era il nostro obiettivo principale ed è stato raggiunto, ma non era l’unico. C’era anche quello di dimostrare concretamente la nostra solidarietà a Brescia, ed anche questo è stato raggiunto. E poi c’era quello più difficile di sbloccare la situazione di tanti permessi di soggiorno negati o nel limbo burocratico determinatosi dopo la sanatoria truffa. Su quest’ultimo punto sapevamo che non potevamo ottenere risultati immediati di grossa portata..l’esperienza della Torre ha visto fin dal primo giorno una grossa differenza tra la determinazione a resistere di noi sopra, e le incertezze e la mancanza di determinazione di diversi compagni sotto, compensate per fortuna nostra dall’arrivo di decine di nuovi immigrati che ci hanno sostenuto in modo totale sobbarcandosi l’onere e l’onore del mantenimento del presidio
Del resto, la lotta è positiva anche per questo: fa crescere nuovi attivisti, e fa chiarezza tra chi, oltre a parlare, è disposto anche a rischiare. La presenza quotidiana di decine di immigrati, ma anche di italiani (studenti, lavoratori, gente del quartiere che ci ha “materialmente” sostenuto con cibo e coperte) ha dimostrato che avevamo fatto la mossa giusta. Da “lassù” noi vedevamo tutto e ci rendevamo conto delle dinamiche positive e negative che nascevano, e anche delle debolezze innegabili che avevamo: tanti fratelli generosi e presenti.
Una volta che inizi una lotta non ci vogliono tante parole ci guardavamo negli occhi e sapevamo cosa fare, avevamo tutti dei compiti dai contatti con chi stava in presidio sotto, o chi sistemava il poco spazio fino al parlare con i giornalisti. Tranne me e un altro erano tutti giovani
Eravamo un gruppo che funzionava, si riusciva anche a dormire al freddo ma avevamo messo tre tende in poco spazio e chiaramente bisognava avere pazienza, ma tutti avevamo passato nella nostra vita esperienze simili ….quattro nevicate, tante pioggia un novembre freddo molto freddo, una cosa curiosa era che noi sopra dicevamo qui resistiamo e quello sotto se ne volevano andare, sopra eravamo determinati,la grinta era tanta.
La lotta è servita è stato rilevante che come migranti abbiamo detto basta abbiamo preso il destino in mano e sono stati migranti a determinare il ritmo della lotta, questo è la cosa più importante.
La torre è stata uno sparti-acqua per la lotta dei diritti dei migranti, una lotta per la dignità! Una volta che lotta è per la dignità capisci che non è solo il permesso di soggiorno quello che stai chiedendo e il legno diventa ferro
L’importante è stato capire che dobbiamo unirci per costruire un altro paese, un paese moderno, dove le relazioni umane diventino una ricchezza, dove la speculazione non sia la regola, dove la legge sia al servizio delle persone e non uno strumento di riduzione e negazione di diritti. Abbiamo tanto lavoro da fare, la strada è tutta in salita, ma la lotta più bella è quella che serve per cambiare questo paese e per farne un posto migliore