di Franco Pezzini

KEN.JPG Per tentare d’inquadrare Ken Russell, il visionario regista morto ottantaquattrenne lo scorso 24 novembre, non è sufficiente il riferimento al cinema che pure gli portò fama internazionale. Anzitutto perché il vecchio provocatore ha recato contributi importanti anche su altri versanti: si pensi alla televisione, per cui girò opere affascinanti e da noi praticamente sconosciute (corti, documentari, sceneggiati — un esempio per tutti, Dante’s Inferno, 1967, sulla tormentata relazione tra Dante Gabriel Rossetti ed Elizabeth Siddal), impegnandolo all’inizio e poi di nuovo al crepuscolo della sua carriera; o ovviamente alla musica, grazie a una serie di pellicole come la psichedelica rock-opera degli Who Tommy, o i febbricitanti, drammatici e magari grotteschi ritratti biografici di musicisti per cinema e tv (Bartók, Elgar, Debussy, Delius, Richard Strauss, Ciajkovskij, Mahler, Liszt…), che testimoniano un’appassionata compenetrazione tra linguaggi artistici diversi. Ma un secondo motivo guarda a un fronte persino più ampio: e riguarda il collegamento tra questo cattolico (almeno in origine, con tutto ciò che comportava per il suo alfabeto simbolico) in realtà panteista, dissacratore ironico e spudorato nel segno dell’eccesso e del kitsch, cantore dei parossismi di arte, sesso e sangue, a un più variegato arcipelago di culture alternative britanniche, tra lezione del gotico vittoriano e riflessione sul mito alla Graves, politeismi assortiti e revival esoterico.


Provocazione, trasgressione, originalità e scandalo — termini usati con abbondanza anche negli articoli in memoria di queste settimane — restano in effetti facili etichette, se non comprese all’interno di un certo contesto spaziale e temporale. Le esperienze come fotografo e ballerino, la lunga attività per la BBC e l’approdo al cinema negli anni della Swinging London (subito dopo, nella commedia musicale The Boy Friend, 1971, ne arruolerà addirittura una delle figure-feticcio, Twiggy); la grande stagione selvaggia nel decennio di sperimentazioni tra la fine dei Sessanta e quella dei Settanta, quando a partire dal primo grande successo per il grande schermo, Women In Love (Donne in amore), 1969, inanella una serie di pellicole leggendarie, controverse e scabrose come The Devils (I diavoli), 1971 — che ispirato ad Huxley farà sfracelli alla Mostra di Venezia e diverrà sinonimo di blasfemia da censurare —, Savage Messiah (Messia selvaggio), 1972, Mahler (La perdizione), 1974, Lisztomania e Tommy, 1975, fino a quel Valentino, 1977, che arruola Rudolph Nureyev nei panni del divo del cinema muto; le opere degli anni Ottanta, in particolare Altered States (Stati di allucinazione), 1980, Crimes of Passion (China Blue), 1984, Gothic, 1986, Salome’s Last Dance (L’ultima Salomé) e The Lair of the White Worm (La tana del serpente bianco), 1988, meno profondamente trasgressive, ma capaci di infrangere col loro furore allucinatorio la normalizzazione imperante, e di traghettare idealmente — specie i titoli fantastici — verso l’orizzonte visionario del decennio successivo; l’ultima zampata di successo con Whore (Whore – Puttana), 1991, il ritorno alla televisione e una serie di opere minori. Un itinerario che la dice lunga sui fortissimi contrasti (culturali, sociali, di valori) di più di mezzo secolo di storia inglese dal cui osservatorio Russell vede il mondo, e che è importante leggere in stretto rapporto con un più esteso orizzonte artistico e simbolico: a partire ovviamente da quanto sedimenta nella fase migliore e più nota del suo lavoro. Si pensi al rapporto estatico con la musica, classica come moderna, senza artificiose contrapposizioni; al tipo di visione, con le derive oniriche e l’aggressività lisergica dei colori primari che richiamano alla Psychedelic art; alla passione per la ritualità che emerge in tante scene dei suoi film, e coerente con la riscoperta in Inghilterra di suggestioni antropologiche e magiche (basti rammentare eventi culturali come il varo nel 1970 della leggendaria rivista/enciclopedia Man, Myth & Magic); o ancora alla complessa dialettica con il cinema fantastico e macabro inglese (emblematico il raffronto tra The Devils e Witchfinder General di Michael Reeves, 1968, che Russell stroncava ma che innegabilmente costituì il precedente-base per tutto il filone “inquisitorio” del cinema di quegli anni). E tutto ciò, maturato in una stagione collettiva di effervescenza nella trasgressione, Russell saprà rielaborarlo via via per tempi dal clima molto diverso — il gotico come linguaggio della provocazione in quegli anni Ottanta che avevano archiviato un po’ ovunque mostri e sensuali vampire, Whore come personalissima e provocatoria risposta a Pretty Woman… Fino all’interpretazione come attore (da poco annunciata per la Imperium Pictures), di quell’Aleister Crowley con cui il Nostro aveva in comune non solo la mole fisica ma la strabordante personalità e l’ironia, l’aspirazione a illuminare, il gusto per l’eccesso, la fascinazione psichedelica e per il sesso, nonché una sorta di barocchismo magico e liturgico.
Alla luce di tutto ciò, è anche possibile che il suo geniaccio grondante ego non l’abbia reso, in termini assoluti, il “grande” che pretendeva d’essere — come commentano, acidule, voci autorevoli della critica — o che i suoi film migliori rappresentino più ipotesi di capolavori che meraviglie compiute. Così come il saluto reciproco, dopo l’incontro con Fellini a Cinecittà, tra “il Fellini inglese” e “il Ken Russell italiano”, al di là di alcune indubbie analogie e dell’ammirazione tra i due, forza un po’ le peculiarità di entrambi. Ma grande, in un suo modo speciale, Russell lo è stato senz’altro: e non solo come espressione paradigmatica di una stagione incredibile del nostro passato — magari urlata, sovrabbondante e retorica, ma vitalissima e lussureggiante d’idee, in un caleidoscopio di continue trovate. Il fatto è che, col suo lavoro indefesso fino a tarda età, l’entusiasmo indomabile, l’amore per la sperimentazione che gli faceva azzardare anche opere sbagliate e comunque minori rispetto all’età d’oro dei Settanta, questo sciamano birichino non ha mai messo la testa a posto: e ha continuato a provocare controcorrente, fuori d’ogni facile moda, indifferente agli anatemi (ora declinati nella forma dell’algida sottovalutazione, della derubricazione a caratterista della regia), con un’imbarazzante dose di cultura e d’intelligenza. Diciamocelo, Ken: ci mancherai moltissimo.