di Emanuele Manco
Adriano Barone, Zentropia, Agenzia X, Milano 2011, pp.128, € 9,50
Ci sono molti di modi di raccontare il nostro presente tumultuoso. Nessuna scelta è facile o difficile a priori. C’è chi si attiene alla cronaca degli eventi, scelta affatto semplice data la complessità di questo indecifrabile momento storico. Su Carmilla trovate spesso validi contributi in tal senso e non vi farò la mia analisi. C’è poi la genia dei narratori di storie, che però non vivono sulla Luna e non riescono, neanche volendolo, ad astrarsi dal momento storico. Sia che si narri di passato (penso al recente One Big Union di Valerio Evangelisti) che di presente e di futuro, come in Zentropia di Adriano Barone, narrare una storia diventa non solo un’occasione di intelligente intrattenimento, che sarebbe già uno scopo dignitoso vista la scarsa profondità di molta narrativa odierna, ma anche un momento di riflessione sul presente.
È appunto il caso di Zentropia, un romanzo che il suo autore definisce “distopico Zen” e che racconta l’Italia dopo una sanguinosa guerra civile. Non è il nostro incerto presente, ma un possibile futuro, che potrebbe anche non essere molto lontano o essersi in realtà già verificato, in uno dei multiversi possibili.
La vicenda, se di trama in termini tradizionali si può parlare, segue un gruppo di personaggi molto diversi tra loro. Fuggitivi da una realtà che non possono più vivere, scelgono i modi più disparati per allontanarsene: droghe, alterazioni fisiche e nuove concezioni del corpo o della sessualità sono solo alcune possibili scelte. Come quella di guardare avanti in modi differenti, ma anche quella di camminare all’indietro voltando le spalle a un futuro nel quale non si crede più.
Considerando che i protagonisti di questo romanzo sono tutti giovani, il quadro è agghiacciante.
Una scelta estrema è quella degli Asomatici, che si fanno tagliare gli arti e decidono di rimanere ancorati a un eterno presente, collegati a macchine per vivere, sospesi in una sorta di limbo molto simile al grembo materno.
Uno dei velleitari bersagli di un ancora più velleitario gruppo terroristico, la Terza Linea, è proprio l’Asomatismo, visto come fumo negli occhi per il distorto uso della tecnologia, come mezzo di fuga dalla realtà. La Terza Linea d’altra parte non sceglie i nomi delle sue cellule a caso. La criptica sigla KU09071976 coincide con quella di uno dei più efferati omicidi degli anni di piombo, quello del giudice Vittorio Occorsio.
Il guardarsi all’indietro di certa militanza è stigmatizzato dallo stesso romanzo, quando si afferma che “l’impegno” rivoluzionario dei membri del gruppo non sia altro che un’ennesima fuga, non la costruzione di un presente alternativo, bensì “la rievocazione di un’alternativa al presente passato, che non esisteva più dagli anni settanta”: c’è una velata critica alla militanza del mondo reale, imbrigliata ancora in linguaggi e stereotipi che hanno fatto il loro tempo. O meglio: a quando a un impegno nominale e a una teorizzazione, non seguono fatti concreti, azioni reali e costruttive.
Non che i personaggi non compiano le loro azioni, tutt’altro. Si agitano, si tormentano, “parlano a vuoto, fanno cose inutili e senza conseguenze, e poi….”
Ma il senso e la fine di questa frase devono essere oggetto della lettura, non posso e non voglio anticiparvi tutto: sappiate che il romanzo vi ingannerà sin dall’inizio.
Intanto perché la sua ridotta foliazione e la prosa apparentemente semplice fanno pensare a una esperienza di lettura breve e scorrevole.
Ora: non che il testo non scorra, ma non lasciatevelo passare come se fosse nulla. La sua densità è tale che anche i monosillabi non possono essere persi, come tasselli di un mosaico che altrimenti non riuscirebbe a essere completo, tanto il romanzo è pieno di scoppiettanti idee.
D’altra parte Barone è un autore versatile, da tenere d’occhio in ogni sua espressione. Ha pubblicato per Mondadori la raccolta di racconti Carni (e)strane(e) e per Asengard il romanzo Il ghigno di Arlecchino. È inoltre sceneggiatore di cortometraggi e fumetti, di cui l’ultimo, il graphic novel Bugs-Gli insetti dentro di me, è uscito proprio qualche settimana prima di questo romanzo.
Un elemento che non sfugge durante la lettura è che la geriatrica classe dirigente del nostro paese non c’è più. Forse sono tutti fuggiti all’estero, forse sono stati fucilati o si sono trasformati in Asomatici. Non ha molta importanza. Rimane il fatto che non si sa bene chi abbia il “potere”, ma chiunque sia ha in gestione uno stato inesistente, fuori dall’Europa e diventato solo un approdo di immigrazione clandestina. Un paese dove non esiste più una “parte giusta con cui schierarsi” e fuggendo dal quale si viene accolti a colpi di mitra. Dove non si sogna più e in cui non esistono Schengen, Unione Europea e Nato. Dove il concetto di default è superato dal semplice fatto che non c’è più un riferimento al quale livellarsi.
E quella che per molti è una utopia — la fuoriuscita dal gioco dell’economia — è per Barone una distopia: un mondo in cui il denaro ha perso sia la sua connotazione di valore universale che pragmatico.
Nella visione ormai ridotta alla mera tangibilità dei personaggi, il valore pratico del denaro non è più applicabile, semplicemente il concetto non funziona più. Pur tuttavia gli stessi personaggi che teorizzano questa inutilità, non riescono a trovare altro da fare che uccidere “per soldi”, perché non sanno cos’altro fare.
Anche se molti personaggi sembrano cercare una loro via, un modello sociale e aggregativo diverso, c’è chi teorizza – per esempio – che se gli esseri umani si trasformassero in insetti si raggiungerebbe l’uguaglianza sociale ed economica (rimando al già citato Bugs), o c’è chi ha alterato il suo corpo facendolo diventare una immensa zona erogena.
Intanto, in assenza di carne fresca dato il clima di recessione economica, gli italiani del romanzo mangiano insetti e usano il sesso come mezzo di aggregazione e sottomissione, ma la somma di spinte centrifughe, di tante individualità tendenti verso direzioni differenti, non realizza nuovi modelli di aggregazione sociale, bensì puro e semplice caos. Ognuno per sé, o al limite in gruppetti, come i bambini nell’isola del Il Signore delle Mosche, con un unico comune denominatore: la violenza e l’assoluta tendenza verso il nulla.
Posso dirlo senza timore di fare anticipazioni: a spinte centrifughe, prima o poi seguono le spinte centripete; dopo l’esplosione le schegge tendono, nel lungo periodo all’accumulazione, in questo caso un punto Z.
Zeta come Zero.
Zero come Nulla.