di Lara Manni

LaraManni.jpgC’è una frase nell’intervento di Simone Sarasso del 6 dicembre scorso che mi ha dato da pensare: parlando dell’esperienza di Metro 2033 di Glukhovsky, ripresa in Italia da Tullio Avoledo, Sarasso scrive: “Niente fan-fiction, no signori: solo scrittori professionisti”.
La prima parola che mi è venuta in mente è “ancora?”. Perché se un autore che conosco e stimo come Simone Sarasso serba ancora un pregiudizio di questa portata nei confronti del fan writing, forse chi conosce, studia, pratica il fandom ha fatto passare il messaggio sbagliato, sottoscritta inclusa.
Eppure ci abbiamo provato. Abbiamo ripercorso la storia delle fan-fiction seguendola in tutte le possibili derivazioni: non per nobilitarla ma per dimostrare che i sentieri laterali della scrittura sono stati imboccati già in secoli lontani e che una buona storia non si lega soltanto alla presunta originalità di un personaggio. Orlando Paladino nasce come protagonista di un poema anonimo, la Chanson de Roland, e poi viene raccontato infinità di volte (due anche abbastanza vicine, con Boiardo e Ariosto). E prima ci furono gli anonimi che ripresero ed esplorarono le strade di Omero e coloro che contribuirono a far nascere Le mille e una notte. E dopo ci furono i Janeites che amavano e riscrivevano le storie di Jane Austen: e che tuttora proliferano, dalle versioni con zombies a quella, recentissima e noir, di PD James.

Non bastasse, l’attenzione al fandom è fortissima da parte di alcuni scrittori e pensatori. Ultimo in ordine di tempo, Slavoj Zizek:

“Perché non dovremmo iniziare a produrre riscritture di capolavori classici ai quali aggiungere, senza cambiare il contenuto esplicito, dettagliate descrizioni riguardanti attività sessuali, sotterranee relazioni di potere, e così via, o semplicemente perché non dovremmo ri-raccontare la storia da un’altra prospettiva, come ha fatto Tom Stoppard nella sua riscrittura dell’ i>Amleto dal punto di vista di due personaggi marginali (Rosencrantz e Guidenstern sono morti)?”.

Prima ancora fu Ray Bradbury a invitare i propri lettori a immaginare non solo il seguito di Fahrenheit 451, ma le modifiche che i suoi uomini-libro avrebbero apportato ai testi che imparavano a memoria:

“Immaginate i vostri romanzi preferiti, di Kipling, Dickens, Wilde, Shaw, Poe, memorizzati e riportati in vita tra trent’ anni. Quali involontarie modifiche subirebbero? Usher crollerà per poi risollevarsi? Gatsby, colpito, farà venti giri intorno alla piscina? Cathy di Cime Tempestose accorrerà al grido di Heathcliff da sotto la neve? Prendiamo Guerra e pace. Non potrebbe darsi che, alla luce di un secolo di dittature totalitarie, i concetti di Tolstoj, erroneamente rammentati, vengano rielaborati politicamente così che i conflitti in seno alla società russa trovino diversa conclusione? Che dire delle dolci eroine di Jane Austen ricordate da una femminista? Verranno riallineate come pedine sulla scacchiera della vita sociale del diciannovesimo secolo in una posizione di alto rango, arroganti fanciulle in fiore?
Furore potrebbe essere ricordato non come una pacata denuncia sociale ma come un’ aperta rivolta socialista albergata in una vecchia Ford sgangherata sulla Route 66. E se un omosessuale non ancora uscito dal suo guscio semi-barocco, incaricato di riecheggiare Morte a Venezia immaginasse tra trent’ anni il bel Tazio in riva la mare, pronto a cadere tra le braccia di Aschenbach per farsi asciugare tra scoppi di risa in cui la gioia freudiana rischia di soffocare il vecchio autore? O pensate ad un macho dislessico che salta una parola su tre nel paesaggio parigino di Marcel Proust e ricorda il suo passato in modo talmente inetto da ridurlo alla dimensione di Tolouse Lautrec. E Moby Dick. Non potremmo essere tentati, richiamandolo alla memoria, di gettare a mare Fedallah, il parsi, quell’ odioso ostacolo? Il che permetterebbe ad Achab d’esser scagliato fuoribordo dalla balena bianca”.

Cercate l’estasi, scriveva Bradbury, concludendo quell’intervento. Guardate alla scrittura, ha detto Cory Doctorow, rivolgendosi proprio agli scrittori che disprezzano “la cattiva arte” delle fan-fiction, e ricordando loro come la storia di Pigmalione sia passata dalla mitologia greca a Bernard Shaw e fino a My Fair Lady, per essere ancora rievocata, in modi diversi, in canzoni, leggende, giochi, storie. “Non c’è nessuna idea nuova sotto il sole — scrive Doctorow -.Le idee sono facili. Metterle in atto è difficile”.

Però esibire le medaglie serve a poco, se non a chiarire cosa sia una fan-fiction: ovvero, per essere più che mai espliciti, una storia (libro, film, leggenda, serial) rielaborata da qualcuno che la ama. Laddove rielaborare significa esplorare le fessure, rendere evidente il non detto, aprire porte socchiuse o sbarrate. Raccontare in rete. Rendere la narrazione disponibile agli altri. Farlo gratis.
Quella che non è chiara a me è l’opposizione usata da Simone Sarasso (e non mi riferisco certo alla persona di Tullio Avoledo, che è fra i miei prediletti): lo scrittore professionista. Perché continuo a chiedermi chi sia. Un autore che vive del proprio lavoro? No, perché la stragrande maggioranza degli scrittori italiani non può permetterselo, tranne un piccolo gruppo che, suppongo, si conti sulle dita di due-tre mani al massimo. Un autore che si fa pagare per il suo lavoro o il cui lavoro viene giudicato positivamente in quanto riceve un compenso per il medesimo? Sarebbe ben triste, se così fosse: perché significherebbe che è da considerarsi vera scrittura tutto quel che viene pubblicato su carta. E non credo sia così. Inoltre- pur non appartenendo alla schiera di chi sostiene che Amazon sia il Monolite di 2001 Odissea nello spazio che ci consentirà il salto evolutivo — basta guardare le classifiche del Kindle store italiano in materia di fantasy, horror e fantascienza. Nei primi posti ci sono testi di esordienti in vendita a meno di un euro. Pubblicati sono e restano: non necessariamente da Amazon, non necessariamente in self-publishing.
Ultimo discrimine possibile: la qualità. E qui è gioco facile sostenere che un rilevante numero delle fan-fiction pubblicate nei grandi siti come Efp sono firmate da ragazze (in maggioranza) molto giovani (non sempre) con lacune in stile e coerenza e psicologia dei personaggi. E’ vero, certo: non tutti i fanwriter scrivono perché è la scrittura a interessarli. A volte a spingerli è il semplice desiderio di gioco letterario o di cambiare le sorti di un personaggio molto amato. Ma non è la causa prima: l’esperienza del fandom è quella della scrittura collettiva, dove il lettore è recensore e spesso editor di un altro autore. Con risultati, non di rado, eccellenti.
E’ vero, bisogna avere la pazienza di scavare per cercare la qualità. Ma questo non avviene anche — e ultimamente con frequenza impressionante — nel cartaceo? Sono di pochi giorni fa i dati NielsenBookScan che parlano di flessione del romanzo, in Italia. Anche, provo a suggerire, per la scarsa qualità dell’offerta, non solo per pigrizia del lettore. Ma in questo caso non è il fandom il nemico: semmai, rischia di essere una possibilità di salvezza, per tutti.

Lara Manni è una scrittrice romana: dalle sue fanfiction sono nati i romanzi Esbat (Feltrinelli), Sopdet (Fazi) e Tanit (prossimamente per Fazi). www.laramanni.wordpress.com