di Romina Vinci

Haitimaiali.JPGEntrare ad Haiti per un europeo non è semplice, e non tanto a livello fisico, perché basta cambiare tre aerei, fare più di una giornata di viaggio, e si arriva a Port au Prince. Quanto a livello mentale. Perché entra in atto un incessante lavoro di scardinamento dei propri valori. Non esiste l’idea della famiglia qui, non il concetto di nudità, di igiene, neppure la necessità di mangiare. Tante cose non esistono, o meglio, si va avanti anche senza. Quel che si percepisce è la mancanza di prospettive, le nulle aspettative di vita. In una parola sola: si tocca con mano la povertà. Comprendere la realtà di Haiti non è facile, difficile convincersi che esista una possibilità di riscatto per questa popolazione. C’è dolore, c’è sofferenza, c’è quella vita così difficile da affrontare. Occhi negli occhi, i miei nei loro, occhi che pongono domande, occhi che non sanno dare risposte. E poi il ruolo cambia, ma gli interrogativi permangono. Le mani si toccano, bianco e nero si incrociano, si stringono nell’unione da cui dovrebbe arrivare ogni risposta, ma un’unione che probabilmente genera solo sottomissione. Perché bianco è sopra nero, e nero è sotto bianco.

WHARF JEREMIE
Pian piano la realtà haitiana comincia a definirsi davanti ai miei occhi, ed oggi ho ricevuto una grande lezione di vita da Suor Marcella, una missionaria italiana che da sette anni opera in uno dei posti più disperati di Port au Prince, Wharf Jeremie. Raggiungere il suo Vilaj Italyen non è stato semplice. Al Saint Damien mi è stato affidato un driver fidato che, al prezzo di quindici dollari, aveva il compito di condurmi a destinazione. Non è stata esattamente una passeggiata però, perché lui non conosceva il posto preciso e si fermava di tanto in tanto a chiedere informazioni. Ed ogni volta che si fermava a chiedere informazioni io temevo di essere aggredita. Alla fine riusciamo a raggiungere il WAF, lo riconosco perché il movimento aumenta a dismisura, la strada si fa più stretta e la gente che mercanteggia a bordo delle strade diminuisce ancor più il tratto percorribile.

Mettici poi le persone con le loro carriole colme di sacchi, così pesanti da trascinare. Li vedo sbilanciarsi, soprattutto a causa dei solchi scavati sul manto stradale, che fanno svanire anche quel poco equilibrio conquistato a fatica. Uno di loro cade ed una marea di banane si riversano a terra. Percepisco una forte tensione, il frastuono è totale, i taptap nel tentativo di cambiare senso di marcia sbarrano il percorso. Chiediamo indicazioni ad una donna e ci dice di tornare indietro, indicandoci una sorta di molo, al di là di una collina di rifiuti. Per arrivarci entriamo dentro il lago di spazzatura, lo superiamo e raggiungiamo il molo. Il driver vuole lasciarmi lì, ma io mi oppongo, solo dopo aver visto suor Marcella l’avrei lasciato.

Chiede ad una ragazza se conosce “Sister Marcella”, e lei ci spiega che si trova da tutt’altra parte, ci hanno indirizzato male. E così riscendi la collinetta, riattraversa la pozza, rimmergiti nel frastuono del traffico paralizzato, percorrilo per un tempo infinitamente lungo in cui pensi soltanto “Vabbè, finirà prima o poi”, ed ecco che finalmente mi compare davanti una struttura nuova e colorata con su scritto Clinic Italyen. Io e lui ci guardiamo sorridenti: missione compiuta. Entro chiedendo di Suor Marcella, ci sono degli uomini locali che mi indicano la strada del suo studio. La porta è aperta, lei è lì, in riunione, parla con due signori con gli occhi a mandorla. Ci siamo lanciate uno sguardo di intesa, lei non si è scomposta affatto, io mi sono messa fuori ad aspettare.

Esce dopo una decina di minuti scarsi, nel frattempo altre due persone si erano sedute accanto a me ad aspettarla. Lei prima si intrattiene con loro, parlando di ecole, scuola. Quando sono andati via finalmente ci presentiamo. Alcune frasi di circostanza e poi lei mi lascia nelle mani di Valentina, una volontaria che viene da Milano, e che resterà per un anno al Vilaj Italyen. Valentina mi fa fare il giro del quartiere e lo scenario non mi è affatto nuovo. Perché ci troviamo praticamente nella parte finale di Cité Soleil, lungo la strada che conduce alla discarica. Per il governo non esiste, perché sulla carta non risulta abitato.

Non ci sono scuole, non c’è sanità, non c’è luce, non ci sono servizi. Eppure è popolato da settantamila persone. Wharf Jeremie (ribattezzato da tutti WAF) è insomma uno slum fantasma. Suor Marcella ha costruito qui una clinica con cinque reparti, una scuola di strada ed ora ha in programma una chiesa e una casa d’accoglienza. La baraccopoli è a pochi metri di distanza, sterminata come sempre, solo che l’ultimo pezzo è stato rimpiazzato da cento casette verdi, gialle e rosse, che suor Marcella è riuscita a costruire con l’aiuto delle donazioni dall’Italia. Valentina mi indica l’orizzonte e mi fa vedere un’isoletta: da lì son partite molte persone in cerca di fortuna, ma per la maggior parte di loro la scoperta di Port au Prince non si è rivelata un eldorado, ed ecco che si son ritrovati a morire di fame al WAF. Mentre passeggiamo a ridosso delle nuove casette, due ragazzi in moto iniziano a girarci intorno. All’inizio il loro perimetro ha un ampio raggio, e quasi non li percepisco. Ma poi iniziano a restringere il cerchio.

Chiedo a Valentina se li conosca, lei scuote il capo, e mi fa capire che è meglio non avventurarci oltre. Facciamo dietrofront, affrettiamo il passo e torniamo alla clinica. Mi offre una coca cola e mi racconta la storia di Lucien.
Lucien aveva 37 anni e viveva al WAF. E’ stato ritrovato la sera del 14 agosto scorso, morto ammazzato a pochi metri da casa. La sua vita spezzata da diciassette colpi di pistola. Lucien era il braccio destro di Suor Marcella. Insieme, Lucien e Suor Marcella, avevano dato vita a Vilaj Italyen, che in creolo significa Villaggio Italia, una piccola oasi con una clinica, una scuola di strada e centinaia di casette colorate a rimpiazzare baracche fatte di pezzi di lamiera.

Quando suor Marcella è arrivata sul posto quella sera, un paio di ore dopo il fatto, il corpo di Lucien giaceva a terra. Gli erano già state rubate le scarpe, il portafogli, il cellulare. Era stato spogliato persino della camicia. L’indomani, di buon mattino, cinque donne sono andate a bussare alla clinica: sostenevano di essere mogli di Lucien, e chiedevano alla missionaria soldi per farsi mantenere. Nel primo pomeriggio ne sono arrivate altre tre, con un bel pancione in vista: tutte — a loro dire — erano state messe incinta da Lucien, ed ora reclamavano cassa.

E’ labile il confine tra vita e morte, ad Haiti. Si viene alla luce per sbaglio, da ragazze troppo impegnate a sopravvivere per fare le mamme. E basta un secchio d’acqua conteso per mettere fine ad un’esistenza.

LE VERITA’ DI SUOR MARCELLA
Trascorro tutta la mattinata in compagnia di Valentina, intorno all’ora di pranzo Suor Marcella si offre di accompagnarmi al Saint Damien con il suo pickup e durante il tragitto ne approfittiamo per fare l’intervista. E’ una chiacchierata lunga, per me molto istruttiva. Pongo domande specifiche, scavo, vado a fondo, e Suor Marcella ha una risposta a tutto. Mi fa riflettere sul fatto che il problema dei rifiuti ad Haiti in realtà è stato innescato dalla cultura occidentale e dal nostro modo di prestare aiuto. Perché abbiamo importato quella cultura dell’usa e getta figlia della globalizzazione, senza istruirli però su come raccogliere e smaltire i rifiuti.

E così loro continuano a comportarsi come han sempre fatto con la buccia di banana, vale a dire gettandola a terra. Soltanto che la buccia di banana si decompone, il bicchiere di plastica invece rimane lì per migliaia di anni. Siamo stati noi a far bruciare le tappe a queste persone, ma loro ora ne pagano le conseguenze. Tocchiamo il tema della criminalità e del traffico di armi, e Suor Marcella mi fa riflettere sull’importanza che ricopre nello scacchiere geopolitico un buco nero al centro dei Caraibi, un pezzo di terra che si trova davanti a Cuba, vicino il Venezuela, e a cinquanta minuti di aereo da Miami. “Guai a pensare che gli haitiani comprino le armi – dice – perché ci sono nazioni intere che vogliono smaltire i propri armamenti. Esiste una volontà mondiale a cui fa comodo che Haiti versi in queste condizioni. I bambini di Haiti neanche si son accorti che c’è stato il terremoto, perché con tutti i disastri che son abituati a sopportare non è stata certo una scossa più forte delle altre a lasciare il segno”. Secondo Suor Marcella invece di sviluppare progetti contro la mal nutrizione sarebbe più opportuno offrire un lavoro ai genitori di questi bambini. E infine mi conferma una voce a cui avrei preferito non dare adito: qui a Port au Prince esistono biscotti fatti con il fango, con cui i genitori sfamano i propri figli.

LO SLUM DAL DI DENTRO
Oggi è il mio ultimo giorno a Cité Soleil e ho voluto testare lo slum dal di dentro. Per farlo mi sono affidata a Richard, un ometto di vent’anni, canotta larga, jeans logorati e ciabatte rosa modello crocs. Lui si offre di accompagnarmi a vedere le baracche dall’interno, io acconsento. E’ brutto tempo, camminiamo sotto una pioggerellina leggera. Ieri c’è stato un piccolo uragano a Cuba e gli effetti si son fatti sentire fin qua. Per raggiungere le baracche dobbiamo attraversare uno stagno d’acqua e spazzatura, lo facciamo saltando su dei massi, prestando attenzione ai porci che, ai nostri lati, sono intenti a rosicchiare tutto ciò che galleggia. Iniziamo ad addentrarci nei cunicoli.

Pezzi di lamiera alla mia destra e alla mia sinistra, che fungono da muri delle “case”. Nel mezzo c’è spazio giusto per una persona, a volte ci si entra pelo pelo. Il terreno è tutto fango, è facile scivolare. Più mi addentro e più sento paura, però non smetto di scattare con la mia Canon, lo faccio in maniera spasmodica e senza criterio alcuno, spinta dalla sete di documentare.

Al termine di una strettoia mi compaiono due ragazzi a cui — accidentalmente — scatto una foto. Loro non la prendono affatto bene. Iniziano a sbraitare mentre si avvicinano. “Ecco, è fatta”, mi dico. Ma Richard gli risponde energicamente, c’è un piccolo battibecco ed io capisco solo due parole che fuoriescono dalla sua bocca: “No money”. Eppure devo ammettere che quei due ragazzi hanno ragione. Chi sono io per entrare nelle loro case, invadere le loro vite documentandole con una macchina fotografica? Con quale diritto faccio ciò?
Ad ogni scenario che si apre dinanzi ai nostri occhi Richard mi invita a scattare, ma ci tiene al fatto che lui non venga fotografato. Ricordo che anche Daphney, quando mi accompagnava per Delmas, non voleva assolutamente che le facessi foto. Il fatto è che loro mi aiutano a testimoniare il degrado in cui vivono, ma si vergognano di farsi vedere ridotti in queste condizioni.

Arriviamo all’estremità dell’insediamento , nel punto in cui la terra lascia spazio al mare, ed ecco di nuovo i maiali che si dissetano a riva. La vista di questi animali provoca in me un mix tra paura e ribrezzo, sono sconvolgenti soprattutto per la loro stazza. Ad un certo punto ho un incontro ravvicinato con uno dalle dimensioni enormi. Me lo trovo di fronte mentre mi aggiro nelle strettoie delle baracche. E’ abnorme, e dista da me meno di tre metri. Rimango ferma mentre lui continua ad avanzare con il suo fare altalenante. Richard mi si pone dinanzi, raccoglie a terra dei sassi e glieli scaglia contro con forza. Tirare sassi è un passatempo, è un gioco, è un modo per attaccare, è un’arma per difendersi.

Il maiale cambia direzione e pian piano scompare. Poco dopo ci viene incontro una bambina, sua figlia. Ha due anni e tiene in bocca un piccolo bastone, Richard non se ne preoccupa, e la lascia proseguire oltre. Lui vive con i suoi fratelli e non sa come dar da mangiare alla piccola, spesso fruga come gli altri nella spazzatura. Gli chiedo se porti con sé una pistola, lui scuote il capo deciso: “Non voglio uccidere le persone — risponde – voglio soltanto un lavoro”. “Haiti is bad, Haiti is bad”, è il suo ritornello, che pronuncia in continuazione. Io incalzo con le domande, ma i miei why ricevono pochi because.

PIU’ FORTE DEL VENTO
Tra i tanti tesori che mi porterò dentro di questo viaggio ci sono sicuramente le parole colme di fede di Padre Rick, con il quale ho avuto l’onore di trascorrere tanto tempo.

Seguirlo passo passo, osservarlo silenziosamente, a volte di nascosto, mi ha portato a cogliere il vero senso della sua missione. Un senso racchiuso negli occhi con cui lui guarda la sua gente, negli abbracci che non nega, nel tempo che continua a investire a Cité Soleil. La tenda in cui lui aveva creato la sua momentanea clinica al mio arrivo è stata spazzata via dal vento ieri notte, ma questo non gli ha impedito di continuare a visitare i suoi malati, passando direttamente nel cantiere della struttura in muratura che, tra qualche mese, ospiterà l’ospedale di primo livello.

Così questa mattina ci ha fatto caricare tutto l’occorrente sul furgoncino, ed ha adibito a studio una stanza ancora da pitturare. Niente lo ferma. Ha sistemato sei tavoli e delle sedie, ha inserito alcuni ragazzi del posto che lo aiutano a sistemare le medicine. Padre Rick mi ha spiegato che hanno tutti un passato da banditi, e lui li ha recuperati nel corso di questi anni togliendoli dalla strada.

Molti di loro hanno dei problemi con la polizia, “ma io non ci posso fare niente, sono un prete, non un poliziotto”, ha detto. Padre Rick è fiducioso per l’interesse che questi ragazzi hanno mostrato per la realizzazione di quest’ospedale, hanno accettato di prendersene cura gratuitamente, almeno per il primo periodo. “Nessuno nasce bandito, ma molti lo diventano, quando sentono di non avere altra scelta. Basta mostrargli una strada diversa, e loro tornano sulla retta via”.

A volte però, mi confida, alcuni di loro li ha fatti mettere in prigione, perché ci son dosi di violenza che non è possibile gestire. Ieri, mentre era in macchina al termine dell’ennesima giornata trascorsa alla Città del Sole, sei ragazzi gli hanno intimato di fermarsi. Usavano parole forti, lo hanno minacciato, erano affamati e reclamavano cibo. “Se volete spararmi fate pure — ha risposto lui con fermezza — perché io vado via, non sono abituato ad obbedire ai gesti di prepotenza”. Questa mattina poi ha ricevuto una telefonata, era un uomo che aveva assistito alla scena e portava le sue scuse al parroco a nome di tutta la comunità. Padre Rick è cosciente dei rischi che corre ogni giorno, sa che la sua vita non vale più delle altre, e tanto meno si considera al sicuro in virtù del suo operato. La sua vita è così, una guerra quotidiana contro la disperazione.

IN VOLO
Vado via da Haiti senza far rumore. Alle 5.30 del mattino quando salgo in macchina con il mio driver e tutto ancora dorme intorno a me. C’è Roseline a salutarmi, e ci sono Valeria ed Irene. Ho salutato Padre Rick la sera prima, gli altri no. Volutamente ho celato l’orario della mia partenza, lasciando tutti con un generico “Ci salutiamo domani” . Non mi son mai piaciuti gli arrivederci, figuriamoci gli addii. Il volo è puntuale, intorno alle 11.30 sono già a Miami. Il mio scalo dura oltre sei ore, ma passano via in un baleno, perché l’International Airport of Miami è denso di attrattive.

Con largo anticipo mi metto in fila per il check-in del mio secondo volo, direzione Londra. Prendo la boarding pass e mi accorgo che mi è stato assegnato un posto al corridoio. Torno indietro a reclamare, perché voglio stare al finestrino. L’hostess mi guarda un po’ perplessa, acconsente alla mia richiesta senza batter ciglio e cambia la prenotazione. Soltanto in volo mi accorgerò di quanto possa esser stata malsana la mia pretesa: a cosa serve il posto finestrino quando ti appresti a compiere un viaggio di nove ore attraversando l’oceano? Sei bloccato sul sedile e non puoi alzarti, e se guardi fuori non c’è altro che l’oscurità. Sono uno dei primi passeggeri a salire a bordo. Prendo posto ed attendo con pazienza che l’aereo pian piano si riempia.

Arrivano un signore ed un ragazzo, si siedono accanto a me. Hanno in mano un passaporto color bordeaux, sono italiani. “Finalmente potrò dialogare nella mia lingua”, penso tra me e me. Ma ancora una volta devo fare dietrofront. I due non proferiscono parola alcuna, ma si limitano ad usare gesti e movimenti del corpo per comunicare. Sono sordomuti. Ho passato tre settimane subendo tutti gli ostacoli generati dalla mancata condivisione di una lingua comune. Ora che il mio viaggio si appresta alla conclusione ecco che il destino mi pone dinanzi un nuovo scoglio: quello del linguaggio non verbale. Perché c’è sempre un ostacolo da superare, sempre. Sempre.
Con il passare dei mesi ripensando ed analizzando la mia esperienza ad Haiti ho imparato a guardarla come una grande lezione di vita. E resto convinta dell’idea che nulla accada per caso.

Puntate precedenti qui su Carmilla-Osservatorio America Latina o:
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