di Dziga Cacace

Senza dirti niente, t’ho detto tutto.
Non indagare, non indagare
Adriana Asti in
Prima della rivoluzione di Bernardo Bertolucci

ddv3601.jpg389 — My name is Tanino dell’interrotto Paolo Virzì, Italia 2003

Non so bene, ma son sicuro che c’entra sempre quel maledetto anticiclone delle Azzorre. Son dieci giorni che viaggiamo intorno ai 35, 36 gradi, e cominciamo a essere tutti nervosetti, specie quando viene sera e la temperatura non scende né si alza un refolo d’aria. In ufficio c’è il pienone, pur senza una mazza da fare, tutti immobili davanti ai bocchettoni dell’aria accesi a palla. Poi viene il momento di tornarsene a casa e lì ricominciano i guai perché in metropolitana sembra di stare dentro a un ferro da stiro e quando si esce a rivedere le stelle non è tanto meglio. Staranno facendo una fortuna i cinema: a noi basta che il film sia inedito e che sia presente l’aria condizionata e anche stasera non ci sottraiamo al rito. Il film di Virzì è arrivato sugli schermi dopo le note vicissitudini produttive (bancarotta di Cecchi Gori, stop alle riprese, sequestro dei materiali girati etc.) ed è un film che possiede una prima parte niente male, con tiro narrativo, trovate comiche, ritmo. Poi il motore grippa e la vicenda va avanti a strattoni, senza la felice combinazione iniziale. Tanino è uno studente caprone di Lettere, originario di Castelluzzo del Golfo e ora a Roma. Per evitare il militare va in America inseguendo Sally, un amorazzo estivo. Lì, rovinerà senza saperlo la famiglia WASP della ragazza, manderà all’aria i piani di un sindaco mafioso e incontrerà un regista fallito suo idolo, Seymour Chinaski. Infine, sarà rispedito senza tanti complimenti nella madrepatria: un disastro, insomma, ma quando si han vent’anni si cresce anche così.

My name is Tanino cita la commedia all’italiana classica (vedasi iconicamente — ma non solo — la coppiolata alla porta, come Sordi ne Una vita difficile) e prova ad aggiornarla ai giorni nostri. Non c’è grande profondità, ma l’ironia salva tutto: il confronto con l’Amerika è vivace e abusa intelligentemente di luoghi comuni senza sembrare didascalico; My name is Tanino si sgonfia però quando l’obiettivo satirico diventano i nostri immigrati: Virzì si fa prendere un po’ troppo la mano e si ride più a fatica. E soprattutto sono le vicende del nostro eroe a diventare improbabili anche per il contesto schizzato che c’è già stato presentato. Forse il difetto sta nel manico (nella sceneggiatura) e non nella mancanza di denaro che ha stoppato più volte le riprese durante la trasferta americana: il risultato è discontinuo e delude per ciò che aveva promesso e stava tutto sommato mantenendo. In ogni caso un film che merita una visione anche per la straordinaria faccia di Corrado Fortuna, giovane e già molto bravo (e in parte) e per l’irruzione improvvisa, gentile e prepotente, di ‘Cello Song di Nick Drake: la struggente dolcezza dell’adolescenza a fianco dei sogni ignoranti di chi vuol cambiare il mondo, sempre con un buon motivo, anche se non lo sa bene (perché c’è, oh sì). L’aria condizionata è gelida, da sincope; ciò non ferma le zanzare né la proiezione trapezoidale, con la parte centrale dello schermo fuori fuoco e il quadro tagliato in maniera grottesca. Maledizione alla clientela radical chic dell’Anteo che nulla obietta. (Cinema Anteo, Milano; 14/6/03

ddv3602.jpg390 — L’arrembante GoodFellas di Martin Scorsese, USA 1990

No, viene fuori che l’anticiclone viene dall’Africa. La cosa non mi smuove né mi raffredda. Mi ritrovo come un cretino all’Esselunga, inventandomi qualcosa da comprare, in mezzo a poveri anziani di cui il caldo sta menando gran strage. Alla sera c’è l’insperata diminuzione di forse un grado (ho 3 termometri in casa, due interni e uno esterno) e allora optiamo per casina, spalmati sul divano per l’ennesima visione (sarà la quarta?) di questo capolavoro di Scorsese. L’occasione è data dal Dvd di Alessandra che ci permette di ascoltare il superbo sonoro originale. GoodFellas è un inno alla carriera da gangster, alla bella vita, senza rendere conto a nessuno, se non al denaro, senza alcuna legge morale o sociale. Del resto, per i wise guys i soldi ci sono, sono già lì, basta prenderseli. L’affresco è travolgente, concitato, drogato, ambiguamente coinvolgente e anche per lo spettatore, come per i protagonisti, morte e vita diventano indifferenti: fanno parte dello stato delle cose, prendere o lasciare. Henry Hill (Ray Liotta) si fa trent’anni nella mafia newyorchese, da galoppino tredicenne fino ai vertici, ma finirà schiacciato da ambizioni personali, coca, donne e amicizie pericolose. Prima di essere punito dai goodfellas si consegnerà alla giustizia in cambio di un futuro insapore, anonimo, mescolato alla mediocrità della moltitudine, dei senza nome, senza privilegi, nel mondo di chi fa la coda. Diventerà normale e questa sarà la pena più dura e inaspettata. Film musicale, velocissimo, insaporito dall’aglio tagliato con la lametta e fatto sciogliere nell’olio, ma proprio per questo, per nulla pesante: Martin Scorsese conosce la ricetta e ha il rock nel sangue, mentre la fida Schoonmaker, al taglio della pellicola, non perde un beat. Clamorosi, oltre a Liotta, anche Lorraine Bracco nel ruolo della bella ed esasperata Karen, Robert De Niro come Jimmy Conway, Paul Sorvino nella parte del boss Paulie Cicero e infine il maestoso Joe Pesci: l’irascibile, efferato, acidissimo Tommy DeVito. Bellissimo. Nel pomeriggio quarta visione di Fame chimica (vedi le baggianate già dette in proposito, recensioni n.371 e n.386) passo passo assieme al regista per capire cosa si può tagliare o rimontare per dare una marcia in più al film. Servirebbe la Schoonmaker, ma stavolta il film mi piace di più. Crescerà, vedrete. Ah, referendum senza quorum, come se la cosa non ci riguardasse tutti: “Nel fango affonda lo stivale dei maiali” e ce ne accorgeremo presto. (Dvd; 15/6/03)

ddv3603.jpg391 — The Woman in the Window del miglior Fritz Lang, USA 1944

La canicola da un po’ di tregua e complice un’uscita di Barbara accendo con voluttà il videoregistratore: questo film languiva in fondo a una vhs registrata chissà quando, all’interno di un Fuori Orario dedicato al tema del ritratto, da Vertigo a Laura. Ghezzi farfuglia fuori sync di vertigine nello spettatore osservato dalla tela e di reciprocità degli sguardi e bla bla: il dito scivola repentino sull’avanzamento veloce fino al film. È un noir fulminante che mette subito le cose in chiaro: lo psicologo criminale con la faccia dolente di Edward G. Robinson rimane solo in città, a lavorare, mentre moglie e figli vanno in villeggiatura. Fantastica qualche avventura, ma più urbanamente va al club con gli amici e tuttalpiù si concede una lettura del Cantico dei cantici di re Salomone, giuro. Ci manca che si metta pure sui ceci, il miserello! Ma uscito dal club la sua attenzione è catturata dal ritratto di una splendida donna, esposto in una vetrina sulla strada. Come per miracolo la donna appare in carne e ossa, si presenta e convince il protagonista piuttosto frastornato ad accompagnarla a casa sua, apparentemente senza secondi fini. Lì, irrompe un amante parecchio incazzato, botte da orbi e assassinio. Il criminologo che avevamo visto prima illustrare ai suoi studenti le differenze tra i vari tipi di omicidio, ha ucciso per legittima difesa. Ma come dimostrarlo? La faccenda diventa sempre più tignosa, anche perché l’ammazzato era un facoltoso finanziere e ci si mette di mezzo anche un ricattatore che sa qualcosa. Un incubo! (Questo, mica Detour, dai). E quando il caso sembra mettere al riparo tutti… (che faccio, spoilero? No, dai). Congegno narrativo teso, indizi sparsi per il film, dettagli oculatamente mostrati e poi riutilizzati, attori perfetti, cinepresa sempre mobile a seguire morbidamente i protagonisti, La donna del ritratto sfrutta i meccanismi del giallo per indagare l’ambiguità del senso di colpa, le circostanze straordinarie che trasformano la nostra percezione della giustizia, l’inesorabilità del Caso, il terrore del giudizio umano, fallace ma spietato. In un’epoca che esigeva certezze, Lang sapeva ancora esprimere dubbi: gran bel film. (Vhs da RaiTre; 17/6/03)

ddv3604.jpg392 — La meglio gioventù del semplificatorio e lacrimoso Marco Tullio Giordana, Italia 2003

Nel giorno in cui viene approvato il lodo Schifani e buonanotte ai suonatori, io mi rintano in un cinema per una maratona epica. Fluviale, imperfetto, commovente, schematico, il film di Giordana ha alcune lacune, ma m’ha fatto frignare come un bimbo e siccome avevo voglia di farlo, di farmi prendere per mano da una storia e parteciparla, beh, allora, m’è piaciuto. Poi se ragiono col cervello e non col panzone, allora, ci sarebbe da stare a discuterne per ore, ma Giordana è così — lo sappiamo già — e con Rulli e Petraglia non poteva diventare più complesso, anzi. Il film è stato prodotto per la Rai che poi, dopo averlo annunciato, l’ha ritirato dalla programmazione e l’ha presentato a Cannes, dove ha vinto nella sezione Un certain regard. Adesso viene distribuito nelle sale nella formula bertolucciana degli Atti primo e secondo. Come avverrà in altre città italiane, la programmazione è anticipata da una prima integrale a cui mi fiondo con singolare tempismo. Infatti mercoledì scorso ho chiamato Film TV per avere due biglietti omaggio. Poi, non pago, mi son fatto vivo con la distribuzione e ho ottenuto altri tre biglietti grazie alla mia professionalità televisiva. Cosa indimostrabile telefonicamente, ma nessuno ha fatto una piega (in Rai, ma chi cazzo volete che si preoccupi?). Solo che poi, al cinema, oggi, eravamo solo Barbara e io, paccati da tutti. Una ragazza si avvicina timida e mi chiede se per caso mi avanza un biglietto: io gliene do tre ed è subito amore. In sala molti critici e molti testoni (non necessariamente persone diverse) che durante il film commentano ad alta voce. Alternativi, secchioni, finti studenti, semplici appassionati, alcuni con la comune allergia al deodorante. E poi scommetto che nessuno conosce i film di Barnet. Vabbeh: non son qui per fare polemica. La proiezione parte con il (notevole) trailer di Buongiorno, notte, il nuovo film di Marco Bellocchio sul sequestro Moro, e poi tocca a La meglio gioventù, ma dopo pochi secondi ci si deve fermare grazie ai proiezionisti dell’Anteo, che se li avessi per le mani con i ferri del mestiere (del boia)… Poi finalmente è la volta buona: Giordana racconta quasi quarant’anni di storia italiana attraverso la vicenda umana di due fratelli, Matteo e Nicola, dei loro genitori, delle due sorelle e dei tanti amici e amori che incrociano le loro esistenze. Nicola ha la faccia bellissima di Luigi Lo Cascio, due occhi che illuminano le sei ore di un racconto sicuramente riuscito quando si concentra sul Privato, meno quando, specie nella seconda parte, affronta il Politico. Nell’intervallo tra i due atti, dopo un applauso liberatorio (perché il primo Atto va come un treno, senza grandi scadimenti didascalici e pause), il pubblico si avventa sul buffet gentilmente offerto dalla Rai. Siccome siamo tutti sedicenti sinistrorsi nessuno fa la coda e ne viene fuori una ressa da stadio, con insospettabili signore in tailleur che lavorano di gomito e menano calci nel groviglio di gambe, mentre austeri intellettuali portano via piattoni con cibo per due settimane. Valuto costi e opportunità e decido di digiunare. Tra l’altro di solito all’Anteo si gela: stavolta sembra di essere in un cinema del Ghana. Prendiamo un po’ d’aria, bevo un litro d’acqua ed è già tempo di ricominciare. Il secondo Atto è meno filante, fin troppo dilatato nell’ora finale, ma la commozione e tutto sommato il bel narrare mi fanno chiudere un occhio lacrimoso sulle consuete semplificazioni rullipetragliesche: sono tirate via sia la trattazione del terrorismo che quella di Tangentopoli, stereotipando allegramente coi classici due dialoghi in cui dover dire in estrema sintesi tutto (e dicendo che la colpa non è nostra, cittadini, ma loro, politici. Mah). In questo senso siamo nel paratelevisivo più bieco e, in sei ore di narrazione, metterla giù così m’è sembrato un delitto grossolano. E poi, per onestà storica, è odioso ridurre sempre il personaggio del terrorista a quello dell’insoddisfatto che crede di risolvere i problemi (suoi e del mondo) sparando. Così è solo l’ennesima rimozione, eh, e poi il SIM c’era e c’è davvero, anche se questa è tutta un’altra storia. E vabbeh: tornando al film, ci sono alcuni scadimenti retorici, forzature poco credibili o irritanti (sempre il brigatismo, con la denuncia/tradimento/salvezza moglie/marito francamente un po’ oltre), Alessio Boni (che impersona Matteo) un po’ rigido e Sonia Bergamasco che sembra Michael York con la paresi. Ma il valore vero della pellicola è nell’epica dei sentimenti, con credibili rapporti familiari, tra padri e madri e figli, veri e putativi, attribuiti e ritrovati. E un film d’amore che brilla sí nello sguardo di Lo Cascio, ma anche in quello di Adriana Asti che appare dieci volte e ogni volta dice la cosa giusta con gli occhi giusti e io mi sciolgo, perché la Asti è Storia e Memoria (non nel senso di Le Goff, bensì di Bertolucci!). Insomma, come nell’emotivo e turlupinatore I cento passi, di Giordana mi convince il versante emozionale, umano: lì la sua capacità ricattatoria è indiscutibile; vale molto meno il versante ufficiale, diciamo storiografico, anche se — senza ingombrare — si dicono diverse cose interessanti di psichiatria democratica e Basaglia, di Corea e Vietnam, dell’alluvione di Firenze, di partecipazione e passione civile. Insomma: film di soddisfazione cui perdòno i difetti, tra i quali anche i clamorosi smarroni della finale della Coppa del mondo del 1982 giocata di pomeriggio o che da una radio del 1966 esca fuori Might Just Take Your Life, brano funky dei Deep Purple, annata 1974. Commenti generalmente positivi (perché 6 ore e rotti sono un flash al fosforo che ti annichilisce) ma anche diverse lagnanze, generalmente di chi c’era e voleva sentirsi raccontare la sua storia, non quella che Giordana ha invece scelto di narrare. Ma questo è il problema di tutti i film italiani che si occupano di storia recente, la critica diventa giocoforza militante perché vede nel racconto un’usurpazione e chiede quel risarcimento che non hanno dato né la politica né la magistratura, a tanto siam ridotti. Vabbeh, sono un mollaccione posseduto da Veltroni, che vi devo dire? E mentre sono al cinema, su RaiDue va in onda il destrissimo Premio Giorgio Almirante presieduto da una platea di facce da cazzo come raramente se ne vedono in tivù (ed è tutto dire). Un premio dedicato al fondatore del Movimento Sociale?! E che fanno: premiano lo Squadrista d’oro, brindando con olio di ricino? Per la cronaca vince (ma in che senso?) Giorgio Albertazzi, che in gioventù etc., etc., e che poi parla di coraggio delle scelte, mentre Mirko Tremaglia blatera commosso che anche se s’è perso, in fondo s’è vinto e altre piacevolezze da Ventennio. E allora io ho un momento di struggente dolcezza pensando a Stalin e alle sue umane debolezze nel trattare un po’ rudemente gli avversari politici. Son proprio un sentimentale, alle volte. (Cinema Anteo, Milano; 18/6/03)

ddv3605.jpg393 — Insomnia dell’orchitico Christopher Nolan, USA 2002

A me ‘sto film non è piaciuto per niente, sai? Insipido, prevedibile, intorcinato su una vicenda di pallottole e calibri e tradimenti. E poi mi sono rotto di questi ruoli che mettono alla prova la capacità gigionesca di Al Pacino, qui alle prese con “l’insonne”. E vai con un bel repertorio di facce dal fiacco allo stanchino, allo stravolto, all’esausto, al distrutto, al pressofuso, con la boccuccia a culo di gallina e gli occhi pesti. Il film si conclude con Pacino che ormai non dorme da sei giorni e non capisce più una sega e Nolan (tanto virtuosistico in Memento, tanto ordinario qui) si diverte a montare tante sfocature o incidentali ricordi passati o visioni o cosa cacchio gli passa per la capa. E poi c’è Robin Williams che, udite udite, non fa la parte del professore anticonformista o del pazzeriello. No! Cambio di registro! Stavolta fa… il CATTIVO! Ollalalà! Gli hanno semplicemente cambiato ruolo, perché lui è sempre uguale. Viscido e sarcastico, con la faccia rugosa da primo della classe, qui è il professorino del crimine che ha ammazzato una diciassettenne, senza tanti motivi. Detto tra noi, a me, Williams (tolto quand’era Mork o ne Il mondo secondo Garp, film strambo con lui sobrio) m’ha sempre irritato. Pacino invece ha il ruolo dello stimato poliziotto alla Quinlan, che fa alcune porcate a fin di bene. E qui, per la gioia degli statistici, si confronta con Williams in un inedito duello recitativo degno di due mocassini sformati. Boh: mi sembra che ormai Hollywood, in mancanza di idee, ricorra all’accoppiamento inconsueto per creare un po’ di curiosità nello spettatore. Fatto sta che non mi funzionano né Pacino né Williams. Sarò io di cattivo umore, che dirvi? Di contorno c’è la mascolina Hilary Swank, già premio Oscar per quel Boys Don’t Cry che non vedrò mai e qui abbastanza incolore. Insomnia si risolve in due ore di menata poliziesca, con discreto ritmo, ma psicologie e ruoli abbondantemente prevedibili. C’è una bella scena nella nebbia e una felice ambientazione nell’Alaska dove non tramonta mai il sole, ma nonostante il titolo il film invita al sonno. A me diverte Il rispetto di Giuseppe Ferrandino, mi inebria l’odore degli abeti a Champoluc e mi commuovono i dolly di Novecento. Che bisogno ho di passare due ore della mia vita con un film che non mi lascerà niente? Con un film insonne e senza coglioni? (Dvd; 19/6/03)

ddv3606.jpg394 — Bittersweet Motel jammato da Todd Phillips, USA 2000

Il week end sono a Bonassola con le due cugine terribili. Fa un caldo fottuto, altro che brezza mediterranea, e ad andare in spiaggia non ci penso neanche. Sono come la marchesa di Ambrogio: voglio qualcosa di stuzzicante e di goloso. E così infilo nel portatile un Dvd dedicato ai Phish e assaporo diverse paradisiache sensazioni. I Phish sono un gruppo rock che amo alla follia e che ha nel suo vocabolario quasi tutto lo scibile musicale e lo coniuga con la tendenza ad improvvisare fino a che si trovano idee (cioè a lungo, molto). I Phish incarnano anche quell’ideale molto Sixties di comunione col pubblico: rifiutano divismo e isterie e il concerto è uno happening possibilmente diverso ogni sera, dove musica e spettacolo si coniugano senza forzature. Libertà d’espressione, passione ludica (giocano a scacchi col pubblico, una mossa a concerto, e la partita dura tutta la tournée), voglia di sperimentare e di mettersi alla prova (il pubblico in certe occasioni vota preventivamente per scegliere la scaletta del concerto), disponibilità a giocare tutti assieme e diventare un’opera d’arte (le foto di Spencer Tunick a 1500 fan nudi come mamma li ha fatti). Questo Bittersweet Motel è un documentario abbastanza disarticolato, cresciuto col tempo (e si vede), che illustra questo straordinario caso del mondo dello spettacolo. I Phish infatti sono tra i gruppi d’America più seguiti in assoluto, dal vivo. Dischi, invece, ne vendono pochini e comunque soprattutto ai concerti. Non sono mai in classifica, non producono video per Mtv, non vendono più di 500mila copie a titolo e in periodi lunghissimi. Il documentario prova a penetrare il mistero di questa stranissima band e ragiona anche sui meccanismi spettacolari del rock stesso, approdando a uno strambo mix di documentazione e metacinema. Visto in originale, ho sicuramente perso qualcosa. Ma il senso, lo spirito, quello l’ho compreso sempre, perché a Trey Anastasio — il leader — gliele leggi in faccia le cose, come se non servissero le parole ma bastassero la musica, l’espressione del volto e il tono della voce. E i Phish sono così, splendidamente leggibili anche se non segui i testi (surreali e molto complicati). La loro musica ti colpisce a livello inconscio: non sempre è una musica facile, anzi. Ma se hai cuore e orecchie disponibili, aperte e ricettive, ti si apre un mondo. Belle immagini, costruzione un po’ caotica, musica ovviamente clamorosa, ma probabilmente il mio amore per Anastasio e soci mi ha accecato e mi ha fatto perdere di vista le esigenze dello spettatore medio (ma per chi è un documentario così, se non per uno che i Phish li conosce già?). (Dvd; 21/6/03)

ddv3607.jpg395 — Il mondano Sex and the City — Season 1 di AA.VV., USA 1998

Carrie Broadshaw cura una rubrica settimanale chiamata “Sex and the City” sul New York Star: una specie di punto socio-antropologico su come venga vissuto il sesso a New York. Intorno a lei tre amiche con cui condividere sentimenti e confidenze piccanti e da cui trarre anche ispirazione: la square Charlotte, romantica, perbenista e cresciuta con un’esclusiva educazione; Samantha, la PR mangiatrice d’uomini che passa da un letto all’altro in cerca di carnazza senza impegno; Miranda, avvocato, complessata, freddissima e urticante. Intorno a loro ruotano diversi uomini: Mr. Big è lo sfuggente ma affascinante uomo d’affari con cui Carrie tenta di avere una love story e Skipper è il giovane romantico senza arte né parte innamorato di Miranda. Ma non solo: artisti, scrittori, modelli, stilisti, professionisti di una New York di vernissage, di sfilate, di party, di ristoranti esclusivi e mostre d’arte. Scordatevi insomma realismo metropolitano e barboni. Qui c’è solo la faccia sorridente del Capitale, come se tutti fossero invitati al banchetto. Dal Metropolitan al Central Park, dall’East Side alla Lower Manhattan: il bel mondo, insomma, con coppie affiatate e coppie scoppiate, single impenitenti e donne ansiose di essere portate all’altare, gay repressi e gay felici. L’universo della sessualità nel regno della promiscuità assoluta, senza moralismi né censure, visto in un’ottica femminile, vivace e intelligente, parlando liberamente di amicizia, amore, potere, bellezza e ruoli, ma anche di sesso anale e orale, vibratori, cazzetti minuscoli, orge e acrobazie ginniche, sempre con ironia e mai cattivo gusto. Il telefilm — dodici episodi da 24 minuti prodotti e trasmessi da HBO in USA, da La7 in Italia — è scritto effettivamente da dio, recitato benissimo e non conosce mai cadute di tono o ritmo. Per cui se non avete remore ideologiche, fate venire anche voi fuori il vostro lato glitter e fantasticate col Cacace che sogna di mettersi delle Manolo Blahnik tacco dodici. Sex and the City è televisione che trascolora nel cinema, è commedia con un senso, è evasione intelligente. Ed è adorabile. (Dvd; 23/6, 2, 3 e 7/7/03)

Qui le altre puntate di Divine Divane Visioni

(Continua — 36)