di Lorenza Ghinelli

PauloFreire.jpg Questi giorni ho sentito la necessità di riprendere in mano un libro che mi è stato caro, La pedagogia degli oppressi, di Paulo Freire; quest’uomo incredibile influenzò il pensiero di Augusto Boal (l’inventore del teatro dell’oppresso) e si dedicò totalmente all’attività di alfabetizzazione e di coscientizzazione in Cile. Sia Boal che Freire, militanti e rivoluzionari (ancor più rivoluzionari perché non violenti) subirono l’incarcerazione e furono esuli politici.
Tento, in modo estremo e quasi eretico, di sintetizzare al massimo la pedagogia di Freire e i motivi che mi spingono a trovarla di un’attualità disarmante. E disarmante, vedrete in seguito, è la parola giusta.
Il concetto di coscientizzazione che elaborò consisteva nel portare poveri e diseredati a prendere coscienza dei meccanismi che li tenevano al margine della vita sociale, passo fondamentale per spezzare il loro vincolo con gli oppressori. L’educazione era quindi per Freire una pratica di libertà che lo spinse a postulare una nuova pedagogia, la pedagogia degli oppressi, in cui solo attraverso un’autonoma conquista della parola l’oppresso assumeva coscienza della propria condizione storica. Si trattava di frantumare gli schemi cristallizzati della cultura di classe attraverso un processo di autoeducazione comunitaria, una critica della situazione presente e la ricerca di un superamento il cui cammino non venisse imposto, ma scoperto o creato dalla coscienza collettiva liberata. Freire problematizzava la cultura non certo per distruggerla, ma per farne scaturire, attraverso un processo maieutico, ogni sua possibilità repressa.


La coscientizzazione diventava quindi indispensabile per sperimentare una nuova visione del mondo destinata a criticare la situazione presente, cercandone un superamento. Freire era convinto che non si potesse coscientizzare un individuo isolato, ma un’intera comunità; la matrice del metodo, che era l’educazione intesa come un momento del processo globale di trasformazione rivoluzionaria della società, diventava dunque una sfida a qualunque situazione pre-rivoluzionaria. “La libertà, che è una conquista e non una elargizione, esige una ricerca permanente. Ricerca permanente che solo esiste nell’atto responsabile di colui che la realizza. Nessuno possiede la libertà come condizione per essere libero; al contrario, si lotta per la libertà perché non la si possiede[1].
Un’altra convinzione di Freire era che l’oppresso, liberando se stesso, liberasse anche l’oppressore; come se il primo oppressore di ogni oppresso fosse se stesso, una sorta di nemico interno. “Subiscono un dualismo che si installa nell’intimo del loro essere. Scoprono che, non essendo liberi, non arrivano ad essere autenticamente. Vorrebbero essere, ma hanno paura. Sono se stessi e ad un tempo sono l’altro, che si è introiettato in loro come coscienza oppressiva. La trama della loro lotta si delinea tra l’essere se stessi o l’essere duplici. Tra l’espellere o no l’oppressore che sta dentro di loro. Tra il superare l’alienazione o il rimanere alienati. Tra seguire prescrizioni o fare delle scelte. Tra essere spettatori o attori. Tra agire o avere l’illusione di agire, mentre sono gli oppressori che agiscono[2].
Cosa c’entra tutto questo coi No Tav, che troppi rappresentanti dello Stato si ostinano a chiamare anarco insurrezionalisti, black bloc etc.. etc…?
Be’, credo c’entri tantissimo.
Che la Tav sia uno scempio ambientale di portata epocale si sa. Lo sa soprattutto il governo. Ma quando si sanno le cose e si è a corto di argomentazioni (sapendo che in un dibattito aperto e democratico si sarebbe costretti ad ammettere l’inutilità della Tav, smantellare il cantiere e chiedere scusa), l’escalation della violenza sale. Della Tav, ma soprattutto e in maniera distorta dei No Tav, parlano tutti, ma i punti di vista da cui ci ostiniamo a guardare il problema sono troppo spesso gli stessi, e fissano lo stesso vicolo cieco.
Ho pensato e ripensato al video che, in forma parziale (una parziale informazione è più facilmente strumentalizzabile) ha fatto il giro del web, mi riferisco a quello che riprende il giovane Marco Bruno intento a dare della “pecorella” all’ancor più giovane poliziotto. E se nel 1968 Pasolini scrisse Il PCI ai giovani, una poesia in difesa dei poliziotti “[…]Peggio di tutto, naturalmente è lo stato psicologico cui sono ridotti (per una quarantina di mille lire al mese): senza più sorriso, senza più amicizia col mondo, separati, esclusi (in una esclusione che non ha uguali); umiliati dalla perdita della qualità di uomini per quella di poliziotti (l’essere odiati fa odiare). Hanno vent’anni, la vostra età, cari e care […]”, io non riesco in questo video a vedere in Marco Bruno un borghese figlio di papà. Il punto è che vedo in Marco Bruno, come nel poliziotto, due facce della medesima medaglia, una medaglia che ha uno scopo preciso, far tornare i conti ai potenti. I poliziotti, così come i No Tav, assumono su se stessi ruoli prestabiliti da altri. Senza divertimento alcuno e senza consapevolezza si gioca dentro schemi rigidi destinati a sfociare in violenza.
Io sono dalla parte dei No Tav perché credo fermamente che abbiano diritto a essere ascoltati e che tutte le loro domande meritino pertinenti risposte.
Se la parola giustizia deriva da justus, “giusto”, e questa da jus, diritto, ragione, è alla giustizia che si deve obbedienza, non a uno Stato ingiusto. Ed è giustizia infatti che chiedono i No Tav. Uno Stato ingiusto che pretende obbedienza dai suoi cittadini è, in realtà, uno stato tirannico che pretende docilità dai suoi sudditi. L’ideale, ovviamente, sarebbe il dialogo. Dialogo che i No Tav hanno chiesto fino allo sfinimento, arrivando addirittura a mettere i propri corpi davanti alle forze armate. Ma senza ascolto si sono visti togliere la loro dignità di cittadini, sono stati, e sono tutt’ora, trattati da sudditi indisciplinati, e come tali percossi nel tentativo di riportarli a un ordine che non li comprende, ma li disumanizza.
Perciò la liberazione è un parto. Un parto doloroso. L’uomo che nasce da questo parto è un uomo nuovo, che diviene tale attraverso il superamento della contraddizione oppressori-oppressi, che è poi l’umanizzazione di tutti[3].
Senza questo superamento la speranza muore, ed è la frustrazione di non vedersi riconosciuti i propri diritti costituzionali di libertà e parola a prendere il sopravvento, spingendo i manifestanti a provocare i poliziotti. Ed è sempre la frustrazione a spingere i poliziotti a caricarli in un gioco destinato a reiterarsi all’infinito e che ci imbruttisce tutti dandoci l’illusione, proprio come diceva Freire, di agire, mentre sono gli oppressori che agiscono. E gli oppressori, in questo gioco perverso, non sono né i No Tav né i poliziotti, che diventano invece le vittime sacrificali che il potere è ben felice di immolare a se stesso.
Oltre a consigliare caldamente la lettura de La pedagogia degli oppressi di Paulo Freire, che rivela la sua attualità in tutte le circostanze in cui le minoranze, qualsiasi esse siano, vengono brutalmente calpestate, sento la necessità di concludere proprio con le sue parole, perché riescono a sintetizzare al meglio quanto ho cercato di esporre fino a ora, e perché sono l’invito migliore che ho trovato per riflettere sulle etichette che con troppa facilità politici e politicanti facinorosi amano appiccicare a persone scomode. Scomode in quanto non docili, ma profondamente obbedienti al loro diritto di essere umane.

Come potrebbero gli oppressi dare inizio alla violenza, se loro stessi sono il risultato della violenza?
Non ci sarebbero oppressi , se non ci fosse un rapporto di violenza che li rende violentati, in una situazione oggettiva di oppressione. […]
Chi prende l’iniziativa della negazione degli uomini non sono coloro la cui umanità è stata negata, ma coloro che la negarono, negando anche la propria.
Chi apre il processo della violenza non sono coloro che sono divenuti deboli sotto la pressione del forte, ma i forti che li hanno indeboliti.
Gli oppressori però, nell’ipocrisia della loro ‘generosità’, accusano sempre gli oppressi di instaurare il disamore. È ovvio che non danno mai loro il nome di oppressi, ma secondo la situazione li chiamano ‘questa gente’ oppure ‘questa massa cieca e invidiosa’, o ‘selvaggi’, o ‘indigeni’, ‘barbari’, ‘malvagi’, quando reagiscono alla violenza degli oppressori. In verità però, il gesto dell’amore lo troviamo nella risposta degli oppressi alla violenza degli oppressori, anche se questa affermazione può sembrarci paradossale. L’atto di ribellione degli oppressi, coscientemente o incoscientemente, pur essendo sempre tanto violento quanto la violenza che lo genera, può veramente instaurare l’amore
[4].

NOTE:
1. Paulo Freire. La pedagogia degli oppressi. Milano, Bruno Mondadori Editore. 1971. p. 53
2. Ibid. p. 54
3. Ivi, p.54
4. Ibid. p. 62, 63