di Saverio Fattori

LetteraturaNNconta.jpg(Questo racconto fa parte dell’antologia curata da Rossano Astremo e Girolamo Grammatico La letteratura non conta niente – 10 racconti su disastrose presentazioni, edita da Citofonare Interno 7. Gli autori degli altri racconti sono Roberto Mandracchia, Marco Montanaro, Marco Candida, Elisabetta Liguori, Angela Scarparo, Giuseppe Braga, Ilaria Mazzeo, Livio Romano e Omar Di Monopoli).

La notai subito. Impossibile non notarla, ma era evidente che fosse l’unica femmina in età riproduttiva presente in sala. Tutto il resto era un indistinto magma di vecchie maestre e bibliotecarie oppresse da rogne burocratiche. La mia esposizione fu al solito precisa, in alcune collaudate dissertazioni filosofiche d’accatto, e confusa, quando cercavo di manifestare una modestia eticamente accettabile per il pubblico bifolco di un piccolo comune del mantovano. Nelle pause del mio eloquio, per nulla artificiali dal momento che piccole bolle di vuoto mi bucherellavano il cervello, cercavo solo quegli occhietti lucidi sotto una frangetta da universitaria a posto con gli esami.
Era seduta in ultima fila a braccia incrociate, spigolo esterno sulla sinistra, a pochi metri dalla porta che dava sulla scalinata, pronta alla fuga anticipata per evitare l’acquisto del libercolo e le chiacchiere più intime con lo scrittore invitato alla rassegna. I lunedì d’autore promossi dalla pro-loco e dall’assessorato alla masturbazione giovanile. Tutti i miei sforzi erano tesi a trattenerla in sala una volta terminata la presentazione. Il mio miserabile show era a suo esclusivo beneficio.


In quel tempo il libro che andavo a presentare era doloroso. Avevo descritto una strage aziendale. Il protagonista rabbioso faceva fuoco in sala mensa nell’orario di massimo afflusso. Una vendetta orizzontale che non faceva distinzione tra dirigenti e operai. L’io narrante era un pazzo paranoico che credeva di riconoscere un disegno malvagio ai suoi danni in ogni normale atto produttivo. I nemici che avevano tramato erano invisibili, e quando i nemici sono invisibili, allora tutti sono nemici. Descrivevo situazioni perfettamente riconoscibili del luogo in cui lavoravo; non risparmiavo nessuno, analizzavo e distruggevo tutto ciò che incontravo sulla mia strada, persone e comportamenti, mi ergevo a giudice supremo e condannavo tutti al massimo della pena. Ridicolizzavo le pose, la recita della vita aziendale; mettevo in evidenza presunte manchevolezze del sistema produttivo e piccinerie di operai e impiegati. Mi ero cacciato in una situazione quantomeno imbarazzante in nome del sacro fuoco dell’arte narrativa. Tutto per cinquecento euro di anticipo e contratto firmato con una piccola casa editrice poco distribuita in libreria. Un noto critico ha asserito che il giovane scrittore deve passare su tutto, anche sul cadavere della madre, se necessario. Senza specificare quanto i cadaveri debbano rendere in termini economici. Il mio libro, ne ero ben conscio, non avrebbe costituito nessun botto editoriale, non sarei riuscito a licenziarmi e andavo a sputare nel piatto in cui mangiavo. Come non bastasse ero oppresso dall’ansia. Mi assaliva la mattina presto e non mi permetteva di riprendere sonno. Ero anche preda di inattesi sensi di colpa. Un’improvvisa lucidità di visione mi aveva fatto comprendere che le persone con cui avevo a che fare in fabbrica, poco avvezze ai tormenti intellettuali, mantenevano, a loro insaputa, un’integrità e un rigore di spirito che gli inetti scribacchini come me avevano perso. Invidiavo apertamente il loro pragmatismo e la loro verginità; era come se mi sentissi finito, esausto, distrutto dal vizio di voler dare spiegazioni logiche a ogni comportamento umano, anche il più automatico e istintivo.
Il libro, come previsto, aveva avuto un esito commerciale risibile, ma un paio di testate nazionali di sinistra lo avevano degnato di poche righe e qualche biblioteca della zona mi aveva contattato per un mini tour promozionale che andava a chiudersi con quella serata. La bibliotecaria che mi affiancava aveva letto il libro, circostanza non sempre scontata e di cui le ero grato; dalla sua copia esplodevano mini post-it gialli con annotazioni, commenti brillanti e rimandi a libri con tematiche attinenti. Conosceva Memoriale di Volponi e gli accostamenti a questo libro mi avevano fatto piacere.
Stavo arrivando con grande fatica al mio pezzo forte, quando la donna dei miei sogni, con un breve batter di tacchi, lasciò la postazione. La voce mi si strozzò in gola proprio nell’istante in cui avrebbe dovuto impennarsi. Dove avevo sbagliato? Troppa arroganza? Troppa umiltà giudicata come posa inutile e scontata? Rimasi in silenzio alcuni secondi. Le maestre attendevano a occhi sgranati; l’aria s’era fatta greve, le donne erano nella fremente attesa di un enorme coito di concetti inoppugnabili e seducenti che le avrebbe a breve inondate.

Quel po’ che vidi di lei non fu granché. Altezza italica ancorata al metroessessanta, fianchi larghi. La circostanza non mi rasserenò. Quando mi fisso su un risultato e fallisco non mi faccio sconti e sono facile alla depressione. Il pezzo forte del mio monologo consisteva nel citare a sproposito un paio di scrittori che le maestre di sicuro non conoscevano (Wallace e McCarty), e aggiungere che quando si leggono autori così grandi, quando si entra in contatto con intelligenze così folgoranti, uno dovrebbe avere la dignità di smettere di scrivere e di consegnarsi unicamente all’amore per la letteratura in forma passiva. Detto questo, mi concedo una pausa teatrale di pochi secondi, fisso un punto sopra le teste del pubblico, come se il senso di colpa mi opprimesse. Scrivo perché non ho alcun senso del pudore e della vergogna. Dovrei suicidarmi io, non David Foster Wallace. Però accatastate nelle librerie troverete pile di libri peggiori dei miei. E non saprei dire se questa circostanza mi dà più rabbia o più conforto.
A questo punto, il pubblico prende le distanze dai miei vaneggiamenti con gesti sghembi sulle sedie e colpi di tosse secca, e nell’ambiente piomba un silenzio intollerabile. Al giovane scrittore che giovane non è più, né mai lo è stato, si possono concedere piccole stravaganze che in fondo danno un senso a quei lunedì senza televisione presa in ostaggio da mariti e posticipi di serie A. Evocare il suicidio però è sempre giudicato eccessivo, di cattivo gusto, specie di fronte a persone over sessanta che a quella vita si stanno attaccando, proprio quando sta sfuggendo piano piano. Me ne rendo conto, ma so che alla prossima presentazione, se mai dovessero organizzarmene altre, commetterò lo stesso errore.
Avevo tirato il pippone senza la necessaria verve drammatica? La fuga della giovane ammiratrice era stato un cazzotto allo stomaco e le ultime parole mi erano morte in bocca, incomprensibili.
Quando già avevo perso ogni speranza, eccola affacciarsi alla porta e riguadagnare il posto. Forse mi scappa un sorriso. È davvero carina. Capelli castani, zigomi puntuti, efelidi da studentessa di materie umanistiche con una vaga idea intorno all’argomento della tesi. Il culo non è poi così grosso, l’esigua circonferenza della vita rende competitive le proporzioni. Sono entrato in quella fase senile in cui la carne giovane provoca istinti primordiali per il solo fatto che la femmina è in età riproduttiva ottimale. Frequenta la biblioteca comunale, e la circostanza non può che darmi conforto. Continuo a vagheggiare un ideale di donna in cui forma e sostanza danno vita a una creatura perfetta. In realtà l’unica cosa che vorrei è una copia di me stesso che fa pipì da seduta.
Riprendo con una forza inattesa. L’ossigeno irrora il sangue e spazza la leggera depressione. Attacco con alcuni aneddoti che dovrebbero evidenziare la mia simpatica inadeguatezza e che le anziane donne dovrebbero apprezzare. In fondo sono stato ADDIRITTURA in televisione, anche se una volta uscita dallo studio, la responsabile del mio ufficio stampa non aveva commentato la performance, lasciando intendere che mi fossi giocato male quell’opportunità. Non mi guardava nemmeno in viso, mentre gli assistenti toglievano il microfono. Continuava a stringersi una cartella al petto e a mordersi il labbro. Si era trattato di un’ospitata a un talk show mattutino; l’argomento ruotava attorno al mio penultimo libro, ma gli altri ospiti erano troppo noti rispetto a me, abituati a gestire quel cavallo stupido e imbizzarrito che è la televisione. La conduttrice mi aveva dato sempre meno la parola, rendendomi nervoso e inconcludente. Nei rari interventi non ero riuscito a rendere appetibile il prodotto. Avevo detto frasi incomprensibili che andavano a concludere il corso interiore dei miei pensieri.
Volevo finire in fretta la presentazione, per riservare i pochi aneddoti rimasti alle chiacchiere informali che mi auguravo non sarebbero mancate.

– A che ora del giorno scrive? Ha orari precisi o dipende dall’ispirazione?

Questa frase tuonò nella sala, prima ancora che la bibliotecaria, dopo una mia pausa interminabile, avesse pronunciato l’esortazione di sempre, se ci sono domande…? Risposi che gli scrittori si possono dividere in due macro categorie, quelli che scrivono a orari fissi, come svolgessero un comune lavoro d’ufficio, e quelli che passano notti insonni, tra droga e alcol, buttando giù cartelle come fossero preda di scrittura automatica, magari dopo mesi di completa inattività.
Io non rientro in nessuna delle due categorie. E non riesco mai a rispondere a questa domanda o forse neppure ho risposto e quella sera la domanda banale nemmeno mi fu posta. Io confondo date e luoghi.

Quaranta minuti dopo siamo seduti sulla panchina di un parco circondato da piccole statue di cemento, deturpate da ammacchi e scritte ingiuriose, i peni, quasi tutti asportati, sono stati ridisegnati con pennarelli indelebili, un paio di prepuzi arrivano fino al ginocchio. Non fa ancora freddo, o forse la sovreccitazione mi ha alzato la temperatura corporea. Come al solito parlo continuamente, il silenzio mi atterrisce, temo che la tensione possa allentare rompendo l’incantesimo di una serata che si sta mettendo al meglio, al di là di ogni ragionevole previsione. Barbara ha la passione per la scrittura fin da quando era piccina. Non è stato facile spiegarle perché non bisogna perdere tempo vitale a leggere libri di Fabio Volo. Dice che ho ragione, ma leggo nei suoi occhi che non l’ho convinta, insomma Fabio dice quelle cose che sono già dentro di lei, ma le dice bene. Dico ok, capisco, ma penso vaffanculo. Dice che una sua amica ha pubblicato un libro che non ha mai visto in libreria, a parte quella del paese dove hanno organizzato una presentazione e vendute 45 copie. Le chiedo se si ricorda il nome dell’editore. Gli smonto l’impresa dell’amica, alzo gli occhi al cielo, faccio un lungo respiro e le dico che si tratta di un editore a pagamento. Le spiego un po’ come vanno le cose in questo porco mondo dell’editoria, di quanto sia faticoso emergere, di quanto il fattore fortuna sia determinante, di quanti siano i presunti scrittori che sgomitano e starnazzano come tacchini impazziti certi del proprio talento. Per puro caso non sono finito nella melma del contributo editoriale. All’epoca del mio primo libro non sapevo nulla dell’ambiente. Riesco a farmi grande e a denigrarmi allo stesso tempo. L’elastico, il gioco a doppio binario, funziona. Barbara mi consola e mi fa un sacco di complimenti, scambia la mia oggettività per modestia o viceversa. Dico che ho venduto pochissime copie e che non sono riconosciuto come uno scrittore importante, nessun editore grosso e nessun agente letterario si sono buttati sulla mia persona. Siamo in tanti, siamo troppi, c’è molta dispersione, troppe informazioni, tutto è troppo veloce, sugli scaffali delle librerie non resistono nemmeno gli autori pubblicati da Mondadori. Forse non capisce, dice che vorrebbe essere al mio posto, con tre libri scritti e gente che mi sta ad ascoltare. Quando ha visto il programma de I lunedì d’autore, ha digitato il mio nome in Google e ha trovato molti riferimenti, anche il mio passaggio televisivo sezionato in filmati da dieci minuti su You Tube. Dice che non è vero che me la sono cavata così male. Dice che sono troppo modesto. Dice che dopo la presentazione aveva una gran voglia di parlarmi direttamente. Ripete che ho detto cose bellissime e che non aveva mai sentito prima. Penso che sia il lato positivo di avere a che fare con una fan di Fabio Volo, è facile risultare spiazzante e originale.

La bibliotecaria non aveva neppure terminato i ringraziamenti e già mi ero alzato dalla sedia bloccando l’uscita. Barbara mi aveva urtato, qualche balbettio e si era sciolta a fatica. È timida. Incredibilmente timida. Forse ha la metà dei miei anni e io non riesco più a mettere in relazione la bellezza e la gioventù con la timidezza. Me li figuro tutti arroganti, i giovani. Li vorrei punire tutti. Dice che posso chiamarla Barbarina, la chiamano così, anche i professori a scuola. Rispondo che i diminutivi non mi piacciono. Mi fissa ammirata. Ogni frase che dico sembra la cosa giusta, sono in stato di grazia. Barbara, non ci campo di scrittura, lavoro in una fabbrica del cazzo. Non ci camperò mai. Cerco di essere oggettivo, non voglio farmi compatire, cerco di abbracciarla, lei non si divincola ma nemmeno risponde alla stretta. La mia è stata una mossa affrettata, assurda, mi stacco e riprendo a parlare come non fosse successo nulla. Parlo di film che non ha mai visto; a volte finge, confonde i titoli di pellicole vecchie di vent’anni con altre più recenti e commerciali. Il suo Iphone si illumina. Sembra sollevata e digita la risposta in fretta. Mi rendo conto che è un messaggio che aspettava La cosa mi mette di cattivo umore. È la Titti! Le ho detto di raggiungerci, ti vuole conoscere. Chi? La mia amica che ha pubblicato. A pagamento, le ricordo, sono sempre più infastidito. La Titti è una strana, aveva un fratello gemello, ma è morto per una malformazione congenita al cuore. Anche lei sembra che ha il tempo contato, ma non è giù di morale, solo ha più fretta di noi di fare le cose. Certo, credo di capire, c’è di che scrivere un romanzo. Infatti lei il romanzo l’ha scritto su questa storia, sul fratello fantasma, dovresti leggerlo. Lei ci parla, insomma non è giù di morale perché per lei è come non fosse morto. Non l’ho mai vista piangere. Negazione del lutto, potrebbe essere pericoloso. Non riesco a evitare di fare battute da antropologo che studia i comportamenti della specie tenendosene alla larga. Non posso farne a meno. Un po’ devo tenere il profilo dello scrittore, un po’ sono stronzo di mio. Barbarina arriccia il naso. Pericoloso, in che senso? È come se non gli importasse nulla della morte del fratello, ma solo perché la nega, però a un livello più profondo sedimenta e un giorno esploderà quando meno te l’aspetti e nelle forme più imprevedibili. In che senso nega la morte? Lei è andata al funerale, porta i fiori e tutto quanto… Certo, non è pazza, solo non riesce a capire davvero la portata della morte e questo la salva. Sparo cazzate a raffica come fossero perle del pensiero occidentale.
La Titti è esattamente come l’ho immaginata. Piercing dappertutto, giubbotto e baschetto di pelle. Sembrerebbe una red skin del collettivo lesbico. Non sono pronto a tutto questo cuoio e acciaio. La serata nella biblioteca di C. sta avendo risvolti imprevedibili. Non mi piacciono le sorprese, mi sono reso conto che il mio scarso talento non riesce a trasformarle in narrativa decente. In una frazione di secondo capisco tutto e inizio a preoccuparmi. La Titti si sta trasformando nel gemello maschio o sta germinando in lei una doppia identità ermafrodita. Salta qualunque tipo di convenevole, non ha tempo e civiltà, è ubriaca, ondeggia sulle gambette modello fratelli Ramones e mi si piazza davanti. Mi ero scordato dell’alito da marijuana misto a birra. Ho letto il tuo libro, quello che hai presentato stasera. Perché non l’hai fatta davvero la strage nella tua fabbrica? Sono contento che tu l’abbia letto, mi fa piacere che le persone mi dedichino il loro tempo. Ancora non mi sono abituato all’idea. I politici alla televisione non rispondono alle domande. Sei in politica? No. Cerco di accennare un sorriso, ma viene storto, inizio a innervosirmi. Ho letto il libro e mi era pure piaciuto. Poi ho cercato in internet e mi sono accorta che in Italia non era mai stata fatta nessuna strage del genere in una fabbrica. Un altro bluff. Voi scrittori siete un bluff. Anche tu scrivi. Me lo sono pagato. O scrivevo questo libro, o iniziavo con l’eroina. O uscivo pazza. Penso che abbia adottato tutte e tre le soluzioni. Barbarina ti avrà già raccontato. Comunque non ho raccontato balle, tutto quello che ho scritto è vero. Barbara si stringe nelle spalle come a confermare e si guarda in giro con molto scrupolo. Non mi piace questo atteggiamento, non è casuale. È come se si accertasse di non avere intorno testimoni. Ha cambiato espressione, di colpo sembra invecchiata di una decina d’anni. Si rolla una paglia tutta ingobbita, sembra un avvoltoio. È la prima della serata, la prende con grande intimità da una borsetta di maglia della Titti. Con la fiamma dell’accendino sotto il mento sembra un demone. Mi piace pensare che le due se la leccano, così, tanto per allentare la tensione che è sul limitare della paura. Barbara non parla e non parlerà più. Il suo compito era portarmi in quel parco con i putti eunuchi.
Sai, per tutto il libro mi avevi convinto che tutta la gente della fabbrica era da ammazzare senza pietà. Era tutto così tragico e vero. Tu non sai quanto mi hai deluso. Quasi quasi partivo io e li facevo fuori con le mie mani. Mi stai facendo un complimento. Il più grande che uno scrittore si possa sentir fare, creare immedesimazione nel lettore. Frena bamboccio. Non mi sono iscritto a nessuno dei tuoi corsi di scrittura. Mai fatti, non li ritengo utili e non ho le basi accademiche per insegnare tecniche e parlare di libri non miei. Il punto è che hai scritto solo falsità. Tu vai in giro a raccontare coglionate, anche adesso stai raccontando coglionate. E non li hai ammazzati. Non hai ammazzato nessuno… Tu sei una merda. Un merda qualunque.
La Titti e la Barbarina mi riserveranno lo stresso sfregio recato ai putti? Qualcuno arriverà mai a giustiziare uno scrittore deludente come essere umano? Se grido, le maestre e la bibliotecaria interverranno in mio aiuto? Esiste un comune del mantovano con un parco simile a questo descritto? La Titti e la Barbarina mi porteranno a bere Guiness di merda nell’unico bar della zona? Mi chiederanno l’amicizia su Facebook e ci invieremo link del Popolo Viola?