di Marilù Oliva

genti1.jpgLa febbre, di Francesca Genti (Castelvecchi, 2011)
Sfondo apocalittico per questo romanzo edito da Castelvecchi, scritto dalla torinese Francesca Genti, paroliera per vari gruppi musicali e conduttrice di laboratori di lettura di Tarocchi, poetessa i cui lavori sono già stati tradotti in inglese, francese, spagnolo, arabo.
Una città devastata che potrebbe occultare qualsiasi città, dove il mare è di catrame, i gatti hanno le ali, le verdure sono transgeniche, l’asfalto fonde e i marciapiedi molli danno le stesse sensazioni delle sabbie mobili, dove dei negozi rimangono vetrine in frantumi e i cinema a luci rosse hanno rivisitato il concetto di pornografia riadattandosi alle attuali proibizioni: «La nuova frontiera del porno è l’amore».
Il romanzo è narrato in prima persona da un body animal artist che si inoltra con incoscienza in questo contro-mondo dove tutto è distorto (l’impellenza è guardarsi dai poliziotti e dai loro ferocissimi cani-babbuino) con due particolari compagni di ventura: il poeta Andrej Babilonia e l’Astrologo.


Interessantissimi i tre protagonisti, ciascuno con la propria pregnanza, a partire dalla voce narrante, un ibrido multiforme, corpo-oggetto votato a un’arte metamorfica dove la simbiosi tra umano e animale non ha confini, come dimostrano i suoi stravaganti innesti: una zampa di rapace al posto della mano destra, una coda di scimmia, le gambe squamate. Il cammino dei tre racconta lo straniamento di una società in cui i poliziotti torturano e in cui i luoghi si decompongono. Dove un tempo si alzava la celebre discoteca Amnesia, ad esempio, ora sorge una grande spianata con buchi, i cui crateri sono ricolmi di cocaina. Qui i legami sono nulli o totalizzanti, l’amore si fagocita o si scansa e le danze si consumano sotto l’effetto euforico, altrimenti sono concesse solo rievocazioni: «Mi ricordo l’ultima volta che l’ho fatto: a Parigi con una collezionista. La donna era affamata di me, mi voleva, ma l’interesse non era reciproco. Tuttavia non potevo sottrarmi alla sua compagnia: la portai a cena e poi a ballare, sperando che soccombesse per sfinimento, cosa che puntualmente accadde».
Le scene si susseguono ritmiche e mai prevedibili sull’onda di un linguaggio intenso e adamantino, che tradisce gli esordi poetici dell’autrice. Perché la poesia si affaccia con garbo — basta una dissonanza, uno sguardo, un desiderio nero —, anche nei momenti più truci.

muori-milano-muori.jpgMuori Milano Muori, di Gianni Miraglia (Elliot, 2011)
Futuro prossimo, Milano. Mancano 30 giorni all’evento planetario del 2015, l’Expo. Anche qui lo scenario è apocalittico, del resto il disastro era già stato annunciato negli anni di governo precedenti (Berlusconi non c’è più, solo per questo dato varrebbe la pena di leggere il romanzo!): la disoccupazione dilaga e «c’è sempre più gente che parla da sola e rovista nella spazzatura».
Recessioni, proteste, incertezze caratterizzano quest’opera resa interessante anche da una scrittura anticonformista, originale, essenziale.
L’utile e il guadagno come cambio monetario, l’umanità prona e divisa: da una parte persone in carriera recitano la loro parte fino in fondo, come la ragazza che lavora nella società AgiAmo & Associati: «Avrà sì e no trent’anni, […] petulante sciacquetta sottoserva, niente rabbia. Lei è ancora in carriera, ci deve credere, fa parte del gioco». Dall’altra chi invece non ha lavoro e vuole sfamarsi può sempre elemosinare gli avanzi nei bar, confidando in un cameriere generoso. Andrea è uno di questi: quarantasette anni, disoccupato, presto senza una casa, esperienza da redattore di brochure in una agenzia di pubblicità, in archivio un’ex-moglie e in attivo un’amicizia che è anche sodalizio di scelte: quella con Pietro Coccoreddu — in arte Pietro Koch —, ex fattorino della ditta da cui entrambi sono stati cacciati. Ma Pietro Koch e la sua banda riservano una sorpresa truce: un piano per annientare Milano, ricettacolo di miserabili, olezzo disgustoso, i cui luoghi sono estensione spaziale della dimensione cupa di chi vi sopravvive: «Mi sto allontanando da piazzale Loreto, la voragine illuminata più vasta da qui al centro, scandita dai bagliori dei cristalli liquidi giganti della temperatura, dagli ultimi respiri delle banche luminose e colorate che incentivano la dismissione della tua piccola azienda in perdita. Tutto sta finendo, semplicemente deve scomparire, perché il mondo si è fermato. L’Italia è solo un paese minore, tra marchette e nuovi proclami transatlantici, sperando in nuovi assetti planetari ed economie francotedesche che ci possano salvare».
Sarà così l’Italia prossima? Secondo me questo autore quarantasettenne nato a Genova, residente a Milano, redattore per varie riviste tra cui “GQ” e “Rolling Stone”, potrebbe averci azzeccato, coi suoi tetri pronostici.

nina-.jpgNina dei lupi, di Alessandro Bertante (Marsilio, 2011)
Candidato prima al Premio Strega grazie alla raccolta di adesioni di un nutrito gruppo di sostenitori su facebook, piazzatosi poi nella rosa dei 12 finalisti del Premio, questo libro è già stato recensito da Carmilla:
https://www.carmillaonline.com/archives/2011/03/003823.html,
ragion per cui mi limiterò all’approfondimento di alcuni aspetti.
Si è parlato di dimensione epica del romanzo e non a torto. Gli elementi sono diversi e a volte si ripetono volutamente: la calamità, il nemico, l’avversità delle sorti, la fondazione dopo la Sciagura, una nuova fondazione in chiusura, la mitologia di un cielo a macchie e di una Madre Terra-Montagna non benigna, gli eroi calibrati dal contrappeso degli antieroi, il senso della sconfitta incombente e, quando si prospetta una vittoria, subito viene sepolta sotto il peso della fatica. I luoghi — Piedimulo e i suoi boscosi, oscuri confini — si legano a una narrazione evocativa, impregnati di valenze metaforiche ma anche concrete, sono luoghi ora avversi ora amici, ora affascinanti ora terribili, la loro maestosità non lascia spazio, in tempi difficili, a speculazioni religiose: «Prima della sciagura i paesani credevano in Dio con devota scaltrezza, come è uso nelle genti di montagna che della natura hanno rispetto e soggezione, tanto da non escludere nessuna strada, nemmeno quella più impronunciabile. Ma gli uomini si disaffezionano se non vengono guidati, la religione è una questione di abitudine».
L’uomo isolato è nudo di fronte alla violenza della natura. Soprattutto quando ignora la durezza degli inverni e del lavoro fisico, «il lungo assedio delle notti senza luna, le mattane dello spirito nate nel silenzio troppo prolungato». Il suo corpo esposto è solo un tassello insignificante di un macrocosmo cui gli sfugge il senso. E su questa dimensione di non-sense si innesca l’eterna lotta per la vita: tra paesani e banditi, tra buio e luce, tra esistenza e morte. Una lotta che l’autore tratteggia con la scrittura forte di chi, quella stessa lotta, potrebbe catapultarla, per magia, dal tempo senza data della narrazione fino all’oggi: «Chi si abitua a vivere di saccheggi poi non è capace di fare altro, lo spirito gramo è debole, manca di volontà e di tenacia. Vaneggia di forza e di violenza, illudendosi che la realtà possa essere domata dal sopruso, e non sa più imparare».