di Gianfranco Marelli

jose_saramago_1.jpgNella poesia “Sull’isola a volte abitata”, inclusa nella raccolta “Probabilmente allegria” del 1970, Josè Saramago racchiuse in pochi cristallini versi la praxis che in seguito esprimerà compiutamente attraverso il suo stile letterario traducibile in quel quotidiano meraviglioso, a sua volta traccia indelebile del suo impegno civile e politico. Eccoli: “Solleviamo un pugno di terra e la stringiamo tra le
mani. / Con dolcezza. / Li si contiene tutta la verità sopportabile: il contorno, la volontà, i limiti”.

Ricordarli ad un anno dalla sua dipartita, ci consentono di sentire ancor più viva la sua assenza, in quanto racchiudono la forte e scomoda presenza di uno scrittore che nel riscatto degli oppressi (“Levantado do Chão” è appunto il “romanzo proletario” che nel 1980 lo farà conoscere al grande pubblico), così come nell’affetto smisurato per loro, non ha mai sottaciuto la verità sopportabile — ma allo stesso tempo scomoda e spigolosa — di una realtà il cui contorno è segnato sia dalla possibilità della vittoria, sia dai suoi limiti crudelmente e costantemente richiamati dalla Storia, secondo i quali «non può esistere il socialismo senza socialisti».

Una verità sopportabile soltanto se l’aspirazione ad una giustizia sociale ed ad un’uguaglianza economica sappiano tradursi non solo nella soddisfazione di ogni necessità materiale, ma nella realizzazione di nuove relazioni umane fondate sul reciproco rispetto di sé, degli altri, dell’ambiente.
Saramago ci ha sempre raccontato, infatti, che «ciascuno di noi vede il mondo con gli occhi che ha, e gli occhi vedono ciò che vogliono, gli occhi fanno il mondo diverso e creano i prodigi», non certo per una visione relativista, quanto perché la volontà degli uomini, ma soprattutto delle donne, di conoscere i limiti del nostro mondo che contiene tutta la verità, deve essere pronta a smascherare la menzogna che contamina e inquina il mondo stesso; anzi, la menzogna è — a suo giudizio — la peggiore delle contaminazioni morali, in quanto circola dovunque impunemente, convertendosi ormai in una specie di altra verità, al punto da divenire, la menzogna, una delle armi del potere, e, forse, la migliore. Sì, «la menzogna come arma, la menzogna come avanguardia dei carri armati e dei cannoni, la menzogna sulle rovine, la menzogna sui morti, sulle misere e sempre frustrate speranze dell’umanità».
Ecco perché si deve avere il coraggio di dire a tutto questo: “no”; una parola necessaria¸ essenziale, ci spiega chi delle parole si è fatto maestro e con le parole ha marcato il suo stile orale/corale; e sebbene «ci mancano ancora un mucchio di parole per tentare di dire chi siamo e non sempre troveremo quelle che meglio lo spiegano», pure un semplice no — come il “non” del modesto correttore di bozze Raimundo Silva che surrettiziamente introdusse nella “Storia dell’assedio di Lisbona” così da stravolgere la vicenda dei crociati che non avevano affatto aiutato i portoghesi nella conquista della loro futura capitale — può, un semplice “no”, cambiare radicalmente la storia, rovesciare il corso degli eventi, creare prodigi fino a poco prima inimmaginabili, come quanto sta accadendo (comunque lo si voglia interpretare ed analizzare) a sud della grande “pianura mediterranea”. Perché «se io fossi dio, tutti i giorni direi Benedetti siano coloro che hanno scelto la sedizione perché loro sarà il regno della terra».
Questa è la verità insopportabile di José Saramago! Un comunista ormonale, amò definirsi una volta in una intervista: «Oltre all’ipofisi, [disse] io ho nel cervello una ghiandola che secerne ragioni affinché io sia stato e continui ad essere comunista. Quelle ragioni le ho trovate, un giorno, condensate in un motto de “La Sacra Famiglia” di Marx ed Engels: “Se l’uomo è formato dalle circostanze, bisogna formare le circostanze umanamente”. Le circostanze non le ha formate umanamente il socialismo pervertito, e tantomeno le formerà mai il capitalismo, che è pervertito per definizione. Dunque il mio cervello continua a secernere ormoni…».
Costante nelle sue idee lo è sempre stato. Fin da quando si iscrisse al partito comunista portoghese nel 1969, partecipò alla “rivoluzione dei garofani” nel 1974, per poi abbandonare progressivamente l’impegno militante e abbracciare di petto la letteratura a partire dal 1980. Ma più che di una “letteratura d’impegno”, lo scrittore lusitano ha sempre optato per un impegno che la letteratura deve assumersi nell’affrontare la realtà sociale come materiale critico a cui fornire forma stilistica. Del resto proprio in uno dei suoi ultimi post pubblicati in rete sul suo blog, con quella schiettezza che sempre l’ha contraddistinto, scrisse: “Come scrittore, credo di non essermi mai separato dalla mia coscienza di cittadino. Ritengo che dove va l’uno dovrà andare l’altro. Non rammento di aver scritto una sola parola che fosse in contraddizione con le convinzioni politiche che difendo, ma questo non significa che abbia mai messo la letteratura al servizio diretto dell’ideologia che è la mia. Vuol dire, questo sì, che quando scrivo cerco, in ogni parola di esprimere la totalità dell’uomo che sono. Lo ripeto: non separo la condizione di scrittore da quella di cittadino, ma non confondo la condizione di scrittore con quella del militante politico.”
Costante, dicevamo. Come il nome del cane presente, non a caso, nelle tre opere che caratterizzano i tre momenti decisivi della sua produzione letteraria. Costante — di fatto e di nome — lo troviamo nel romanzo Levantado do Chão, storia di tre generazioni di contadini dell’Alentejo che riuscivano attraverso la lotta di classe a levantar-se do chão, alzarsi dal suolo, rivendicando in tal modo il loro essere protagonisti della storia, rimasta fino ad allora appannaggio dei latifondisti. Il romanzo, già nelle sue prime pagine, segna l’inizio dello stile saramaghiano, con quelle domande senza punto interrogativo, quelle battute senza virgolette, quelle considerazioni che possono essere tanto del narratore come dell’autore, e si conclude (non per nulla) con la manifestazione/occupazione delle terre da parte dei contadini: «Camminiamo tutti insieme, i vivi e i morti. E, in testa facendo salti e corsette com’è giusto che faccia, precede il cane Costante, mica poteva mancare in questo giorno di riscatto e di gloria». Già, mica poteva mancare Costante/Saramago e, allora, neppure la sinistra, orgogliosa di essere lì, a fianco dei lavoratori. Oggi invece, scriverà trent’anni dopo Saramago sul suo blog, « “La sinistra non ha più la schifosa idea del mondo in cui vive” […] “Dove sta la sinistra?” Non faccio sconti, ho già pagato troppo care le mie illusioni».
Ma riacciuffiamo Costante, il cane. Protagonista indiscusso de La zattera di pietra, sicuramente la sua opera più fantasmagorica — anzi, fantasaramaghiana — dove tutto incomincia con un semplice e insignificante gesto quotidiano: Joana Carda segna il suolo col suo bastone d’olmo il confine tra la penisola iberica e il resto dell’Europa a Cerbère, nel dipartimento dei Pirenei Orientali, determinandone così l’immediata separazione dal continente (altro che Bossi e la sua secessione: quando le donne decidono di tirare la riga niente è più come prima). Da quel momento la penisola diventa un’isola, una zattera di pietra che naviga nell’oceano, sconvolgendo tutti i già precari equilibri geopolitici, e sulla quale, su di un carro trainato da due cavalli, due donne e tre uomini viaggiano tra Spagna e Portogallo per cercare di comprendere quello che è successo, cosa sta succedendo e che mai potrà succedere da quando sono stati attori protagonisti di prodigi straordinari. Ad unire la compagine è il cane al quale si è scelto di dargli il nome Costante; «Costante, se intendo bene, contiene tutte le parole finora suggerite, Fido, Pilota, Sentinella, Combattente, e perfino Angelo Custode, perché se nessuno di questi fosse costante non ci sarebbe più fedeltà, si disorienterebbe il pilota, la sentinella abbandonerebbe il suo posto, il combattente consegnerebbe le armi e l’angelo custode si lascerebbe sedurre dalla giovane che avrebbe dovuto difendere dalle tentazioni». E se non proprio un angelo custode, sicuramente José Saramago è stato un combattente, una persona salda sulle sue posizioni, sicura della propria condotta morale e per la quale la fedeltà ad un’idea è una virtù.
E, infine, Costante/Saramago compare con tutta la sua umana sensibilità nel romanzo Cecità, l’opera più conosciuta al grande pubblico, il libro più inquietante fra tutti i libri del lusitano. Ebbene, se vi è un personaggio che non è inquieto, né tantomeno inquietante nel racconto di una città che a causa di un’inspiegabile epidemia i suoi cittadini diventano progressivamente ciechi, questo è il cane delle lacrime. Si chiama così — ma, ora sappiamo bene che il suo vero nome è Costante/Saramago — perché in una storia di ciechi, in una storia accecata, i nomi sono inutili, contano i comportamenti e chi li fa: il primo cieco, il dottore, la moglie del dottore, il vecchio dalla benda nera, la ragazza dagli occhiali scuri, il cieco della pistola … e lui, il cane delle lacrime. Le lacrime che la moglie del medico versa dopo essersi persa nella città dove «non riconosce più né le strade né i loro nomi, e allora, disperata, si è accasciata su quel terreno sporchissimo, impastato di fango nero, e , priva di forze, di tutte, è scoppiata a piangere». Subito i cani la circondano in cerca di cibo, ma soltanto uno «la lecca in faccia, forse lo hanno abituato fin da cucciolo ad asciugare i pianti. La donna gli tocca la testa, scorre la mano sul dorso inzuppato, e le altre lacrime le piange abbracciata a lui». È un abbraccio liberatorio, un gesto di profonda tenerezza e sensibilità, di colei che ha saputo combattere, resistere, organizzare, e infine a sua volta ha avuto bisogno di conforto, comprensione, vicinanza; perché — come recita uno dei tanti proverbi che imperlano le storie di Saramago — «Basta a te stesso fin che ce la fai, poi affidati a chi meriti, meglio a qualcuno che ti meriti». Inutile dire che, per Saramago, sono soltanto le donne che meritano, ma soprattutto sono il lievito dell’intera umanità, poiché senza il loro lavoro, ci ricorda il poeta, la società non funzionerebbe, e senza il loro conversare «il pianeta uscirebbe dalla sua orbita, né la casa né chi vi abita avrebbero la qualità umana che le donne vi infondono, mentre gli uomini passano senza vedere o, vedendo, non si rendono conto che certe cose sono da fare in due e che, il modello maschile è superato».
È dunque facile comprendere quanto Josè Saramago sia terribilmente insopportabile, scontroso e intrattabile, quando, come il cane Costante, non c’è da asciugare le lacrime. Allora nessuno, proprio nessuno si potrà mai salvare: né la Chiesa — così sollecita nel gioire per la dipartita del suo acerrimo nemico da redigere su L’osservatore romano il necrologio, “L’onnipotenza (presunta) del narratore”, grondante odio e livore in dispregio della umana pietas — , e neppure il mondo economico-finanziario , mondo che sovrasta la politica, la cultura, la società, i cui banchieri – ci ricorda il lusitano — «non sono gente di cui fidarsi, la prova è la facilità con cui mordono la mano di chi da loro da mangiare». Tanto meno coloro che, furbescamente, hanno perso la memoria di quello che sono stati, fingendo ora di essere ciò che non sono. Perché senza memoria non sapremo mai chi siamo. E quanto valiamo.
Sì, il passato non è mai passato per chi non dimentica che, un altro comunista di ben altra stazza morale, quando era Ministro dell’Interno, promulgò la legge che in fatto di “apertura” e di “accoglienza” non ha uguali dal momento che – e citiamo pure a caso tra le tante “perle” della Turco-Napolitano – “il diniego del visto di ingresso non deve essere più motivato, salvo alcune eccezioni”, o meglio ancora “Verrà concesso solo allo straniero che già possiede un contratto di lavoro e durerà due anni. Se l’immigrato resta senza lavoro dovrà tornare in patria”. A questa alta carica dello Stato italiano, definitasi “addolorata” a proposito dell’indifferenza e assuefazione nei confronti dei troppi immigrati annegati nel Mediterraneo durante i cosiddetti “viaggi della speranza”, dedichiamo quanto di più insopportabile, per un gentleman come Giorgio Napolitano, il comunista José, “Costante”, Saramago scrisse in merito.
«Scagli la prima pietra chi non ha mai avuto macchie d’emigrazione che gli imbrattassero l’albero genealogico … Proprio come nella favola del lupo cattivo che accusava l’innocente agnellino di intorbidirgli l’acqua del ruscello a cui si abbeveravano entrambi, se non sei emigrato tu, è emigrato tuo padre, e se tuo padre non ha dovuto cambiare posto è perché tuo nonno, prima di lui, non poté far altro che andarsene con armi e bagagli, in cerca di quel pane che la sua terra gli negava. […] Quelli che sono riusciti a sopportare le violenze di sempre e le nuove privazioni, i sopravvissuti, disorientati in mezzo a società che li disprezzavano e umiliavano, smarriti fra lingua che non potevano capire, a poco a poco hanno costruito, con rinunce e sacrifici quasi eroici, moneta su moneta, centesimo su centesimo, il futuro dei propri discendenti. Alcuni di questi uomini, alcune di queste donne, non hanno perso né voluto perdere la memoria del tempo in cui dovettero patire tutte le angherie del lavoro mal pagato, e tutte le amarezze dell’isolamento sociale. Rendiamo grazie a loro, che hanno avuto la capacità di preservare il rispetto che dovevano al proprio passato. Tanti altri, la maggior parte, hanno tagliato i ponti che li legavano a quei periodi più cupi, si vergognano di essere stati ignoranti, poveri, a volte miserabili, si comportano, insomma, come se una vita decente, per loro, fosse iniziata veramente solo il giorno felicissimo in cui hanno potuto comprarsi la prima automobile. Sono quelli che saranno sempre pronti a trattare con la stessa crudeltà e con lo stesso disprezzo gli emigranti che attraversano il Mediterraneo, dove gli annegati abbondano e sono pastura per i pesci, se la marea e il vento non hanno preferito spingerli sulla spiaggia, fin quando non arriverà la guardia civile a recuperare i cadaveri. I sopravvissuti dei nuovi naufragi, quelli che hanno toccato terra e non sono stati espulsi, avranno ad attenderli l’eterno calvario dello sfruttamento, dell’intolleranza, del razzismo, dell’odio per la pelle del sospetto, della mortificazione morale. Quello che prima era stato sfruttato, e ha perso la memoria di esserlo stato, sfrutterà. Quello che è stato disprezzato, e finge di averlo dimenticato, raffinerà il proprio disprezzo. Quello che ieri hanno mortificato, oggi mortificherà con più rancore. Ed eccoli a scagliare pietre, tutti insieme, contro chi arriva su questa sponda, come se i loro genitori non fossero mai emigrati, come se non avessero mai sofferto per la fame e la disperazione, per l’angoscia e la paura. In verità, in verità vi dico, ci sono modi di essere felici che sono semplicemente odiosi» (José Saramago, Storie dell’emigrazione, 17 luglio 2009).