di Dziga Cacace

Damo soddisfazzione ar popolo!
Franco Citti in
Accattone

DDV3501.jpg382 — L’estorsione emotiva di E.T. The Extra-Terrestrial di Steven Spielberg, USA 1982

E questo mi mancava da più di vent’anni, da quando lo vidi con la nonna e mia sorella Francesca in prima visione. Era il classico film che dovevi vedere e che tutti commentavano, e in seconda media rimanere fuori dal giro era tremendo. Hai voglia a vantarti di 1997: fuga da New York o di Atmosfera Zero — che nessuno sapeva cosa fossero — se poi non padroneggi Saranno Famosi. Per dire: io non ho ancora visto Pierre Cosso ne Il tempo delle mele 2 e tuttora ne soffro: ero fermo alle limonate nel primo episodio e mi mancavano le trombate del secondo: troppo bambino! Fatto sta che E.T. non lo vedo da allora e il ricordo struggente aveva lasciato nel frattempo spazio a insofferenza, qualunque cosa Spielberg facesse. Snobismo o ragion veduta? Boh, anche perché ogni volta che poi ho rivisto uno dei suoi vecchi classici ne son rimasto ammirato. Si chiama rincoglionimento, lo so. E.T. è un film dalla parte dei bambini (dall’altezza dei bambini) dove il sogno di un amico alieno si fa realtà e dove la fiaba si innesta su uno scenario assolutamente iperreale. California, inizio anni Ottanta, in una delle tante famiglie con genitori separati, tre fratelli vivono con la madre. Elliott ha dieci anni e una notte capisce che “qualcosa” è arrivato vicino a casa. Un goffo bitorzoluto alieno che sembra il figlio di Gandhi e una tartaruga. Asmatico e ansioso, E.T. vuole tornare a casa e ci riuscirà dopo la fuga dagli adulti (per quanto animati da buone intenzioni, dopo la tensione antagonistica che sottolinea tutto lo svolgimento del film). Lineare, intenso, ricco di idee (Elliott senza padre, che ne cerca uno e a suo volta lo diventa) e girato e scritto benissimo, E.T. regge le ingiurie del tempo ed è un inno alla tolleranza, alla curiosità e anche al diritto al sogno e alla sua difesa, pure tra cenni animalistici e antinucleari (la maglietta di No Nukes!). Tutto poi pucciato nella melassa e ben glassato, okay, ma se c’era un tranello ricattatorio (e c’è, altroché) ci son cascato a piedi uniti e adesso non posso tirarmela da cuore duro. Del resto, alcune sere fa — mentre cenavamo — ho messo su un Cd dedicato ai cantautori genovesi. E a un certo punto Lauzi canta Ma se ghe pensu e Barbara mi vede che mi porto le mani alla gola e chiudo gli occhi e pensa che mi stia strozzando col polletto al forno. E invece era il maledetto stranguglione da saudade. Questo per farvi capire a che livello sia la mia vulnerabilità sentimentale in questo momento.


Ma tornando a quel sadico di Spielberg: attori clamorosi (soprattutto Henry Thomas e Drew Barrymore, vista anche l’età), musica roboante e fotografia azzeccata. Mi ha coinvolto oggi come allora e: o il film è veramente una prova universale o io sono regredito ai miei dodici anni. La verità starà nel mezzo, il che significa che ho 22 anni e il mondo è ancora ai miei piedi di rocker. Visto in originale col Dvd che m’ha regalato a Natale Alessia Marcuzzi. E non so se mi spiego. (Dvd; 25/5/03)

DDV3502.jpg383 — Deep Purple Machine Head di un grande Ignoto, Gran Bretagna 2002 e Les Mistons di un piccolo Truffaut

Breve rewind: estate 1986, l’amico Andrea Cirigioni mi regala un nastro con l’incisione di Made In Japan dei Deep Purple, unanimemente ritenuto uno dei migliori live di tutti i tempi. Per me — in periodo springsteeniano e distratto giusto da Prince, Santana e Pink Floyd — l’esperienza è quanto più di vicino al metal mi sia mai capitato. Chitarre allo spasimo, voce che raggiunge iperacuti udibili solo dai cani, basso e batteria terremotanti e di contorno uno hammond che svisa ubriaco. La passione cresce subito a livelli maniacali, portandomi ad acquisti compulsivi di bootleg e pure alla realizzazione di un jeans sulla cui gamba destra campeggiava l’elegantissimo scrittone a fiammeggianti caratteri cubitali DEEP PURPLE. Nel 1993 vedo finalmente il quintetto, a Milano, in una serata aperta dai Rats (chi ricorda Indiani padani? Ah ah, zarri e grandissimi!). Comunque concerto buono ma con evidenti problemi relazionali sul palco. Io rimarrò per qualche giorno senza udito dall’orecchio destro e Blackmore scazzerà presto in pubblico con la band: i Deep Purple proseguiranno con un altro guitar hero, Joe Satriani, per poi accaparrarsi il meglio della piazza, Steve Morse. Non è più la stessa cosa, ovvio, ma non lo era comunque, vent’anni dopo l’apice artistico. Nel 1999 all’Idroscalo di Milano, tra nugole di zanzare voraci e headbangers scatenati, godo della nuova formazione che rivedo anche nell’inverno 2000, accompagnata da un’orchestra sinfonica rumena, al Palasport di Assago. Dopo il concerto, con l’amico Max riesco non so come a infilarmi nel retropalco, tentando un improbabile approccio alla band che si risolve solo in un imbarazzante confronto con Steve Morse, appunto, beccato in un oscuro sottoscala mentre sta seducendo una violoncellista transilvana. Momento di silenzio, poi io sfodero la destra, scuoto la sua ed esclamo: “Great performance, Steve!”. Lui, ammutolito. Io inarrestabile: “You play great guitar… and goodnight!”. E lo molliamo lì. Bene, fine dell’introduzione: è in virtù di questo amore musicale fortissimo che mi concedo un documentario paratelevisivo che purtroppo sulla tivù generalista non potrà mai trovare posto. Perché è troppo bello: è accuratissimo, intelligente e approfondito. E i Deep Purple oggi interessano solo qualche centinaia di migliaia di persone, ma sparse per il mondo, non davanti alla tivù. Questo Machine Head (di Matthew Longfellow, boh) è dedicato al loro fantastico settimo album. Giusto per chiarire: il gruppo nasce nel 1967 e per due anni fa pop-rock con virate psichedeliche hard e hendrixiane. Azzeccata una hit clamorosa in USA (Hush), non sfonda però in madre patria. E allora vengono fatti fuori l’insipido cantante e il bassista. Entrano nel gruppo (a fianco del tastierista Lord, del batterista Paice e del chitarrista Blackmore — tutti virtuosi intelligenti dei loro strumenti) il cantante Ian Gillan e il bassista Roger Glover. Talentuoso il primo, semplice e affidabilissimo il secondo, tanto da diventare presto l’anima (produttiva) della band. La formazione è conosciuta come Mark II, quella storica, prima di liti epocali, licenziamenti, abbandoni, carognate, recuperi e reunion. Dopo l’eccezionale Concerto con la London Symphony Orchestra (di cui si sentono ampi brani ne La maman et la putain) i Deep calano l’asso con In Rock che, assieme a Led Zeppelin II e Paranoid dei Black Sabbath, forma la sacra trinità dell’hard rock, i testi su cui tutti hanno studiato da allora in poi. Nel 1971 esce Fireball, album per conto mio splendido perché ricco di invenzioni (dal country alla psichedelia al funk), ma accolto tiepidamente dalla critica e dal pubblico. Viene quindi il momento dell’album definitivo, quello del grande successo commerciale, a suggellare la clamorosa alchimia musicale che, ormai, dopo tre anni di lavoro, è all’apice. I Deep Purple vanno a registrare a Montreux e lì accade il fattaccio raccontato per filo e per segno in Smoke On the Water: il Casinò dove i nostri avrebbero dovuto lavorare va a fuoco durante un concerto di Frank Zappa e delle sue Mothers Of Inventions. Che fare? Finiranno nel gelido Grand Hotel chiuso per l’inverno e, tra le difficoltà più evidenti, tireranno fuori il capolavoro. La storia dell’album viene raccontata dai membri del gruppo, dall’ingegnere del suono Martin Birch (nonché produttore assieme a Glover) e dai giornalisti Charlesworth, Tolinsky e Welch (per voi, illustri sconosciuti: io li leggo abitualmente, poffarre). Ogni brano (con la inspiegabile omissione di Lazy, un boogie siderale che farebbe ballare anche Giovanardi) viene analizzato nel dettaglio, ascoltando le piste separate e facendo un sacco di scoperte. A contorno immagini live dell’epoca (una clip di Never Before MAI in sync e le parziali riprese televisive di un concerto americano) e un bell’apparato fotografico (le classiche immagini del fotografo Didi Zill. Chi? Bravissimo, vi assicuro). Blackmore oggi sta passando un periodo musicale medievaleggiante e risponde compassato in una specie di cella segreta, col cappello da folletto appoggiato al pesantissimo tavolo stile Re Artù. Glover e Birch sono davanti al mixer a rivelarci i segreti delle piste radiofoniche. Lord siede al suo hammond e dimostra sulla tastiera ciò che dice. Gillan e Paice sono i meno loquaci, ma regalano qualche momento surreale (come quando Paice ammazza all’improvviso una zanzara). Le riprese sono ottime (cura degli sfondi, delle luci, dell’inquadratura) e il discorso è concatenato perfettamente con un montaggio serrato che mescola i diversi interventi. Insomma: anche se non conoscete niente dei Deep Purple, potreste innamorarvi pure voi di questi magnifici musicisti, umili, simpatici, geniali, creativi, senza alcuna menata (il contrario dell’irraggiungibile Jimmy Page, tanto per dire). I classici compagnoni da bevuta che ancora oggi (fuorché Blackmore, posseduto da un menestrello) girano per il mondo con il loro rock senza tempo. Nel pomeriggio ho visto anche Les Mistons, il primo Truffaut tratto da un racconto di Maurice Pons. I monelli di Arles sono tutti innamorati della bella Bernadette (la Lafonte, acerba e splendida), ma non potendola avere ne ostacolano l’amore con Gérard (Blain). Ma presto l’estate finirà e Gérard andrà via promettendo di tornare. Morirà in un incidente: per i bambini è la fine dell’infanzia, per Bernadette dell’adolescenza. Intimo, erotico (il rallenti col ragazzino che annusa il sellino della bici di Bernadette), intriso di omaggi (a Vigo, ai Lumière), ludico (le velocizzazioni, la scena girata al contrario), Les Mistons è un esordio solare, con la serenità tipica di Truffaut anche quando parla di temi altissimi come l’amore e la morte. C’è già l’innocenza (perduta) dell’infanzia e lo sguardo tenero che la caratterizza. Bello. (Dvd; 26/5/03)

DDV3503.jpg384 — Nove regine del sopravvalutato (ma forse no) Fábián Bielinsky, Argentina 2002 e, velocemente assai, i pacchi La città nuda e La regina della notte

Buenos Aires: Juan e Marcos sono due delinquentelli che si arrangiano con truffe da ladri di polli. S’incontrano, si piacciono (seppur con la diffidenza tipica del mestiere) e decidono di essere complici per un giorno in cui, ovviamente, si presenta il colpo della vita: piazzare nove rarissimi francobolli a un collezionista spagnolo. Il film si fa vedere gradevolmente, ma è subito chiaro dove si andrà a parare e chi fregherà chi e come. E in sovrappiù: nessuna delle beffe è particolarmente geniale, il complotto non è astruso bensì molto semplice, il motore (nove francobolli della repubblica di Weimar dedicati a una regina?) è immediatamente non credibile. E tra l’altro anche l’incontro tra i due furfanti e la successiva alleanza fanno a botte con lo sviluppo posteriore. Chi ha osannato il film ha tirato fuori il nume tutelare di David Mamet, ma Bielinsky di Mamet ha il difetto della verbosità qui poco sorretta dal dialogo. La cosa che rende interessante il film è il senso di precarietà della società argentina, il doversi arrangiare a tutti i costi (e il film è precedente la crisi economica). E poi c’è una battuta formidabile nel prefinale, quando un complice di Marcos si tradisce e a sua discolpa dice che ha avuto poco tempo per preparare la parte. Nove regine ha vinto un sacco di premi nei festival minori, festival dove pubblico e giuria sono formati da critici frustrati e da vecchi rompicoglioni come me, acritici appassionati marci del grande schermo, gente senza più alcuna capacità valutativa. Tant’è che questo film sembrava dover essere un capolavoro e non lo è. Però, mettiamola così: è politicamente giusto apprezzare una volta tanto un discreto film bairense piuttosto che una boiata hollywoodiana, dai. E comunque ero di cattivo umore: film visto con quadro tagliato su ogni lato e protagonisti con piedi e teste mozzati. Viva il cinema in sala, eccheccazzo…. sennonché è calata su Milano un caldo equatoriale e non ci resta altro da fare. Il 29 maggio ho inoltre delibato – sudando – la partenza e la chiusura del famoso La città nuda di Jules Dassin (USA, 1948). A tre minuti dall’inizio dormivo già, cullato da una voce narrante suadente e retorica che m’illustrava — pensate un po’ — le qualità del film, girato nella New York reale! Urca, cosa non sanno inventarti ‘sti americani: ho capito che mai ce l’avrei fatta a reggere e ho dormicchiato un po’. Poi, ripresomi, sono andato direttamente al finale (perché si tratta di una crime story), per vedermi la storica sfida su uno dei ponti di New York, con volo nel vuoto del cattivo di turno. Una menata. (Sì, lo so, dovrei vedere il film per intero e così non ha senso. Ma cos’ha senso? Ma nella vita proprio?). Il 31 maggio invece mi son scoppiato con l’avanzamento veloce — sempre santo — La regina della notte di Walerian Borowzcyk (Francia 1987), in una copia atroce (a tutto schermo, riversata col culo per conto de L’Espresso: se divento dittatore del mondo li passo tutti a fil di spada, quelli). È una pretestuosa vicenda di eros e thanatos con Marina Pierro fatale prostituta che il protagonista, un dandy maturo e sofferto, incontra in metropolitana. Amore folle e finale beffardo, sostenuto da dialoghi poeticizzanti ridicoli e pallosi oltre ogni dire. Insomma: una stronzata patinata, il classico film erotico che ti fa venire il membro interno, con l’altrimenti fantasmagorico Borowczyk in clamoroso debito di cervello. (Cinema Eliseo, Milano; 1/6/03)

ddv3504.jpg385 — Il caleidoscopico City of God di Fernando Meirelles, Brasile 2002 e Fuksas in full flight

Vent’anni di amicizie, tradimenti, vendette nella Città di Dio, un quartiere popolare che evolve dalla piccola criminalità e dal disegno razionale degli anni Sessanta, fino all’ammasso fatiscente ed entropico di favelas preda della droga alla fine degli anni Settanta. Violento, cinico, ritmatissimo, colorato, sensuale, amaro: Buscapè è il protagonista ma anche il nostro testimone oculare. Fotografa la realtà e ce la racconta (e la falsifica: sui giornali viene pubblicata solo la storia addomesticata, non quella veramente dirompente). L’affresco è potente e ogni personaggio vale nell’economia del racconto: prima o poi torna a galla, per uccidere o essere ucciso. Il contesto storico è invece sfuggente, suggerito solo dalla musica: il Brasile è quello del regime militare, ma la politica non sembra toccare la vita dei protagonisti. Perlomeno così ritengono i protagonisti stessi, perché la Città di Dio e la sua caduta negli inferi sono esattamente il risultato che questa politica (e questo sistema) produce. Il film non è espressamente ideologico (cosa che ha fatto imbestialire più di un critico stalinista e capoccione) e non ha tesi esplicite: City of God è pura narrazione, agile, intensa, sensoriale. E non è un film lezioso come alcuni sostengono (anche se il linguaggio è molto moderno). Violento sí, ma anche dolcissimo e amaro; comunque mai conciliante, popolato di facce e corpi straordinari, in un universo coloratissimo e vitale, spietato, vibrante, musicale, drogato. Soprattutto epico: passeranno anni prima che dimentichi le storie di Manà Galinha, del delinquentello hippie Bené o del sanguinario Zé Pequeno. Bellissima musica, fotografia sporca e inventiva, montaggio agile. Ah, e poi c’è Angelica (Alice Braga, nipote di Sonia), mulatta da infarto a cui va il mio compiaciuto plauso critico: potrebbe anche interpretare un comò e sarebbe da Oscar comunque. Zanzare in sala, poltrone rigide, quadro aberrato e tagliato sia lateralmente (per mascherare l’aberrazione) che in basso. Una merda di proiezione e ben mi sta. Ma siccome non son mai pago, qualche giorno dopo leggo avidamente l’intervista agiografica che “Specchio”, il magazine della Stampa, dedica a Massimiliano Fuksas. L’architetto tronfio si fa ritrarre da Guido Harari come una vera rockstar e dichiara orgoglioso di essere un personaggio pubblico capace di andare in tivù a portare un po’ di bellezza. E qui intervengo io, il vostro vendicatore. Perché io l’ho visto ospite di Massimo Giletti, mica cazzi. E da Giletti Fuksas ha fatto plurime figure di merda. Lo hanno ridotto a rappresentare la categoria discutendo di scale ripide, di marciapiedi alti e di mancanza di parcheggi con la generica (per quanto imbestialita) signora Pina di Voghera. Una specie di massacro, con l’archistar che balbettava di fronte a casalinghe velenose. Ma non finiva qui. Fuksas veniva accusato anche per le barriere architettoniche dell’Auditorium di Roma, di Renzo Piano. E la difesa era difficile perché l’accusa la portava un critico d’arte paraplegico, giuro. Infine, il colpo da maestro, ma di Giletti, con la domanda: perché voi architetti non pensate mai ai ciechi? E a supporto entrava Aleandro Baldi — misconosciuto cantante sanremese non vedente. Fuksas, frastornato e con l’occhio del bovino intento nella ruminazione, non sapeva più come reagire e probabilmente immaginava raffinate tecniche di tortura per il suo ufficio stampa. Da allora non ho più visto Fuksas in tivù. Purtroppo. (Cinema Eliseo, Milano; 2/6/03)

DDV3505.JPG386 — Ancora Fame chimica di Antonio Bocola e Paolo Vari, Italia/Svizzera 2003 e ancora un caldo fottuto

Screening privato del film di Paolo e Antonio cui ho collaborato alla scrittura (vedi qui). È la mia terza visione da quando è cominciato il montaggio, ma questa dovrebbe essere una copia quasi definitiva. Dico “quasi” perché c’è ancora una settimana di montaggio a disposizione e questo è l’esame finale, per capire dove intervenire. Devo dire che all’ennesima visione ho sofferto più del previsto e all’improvviso ho letto solo i difetti del film. La trama m’è parsa all’improvviso debole: Fame chimica sembra una serie di bozzetti del disagio giovanile, alcuni eccezionali, altri poveri. Gli attori sono rigidi e, mancando tempo e denari, molte scene e dialoghi sono buttati via, con retorica, senza passione. A questo stadio la pellicola ha già subito interventi per migliorare e in effetti la prima parte (che all’inizio era farraginosa) ha guadagnato molto. La parte centrale è episodica e sfilacciata (pur possedendo una forza visiva mica male), il finale recupera. Non so se e come si potrà riverniciare il film, ma urge fare un tentativo perché ad adesso trascina i piedi come il suo regista. Boh; sono abbacchiato e probabilmente non è giusto. La verità starà nel mezzo, tra il mio iniziale entusiasmo e la delusione odierna. Copia telecinema in vhs videoproiettata, caldo e umidità tipo sala di Maracaibo. Troppa gente contenta: male. Di positivo l’incontro con i vecchi amici e un fugace saluto a Morandini. (Cinema Pandora, Milano; 12/06/03)

DDV3506.jpg387 — L’ostalgico Good Bye, Lenin! di Wolfgang Becker, Germania 2003

Siccome ieri sera avevamo in casa 31 gradi alle due di notte, decidiamo — prima di affrontare un’altra simile pena — di andarci a rinfrescare in un cinema e l’Eliseo ci offre questo film che ha avuto disparata accoglienza ma che mi incuriosisce molto, soffrendo anch’io di un’infantile forma di ostalgie. Berlino Est: Christiane, mamma di Alexander, ha un infarto e cade in coma. Quando si risveglia otto mesi dopo il mondo è cambiato radicalmente. È caduto il muro e sta avvenendo la riunificazione delle due Germanie. I medici consigliano di non provare i nervi della poveretta e allora Alexander organizza tutto in modo che alla madre sembri che il tempo non sia passato. La finzione durerà poco, ma abbastanza perché anche a livello familiare ci siano degli sconvolgimenti paragonabili a quelli epocali della Storia. Film intelligente che soffre un po’ nel primo tempo per l’indecisione sulla strada da prendere. Poi trova un suo equilibrio tra commedia e dramma e si conclude in maniera decisamente commovente. C’è qualche giovanilismo fuori luogo (le accelerazioni del primo tempo) e le musiche di Tiersen sembrano identiche a quelle di Amélie, ma il film è godibile e affronta da un’angolazione originale un momento di storia con cui ancora non si riesce a (e non si vuole) fare i conti. Per i tedeschi il film avrà un valore che noi non possiamo comprendere appieno (è stato un successone), ma è straniante constatare il cambiamento avvenuto in questi quindici anni. Era un mondo completamente diverso, nel quale si facevano i conti con un blocco orientale misterioso e lugubre. Nel film si sente il rimpianto per un comunismo dal volto umano tanto auspicato quanto irrealizzato e c’è la delusione per il capitalismo imperante. Tra utopia, realismo e buona volontà (molto teutonica) Good Bye, Lenin! riesce a essere equilibrato, senza proclami nostalgici o entusiasmi patriottardi: dà il senso dello spaesamento di una nazione improvvisamente riunita, impossibilitata a razionalizzare ciò che la Storia ha fatto accadere così velocemente dopo anni di rassegnazione e immobilismo: quel monumento di Lenin che vola via sui tetti della città è il risveglio alla dura realtà e la rimozione dell’ideale. Come spiegheremo ai nostri nipoti il mondo prima del 1990? Come gli racconterò della FGCI, dell’associazione Italia-Russia, del Linus militante, del mito di Cuba, della zafra volontaria e della voglia di Gorbaciov che ha cambiato le nostre vite? Mio padre — poveretto — votava socialista, credendoci in funzione antidemocristiana. Io facevo terrorismo in casa con estenuanti liti e pratiche di lotta eterodosse: mi procuravo delle foto di Craxi, nottetempo le mettevo nel water e poi ci cagavo sopra. Il mattino dopo attendevo di nascosto mio padre (è un regolarista, lui, e ogni mattina non sgarra) ed era uno spasso sentirne il disgusto e l’offesa. L’unico che pensa che non sia cambiato nulla da quegli splendidi anni è il nanetto al governo che è stato definito giusto ieri un “pagliaccio fascista” da Fidel Castro, un compagno che sbaglia — ma neanche troppo – e che spesso centra la verità con lucida precisione. Tornando al film: proiezione ad opera di un mentecatto. (Cinema Eliseo, Milano; 13/6/03)

DDV3507.jpg388 — L’abbioccante Grateful Dawg di Gillian Grisman, USA 2002

Tele+ regala questo documentario da collezionisti dedicato alla collaborazione tra Jerry Garcia e David Grisman, i cui nomi — povere stellasse — non vi diranno assolutamente nulla. Provvedo. Jerry Garcia è stato per trent’anni, fino alla morte nel 1995, il leader spirituale dei Grateful Dead. Dico spirituale perché se c’era una cosa che i Dead predicavano e attuavano era il rifiuto di qualunque tipo d’autorità: nella creazione artistica, nel rapporto coi fan, nell’ambito del mondo musicale americano. Era il chitarrista di una band che partendo dalla psichedelia e dal rhythm and blues è approdata alla musica totale, dove tutte le radici della musica americana confluivano in una miscela esplosiva, specialmente dal vivo. Personalmente amo gli erratici album fino all’alba dei Settanta, poi mi annoiano. Ma poco importa. David Grisman, mandolinista, è stato invece il promotore della “dawg” music, una sintesi di tutti i generi folk statunitensi, mescolando jazz, country e bluegrass nelle diverse edizioni del David Grisman Quartet (e Quintet e anche Sextet, talvolta). Musica acustica con fughe solistiche niente male. I due, Garcia e Grisman, erano molto amici e nel folclore musicale americano trovavano il punto di contatto. Negli anni hanno suonato spesso assieme, amichevolmente, ma è nei Novanta che hanno inciso e lavorato con più continuità e questo documentario racconta proprio gli esiti di questa collaborazione. Di quello che v’ho detto io dei protagonisti, Grateful Dawg non vi dice niente, per cui si presenta come un film espressamente per gli appassionati. Le varie testimonianze rendono conto del diverso atteggiamento musicale e professionale dei due (più elastico Garcia, più rigido Grisman) e c’è tanta musica ripresa dal vivo. La qualità delle immagini è scarsa, sia negli home-video che documentano le prove e le jam casalinghe, sia nei nastri quasi amatoriali (camera fissa) di un concerto al Warfield Theatre di San Francisco. E devo dire che la musica dei due assieme (canti marinari, ninne nanne per bambini, bluegrass spinto, ergo sminuzzamenti di balle infinite) non vale per nulla quella dei due separati. Le cose migliori si hanno quando c’è uno sforzo compositivo e non ci si appoggia a materiale tradizionale. Registicamente bruttine anche le interviste. Realizzato con pochi soldi, Grateful Dawg è un evidente omaggio familiare (è diretto dalla figlia di Grisman) per la gioia di qualche fanatico. Non sono tra quelli. (Vhs da Tele+; 13/6/03)

Qui le altre puntate di Divine Divane Visioni

(Continua — 35)